Corte cost., sent. 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, Pres. Lattanzi, Red. Zanon
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1. Come già segnalato ai lettori in occasione del deposito della sentenza qui richiamata in epigrafe, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis comma 1 ord. pen. nella parte in cui non prevede che anche i condannati per reati ostativi che non abbiano collaborato con la giustizia possano accedere ai permessi premio, qualora siano stati in concreto acquisiti «elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti». Più precisamente, il giudice delle leggi ha riconosciuto che la presunzione assoluta di pericolosità sociale dei detenuti non collaboranti di cui alla norma in esame è illegittima per contrasto con gli artt. 3 e 27 c. 3 Cost. e deve essere sostituita da una presunzione soltanto relativa, che possa cioè essere vinta da prova contraria.
L’art. 4-bis ord. pen., come è noto, è stato introdotto dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203, e immediatamente modificato dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif. in l. 7 agosto 1992, n. 356, il quale ha plasmato il comma 1 di tale disposizione nel modo in cui oggi noi lo conosciamo: la peculiare ratio di tale disciplina è propriamente quella di differenziare il trattamento penitenziario dei condannati per reati di criminalità organizzata o altri gravi delitti dal trattamento dei condannati “comuni”, subordinando l’accesso alle misure premiali e alternative previste dall’ordinamento penitenziario alla necessaria collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ord. pen.
La pronuncia della Corte costituzionale sembra tuttavia aver definitivamente rivelato l’illegittimità di questo sistema, mettendo radicalmente in discussione – anche se solo con riguardo alla concedibilità dei permessi premio – l’assolutezza del “doppio binario penitenziario”. Ci sembra perciò utile, nell’attesa di ospitare contributi di maggiore approfondimento, ripercorrere brevemente la vicenda costituzionale in esame e soffermarci sui principali passaggi argomentativi della decisione in commento, onde chiarirne la portata e avanzare alcune ipotesi rispetto alle ripercussioni che essa potrebbe avere sul nostro sistema giuridico nel prