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25 Luglio 2023


“Reati di criminalità organizzata” ed intercettazioni: è davvero utile un decreto-legge di interpretazione autentica?


1. Le accese polemiche suscitate dalle dichiarazioni del Ministro della Giustizia Nordio sul concorso esterno e sull’opportunità di una sua riforma[1] sono state immediatamente sopravanzate dalla nuova diatriba sulla nozione di “reati di criminalità organizzata”[2] da osservare ai fini dell’applicazione della disciplina in tema di intercettazioni alimentata dalle dichiarazioni e dai successivi proclami interventisti della Presidenza del Consiglio, probabilmente con l’intento politico di disinnescare nella narrazione mediatica il racconto di un Governo indulgente con le mafie e deciso a smantellare alcune delle fattispecie cardine preposte al loro contrasto e di proporre quello opposto di un Esecutivo intransigente su questo fronte e pronto ad intervenire immediatamente ogni qualvolta si renda opportuno puntellarne la minima crepa[3].

Comunque, quali che siano le ragioni, la nuova querelle è scaturita dalla sottolineatura da parte di un esponente di spicco del Governo delle criticità insite in una decisione della Suprema Corte di circa un anno e mezzo fa che, patrocinando un’interpretazione restrittiva e garantista del concetto di “reati di criminalità organizzata” impiegato nell’art. 13 d.l. n. 152/1991 per individuare le fattispecie rispetto alle quali si può far ricorso alla disciplina agevolata in materia di intercettazioni (e, dunque, anche e soprattutto trojan e malware), avrebbe aperto le porte ad un pericoloso colpo di spugna rispetto a numerosi procedimenti penali in corso aventi ad oggetto reati a matrice mafiosa diversi da quelli associativi, determinando l’inutilizzabilità del decisivo materiale probatorio già acquisito.

La sentenza della Suprema Corte, Sez. I, 30 marzo 2022, n. 34985, Di Lorenzo (già efficacemente illustrata e commentata sulle pagine di questa rivista[4]) ha affermato, infatti, che “in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, per delitti di «criminalità organizzata», di cui all’art. 13 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, conv., con modif., dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, devono intendersi tutti i reati di tipo associativo, anche comuni, correlati ad attività criminose più diverse, ai quali è riferito il richiamo ai delitti elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., con esclusione delle ipotesi di mero concorso nei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolarne l’attività”. In questo modo ha escluso la possibilità di disporre intercettazioni secondo il doppio binario ‘agevolato’ antimafia per i delitti aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1 c.p. e, cioè, perché commessi o con metodo mafioso o con la finalità di agevolare un sodalizio mafioso.

L’asserita gravità del problema ha portato il Governo ad emanare un comunicato stampa del 17 luglio del 2023 con cui ha annunciato l’immediata adozione, mediante un decreto-legge, “di una norma d’interpretazione autentica, che chiarisca cosa debba intendersi per “reati di criminalità organizzata” e che eviti l’applicabilità in senso generalizzato dell’interpretazione di recente avanzata dalla Corte di Cassazione” ai procedimenti penali in corso nella sentenza n. 34985 del 2022, dal momento che «ciò potrebbe comportare l’inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito sulla base dell’interpretazione precedente, che consentiva l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata anche in assenza della contestazione del reato associativo».

 

2. Fatta questa brevissima ricapitolazione dei fatti, occorre chiedersi: ma le cose stanno davvero così?

Si tratta realmente di un vulnus così grave nella legislazione antimafia apertosi a causa di una innovativa opzione ermeneutica della Suprema Corte tale da legittimare un intervento dell’Esecutivo mediante decretazione d’urgenza per fornire una interpretazione autentica onde evitare effetti di favore per le mafie in numerosi procedimenti penali in corso?

Davvero ci sono contrasti ermeneutici sul punto? Davvero il decreto-legge è la fonte più opportuna, recte: necessaria? Davvero la legge di interpretazione autentica è la via più appropriata? Davvero il rischio è così elevato per i procedimenti penali in corso? Ci sarebbero altre alternative percorribili se si volesse effettivamente ripensare la categoria di “reati di criminalità organizzata”?

Per comprendere meglio la questione è opportuno verificare preliminarmente se il principio di diritto enunciato dalla richiamata giurisprudenza sia realmente innovativo e foriero di esiti irragionevolmente favorevoli nei procedimenti penali pendenti in materia di criminalità organizzata.

In secondo luogo, in caso di risposta affermativa a tale primo quesito, si deve valutare se un decreto-legge recante una legge di interpretazione autentica sia davvero la fonte adatta per superare tali problemi ed espandere il concetto di “reati di criminalità organizzata” includendovi anche quelli aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1 c.p.

 

3. Per quanto attiene al primo punto, va innanzi tutto chiarito che la sentenza richiamata dai comunicati stampa del Governo non è recentissima e, soprattutto, diversamente da quanto rappresentato, non ha introdotto ex abrupto un principio di diritto innovativo, in netta discontinuità con gli indirizzi ermeneutici del passato con impreviste ricadute sui procedimenti penali in corso a causa della sopravvenuta inutilizzabilità del materiale probatorio invece già acquisito.

Anzi, esattamente al contrario, ribadisce un principio di diritto più che consolidato in giurisprudenza grazie anche a tre interventi conformi delle Sezioni unite penali, seppur concernenti questioni processuali non omogenee (talune, infatti, inerivano alla sospensione feriale dei termini e altre alle intercettazioni).

Come precisa attentamente un passaggio argomentativo contenuto nel cuore della  decisione della Prima Sezione portata solo parzialmente alla ribalta del dibattito pubblico, era stato il giudice di merito impugnato a ravvisare impropriamente un contrasto giurisprudenziale sul punto che invece non sussiste affatto, dal momento che le Sezioni unite Scurato del 2016, richiamando il precedente arresto delle Sezioni unite Petrarca del 2005 e Donadio del 2010, hanno espressamente ribadito che "per reati di criminalità organizzata devono intendersi non solo quelli elencati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., ma anche quelli comunque facenti capo a un'associazione per delinquere, ex art. 416 cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”.

Se non pare, dunque, possibile intravedere alcun rilevante elemento originale nella decisione della Suprema Corte del 2022, tuttavia è possibile che il Governo, per ragioni politiche, non condivida pienamente tale orientamento interpretativo e patrocini un ampliamento della disciplina delle intercettazioni per i reati di criminalità organizzata che abbracci anche quelli aggravati ex art. 416 bis.1 c.p.

Ed infatti la soluzione ermeneutica adottata da tempo sul punto dalla Cassazione e tendente a ridurre – in coerenza con i principi generali del nostro ordinamento e all’esito di un bilanciamento ponderato tra i confliggenti interessi in gioco, vale a dire l’acquisizione agevolata di materiale probatorio per reati mafiosi e il diritto alla riservatezza delle comunicazioni e conversazioni del singolo – il concetto di criminalità organizzata ai soli contesti associativi stabili e duraturi finalizzati alla commissione di delitti o attività mafiose, per quanto prima facie ragionevole e condivisibile (perché preclude la possibilità di disporre intercettazioni con modalità più snelle rispetto a reati commessi avvalendosi del metodo mafioso da soggetti che, però, non appartengono ad alcun gruppo criminale mafioso realmente esistente e operativo), fa sorgere qualche incertezza se si tiene conto del carattere plurale delle aggravanti mafiose e, cioè, del fatto che nell’art. 416 bis.1 c.p. sono contemplate due circostanze aggravanti ad effetto speciale tra loro molto diverse per natura giuridica, caratteri e presupposti applicativi, quella del c.d. metodo mafioso e quella della c.d. finalità mafiosa[5].

Re melius perpensa, la regula iuris di cui all’art. 13 d.l. n. 151/1992 così come co-definita dalla giurisprudenza di legittimità, tramite l’attribuzione di significato ad una nozione polisemica ed aperta quale quella di “reati di criminalità organizzata” non comprensiva delle fattispecie circostanziali mafiose, parrebbe difficilmente contestabile rispetto all’aggravante del metodo mafioso, ma non anche rispetto a quella della finalità mafiosa.

Detto altrimenti: nella nozione in parola non possono essere inclusi tramite una lettura estensiva i delitti aggravati dal c.d. metodo mafioso, mentre si potrebbe al più discutere se farvi rientrare quelli aggravati dalla finalità mafiosa.

Secondo l’unanime orientamento della Cassazione, infatti, nel primo caso si può prescindere dalla esistenza effettiva di un gruppo criminale organizzato alle spalle degli esecutori materiali di un delitto commesso avvalendosi della forza di intimidazione mafiosa, ragion per cui ci si trova al cospetto di un reato che non è di criminalità organizzata, perché non solo non si sostanzia in una associazione per delinquere o mafiosa, ma anche se commesso in concorso tra più persone non presenta alcuna correlazione diretta con questa[6]. Anche perché se esistesse la prova (o in fase cautelare i gravi indizi) della esistenza effettiva di un sodalizio mafioso connesso con l’esecuzione di un reato aggravato dal metodo mafioso sarebbe altamente probabile, se non praticamente certo, che venisse contestato al reo non solo quest’ultimo, ma anche il delitto di partecipazione associativa mafiosa ai sensi dell’art. 416 bis, comma 2, c.p. e, dunque, un reato per il quale si applica la disciplina de qua in materia di intercettazioni.

Esattamente all’opposto, invece, come da ultimo ribadito dalle Sezioni unite Chioccini 2019[7], si è unanimemente formato un indirizzo ermeneutico che, ai fini della configurabilità in capo a un non affiliato della aggravante mafiosa soggettiva della finalità di agevolazione delle attività di un gruppo criminale, richiede l’effettiva esistenza di quest’ultimo, ma prescinde (a differenza del concorso esterno) dalla verifica dell’efficacia causale sul suo mantenimento in vita o rafforzamento. Ciò implica, allora, che in questo diverso caso si potrebbe sostenere che la nozione “reati di criminalità organizzata” in parola possa essere dilatata fino ad includere anche tale figura circostanziale mafiosa di natura soggettiva, dato il rapporto di necessaria correlazione che questa precipua fattispecie aggravata presenta con una associazione di tipo mafioso effettivamente esistente e con la sua realtà organizzativa stabile.

Breve: sebbene appaia ragionevole ed equilibrata l’interpretazione data alla categoria “reati di criminalità organizzata” dalla giurisprudenza di legittimità, implicando il concetto stesso di criminalità organizzata per ragioni tautologiche l’esistenza di una associazione per delinquere, potrebbe eventualmente essere temperata permettendo la sua estensione non a tutti i reati monosoggettivi aggravati da circostanze mafiose realizzati in concorso tra più persone, ma solo a quelli aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1 seconda parte c.p.

Una soluzione massimalista rischierebbe, invero, di esser considerata manifestamente irragionevole ai sensi dell’art. 3 Cost., arrivando ad assimilare situazioni profondamente diverse tra loro, quali reati associativi in senso stretto o connessi con sodalizi effettivamente esistenti e reati monosoggettivi commessi in concorso tra più persone al di fuori di qualsiasi dinamica associativa.

 

4. Se, allora, si ritenesse opportuno estendere la nozione di reati di criminalità organizzata impiegata nell’art. 13 d.l. n. 152/1991, e anche in altre norme processuali, bisogna chiedersi se sia davvero necessario a tale scopo il ricorso da parte del Governo ad un decreto-legge recante una legge di interpretazione autentica foriera di effetti in malam partem nei procedimenti penali in corso.

Una simile eventualità pare davvero poco praticabile, perché rischierebbe di andare incontro ad una più probabile censura di illegittimità costituzionale, sia per la fonte di produzione del diritto utilizzata, il decreto-legge, difettandone i presupposti applicativi della necessità ed urgenza, sia per la stessa legge di interpretazione autentica, non avendo una portata meramente ricognitiva di un significato incluso nell’enunciato normativo.

Il primo punto di criticità è certamente la scelta dichiarata di voler ricorrere alla decretazione d’urgenza già di per sé difficilmente compatibile con una legge di interpretazione autentica in ragione del suo carattere instabile, potendo perdere efficacia ex tunc in caso di mancata conversione in legge entro 60 giorni e, quindi, produrre effetti a cascata opposti rispetto a quelli che si prefigge, aumentando cioè problemi interpretativi, piuttosto che risolverli. È appena il caso di rilevare che laddove si volesse assolutamente percorrere tale opzione, per evitare simili problemi si dovrebbe almeno subordinare l’entrata in vigore del decreto-legge all’eventuale conversione in legge.

Anche perché la giurisprudenza costituzionale ammette oggi pacificamente la sindacabilità da parte della Consulta della opzione in parola tutte le volte in cui ci siano dei vizi in procedendo e difettino i presupposti della necessità ed urgenza[8].

Appare difficile, invero, ritenere che nell’ipotesi in parola, in cui ci si trova al cospetto di un indirizzo giurisprudenziale non nuovo, imprevisto e distonico rispetto alle intenzioni politiche del legislatore, ma di un consolidatissimo orientamento ratificato a più riprese dalla Corte di Cassazione, peraltro rispetto ad una disposizione che è in vigore da oltre trent’anni, sussista effettivamente il requisito della necessità e dell’urgenza, anche perché non è dato sapere il numero di procedimenti penali a serio rischio per la inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito con malware o trojan utilizzati illegittimamente, considerato il fatto che è ius receptum tale regola e, quindi, difficilmente ci potrebbero essere tante altre vicende giudiziarie aperte in cui si sostiene la soluzione avallata dalla corte territoriale napoletana e cassata dalla Suprema Corte.

Il rischio di una declaratoria di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 77 Cost. sarebbe tutt’altro che remoto, con non poche ricadute problematiche sul versante proprio dei procedimenti penali in corso rispetto ai quali si riespanderebbe nuovamente la disciplina pregressa.

 

5. Suscita altrettante perplessità anche la scelta di intervenire con una legge di interpretazione autentica, sia per i tradizionali problemi che questa pone in generale rispetto alla separazione dei poteri determinando un’invasione di campo del legislativo rispetto al giudiziario, sia per la sua controversa natura nel caso specifico, dal momento che non sembrerebbe essere semplicemente cognitiva, ma anzi decisoria e costitutiva di una disciplina innovativa e diversa rispetto a quella esistente ricavabile dal campo semantico della locuzione controversa, con ulteriori ricadute sul piano della possibile retroattività, complicate dal fatto che si trova in un territorio di confine tra il penale processuale e sostanziale[9].

Com’è noto, le leggi di interpretazione autentica dotate di portata ricognitiva e retroattiva rappresentano una fonte del diritto discrezionalmente utilizzabile da parte del legislatore anche in ambito penale, come peraltro è di recente accaduto con il d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito in legge n. 215/2021 sul c.d. peculato dell’albergatore[10].

Allo stesso tempo, però, questa species di provvedimenti legislativi non costituisce una zona franca rispetto al controllo di costituzionalità che lascia, quindi, spazi di manovra insindacabili da parte della Consulta, ma può essere oggetto di vaglio da parte della Corte costituzionale tutte le volte in cui oltrepassi il limite del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. ed introduca ingiustificate disparità di trattamento a favore di talune categorie di situazioni; oppure, quando travalichi i limiti della tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti in uno Stato di diritto, della coerenza e certezza dell’ordinamento giuridico e del rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario[11].

L’adozione di una legge interpretativa in questa circostanza sarebbe allora problematica perché non si limiterebbe ad una mera ricognizione di significato come richiesto dalla sua natura, ma a ben vedere andrebbe a modificare la disciplina esistente che è riferita ai “reati di criminalità organizzata” e, dunque, a quelli solo associativi, senza lasciare spiragli ad una possibile dilatazione in via ermeneutica rispetto a figure di reato non connesse in alcun modo con la delinquenza in forma associativa.

Inoltre, porrebbe dei problemi sul fronte del diritto intertemporale, non essendo scontata la sua applicazione retroattiva che, invece, sarebbe proprio il fattore motivante la sua adozione.

Essa, infatti, andrebbe ad incidere su una norma penale processuale dalle significative ricadute penali sostanziali e, quindi, potrebbe sollevare dubbi sulla possibilità di far retroagire le sue statuizioni, in forza del principio di irretroattività della legge penale in malam partem di cui all’art. 25, comma 2, Cost. Ma analoghe incertezze potrebbero sussistere anche se la si considerasse come una riforma schiettamente processuale, dal momento che le nuove disposizioni relative al rito possono applicarsi a fatti pregressi purché riferite ad atti processuali non già conclusi[12].

Infine, la sua adozione darebbe vita ad una di quelle ipotesi di interpretazione autentica irragionevoli e censurate da tempo dalla Corte costituzionale, andando a tradire l'affidamento del privato maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali, pur se la disposizione retroattiva sia dettata dalla necessità di far fronte ad evenienze eccezionali (ex plurimis, sentenze n. 24 del 2009, n. 374 del 2002 e n. 419 del 2000, seppure inerenti a campi di materia differenti).

In questa ipotesi, infatti, ci si trova al cospetto di un diritto vivente già sedimentatosi da tempo nella giurisprudenza di legittimità, anche con l’avallo delle Sezioni unite (oggi dotato, com’è noto, di una ‘stabilità rafforzata’ dopo la riforma del 2017 dell’art. 618, comma 1 bis, c.p.p.). Una eventuale legge di interpretazione autentica ‘mascherata’, contra reum e diretta ad allargare il novero dei reati di criminalità organizzata anche a quelli aggravati ex art. 416 bis.1 c.p. andando ben oltre i limiti di significato dell’enunciato normativo, lederebbe l’affidamento che tutti i consociati ripongono da tempo sul punto e travalicherebbe la separazione dei poteri ribaltando imprevedibilmente l’orientamento interpretativo sedimentato in giurisprudenza.

 

6. Se, dunque, l’adozione di un decreto-legge di interpretazione autentica appare opzione poco proficua da percorrere da parte di un legislatore intenzionato a rivedere la categoria di “reati di criminalità organizzata”, quali sarebbero le alternative possibili se si volesse comunque superare il principio di diritto consolidato in giurisprudenza?

Le possibilità più coerenti e razionali anche con i principi fondamentali di matrice costituzionale sono due.

La prima alternativa potrebbe essere una legge ordinaria con cui riscrivere l’art. 13 d.l. n. 152/1991 (e, volendo la disciplina in materia di sospensione feriale dei termini per introdurre così un concetto circolare ed unico), modificando la locuzione “reati di criminalità organizzata” ivi contenuta tramite l’aggiunta di un esplicito riferimento “ai delitti di cui all’art. 416 bis.1, comma 1, seconda parte”. In questo caso sarebbe, però, opportuno introdurre anche una disciplina transitoria, per regolare i risvolti intertemporali, limitando la sua efficacia al massimo ai procedimenti penali in corso in cui non si sia ancora deciso sulla inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito.

Diversamente, non solo si lederebbe il diritto di difesa dell’imputato che sarebbe chiamato ex post a tener conto di materiale considerato non utilizzabile in precedenza, ma anche il principio di irretroattività che in ambito processuale si declina nella regola tempus regit actum in forza della quale le nuove disposizioni processuali possono essere applicate anche a fatti commessi in precedenza purché riguardino atti processuali non già conclusi ed esauriti negli effetti, come parrebbe essere una decisione già intervenuta circa l’inutilizzabilità delle intercettazioni disposte ex art. 13, d.l. n. 152/1991.

La seconda alternativa è ancora più semplice, quasi fisiologica: nel pieno rispetto del principio di separazione dei poteri, si potrebbe lasciare la questione nelle mani della stessa giurisprudenza evitando intrusioni del legislatore, magari immaginando una assegnazione d’ufficio da parte del Primo Presidente della Corte di Cassazione alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 610, comma 2, c.p.p., trattandosi di questione di speciale importanza, pur non sussistendo un contrasto giurisprudenziale.

Certamente i tempi sarebbero più lunghi di quelli di un decreto-legge e, forse, anche di una legge parlamentare, ma gli esiti molto probabilmente sarebbero più ragionevoli e meno bruschi.

In questo modo, infatti, i segnalati limiti dell’indirizzo ermeneutico ribadito nella sentenza del 2022 sulla locuzione “reati di criminalità organizzata” potrebbero essere risolti da un intervento chiarificatore del massimo organo nomofilattico nella sua più autorevole composizione teso ad estenderla al più ai reati aggravati dalla finalità agevolativa mafiosa che, come si è visto, potrebbero esservi ricompresi con una interpretazione estensiva, e non anche a quelli aggravati dal metodo mafioso che ne esorbitano del tutto.

Tuttavia, anche in questo caso, sembrerebbe difficile consentire ad un simile revirement di trovare applicazione retroattiva ai procedimenti penali in corso, dal momento che secondo la giurisprudenza più recente di legittimità l’overruling è sempre applicabile retroattivamente in ambito penale processuale, a meno che non sia imprevedibile, tale dunque da incidere irrimediabilmente sull’affidamento della parte nella predeterminazione delle regole del processo[13].

In sintesi, se davvero si ritiene politicamente necessario integrare la nozione di reati di criminalità organizzata per i quali possono essere disposte le intercettazioni con modalità agevolate rispetto agli artt. 266 e 267 c.p.p., la via non dovrebbe essere quella del decreto-legge di interpretazione autentica ma al più quella legislativa o quella endo-giurisprudenziale.

Nel primo caso, sarebbe più facile dare concretezza alle aspirazioni politiche del legislatore, ma sempre nei limiti imposti dal principio di ragionevolezza, e dettare una disciplina generale valida anche, magari, per ragioni di uniformità ordinamentale, per la sospensione dei termini feriali; nel secondo caso sarebbe, invece, più agevole fornire una illustrazione argomentata circa gli altri reati aggravati attraibili nel novero di quelli di criminalità organizzata ex art. 13, d.l. n. 152/1991.

 

 

 

[1] Sul concorso esterno, e sulla opportunità politico-criminale di una sua ricalibratura, insieme anche ad altre fattispecie incriminatrici in materia di mafia e di contiguità mafiosa, si veda AaVv., Quarant’anni di 416-bis c.p. Bilanci e prospettive del delitto di associazione di tipo mafioso. Atti del convegno, Napoli, 14 novembre 2022, a cura di G. Amarelli, Torino, 2023.

[2] Più in generale, sulla nozione di criminalità organizzata alla luce del diritto sovranazionale, cfr. A. Balsamo-A. Mattarella, Criminalità organizzata: le nuove prospettive della normativa europea, in questa Rivista, 3/2021, 34 ss.

[3] Per consultare il comunicato stampa si veda www.giurisprudenzapenale.it, 18 luglio 2023.

[4] Per approfondimenti sui principi di diritto ivi contenuti, nonché per dei rilievi critici, si rinvia al commento di G. Tessitore, Sulla nozione di criminalità organizzata ai fini della disciplina in deroga delle intercettazioni, in questa Rivista, 21 luglio 2023.

[5] Per una disamina della natura, caratteri e presupposti applicativi delle due circostanze aggravanti mafiose di cui all’art. 416 bis.1 c.p. si rinvia ad A. Alberico, L’aggravante dell’agevolazione mafiosa ed il problema della sua estensione concorsuale, in Ind. pen., 2017, 224 ss.

[6] In tal senso cfr. da ultimo, Cass., Sez. II, 19 gennaio 2023, n. 2137, in cui si è ribadito come ai fini della sussistenza di questa aggravante oggettiva non necessiti che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo.

[7] Sez. un., 19 dicembre 2019, n. 8545, Chioccini, in questa Rivista, con nota di S. Finocchiaro. Ulteriori osservazioni in A. Alberico, Le circostanze nel concorso di persone, Roma, 2022, 240 ss. e 341 ss.

[8] Da ultimo, sul punto ha fornito ulteriori precisazioni C. cost. n. 8/2022.

[9] Per una approfondita disamina dei caratteri e dei limiti delle leggi di interpretative, nonché della loro sindacabilità da parte della Corte costituzionale, si rinvia per tutti ad A. Pugiotto, La legge interpretativa e i suoi giudici: strategie argomentative e rimedi giurisdizionali, Milano, 2003.

[11] Sul punto cfr. Le leggi di interpretazione autentica tra Costituzione e CEDU, a cura di I. Rivera, in https://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/STU_283.pdf.

[12] Sul principio di irretroattività in materia processuale e sui limiti del principio tempus regit actum cfr. O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis-G.P. Voena, Milano, 1999, 94; P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2022.

[13] Cass., Sez. III, sent. 27 novembre 2020 (dep. 15 gennaio 2021) n. 1731, in questa Rivista, 17 marzo 2021, con nota di B. Fragasso.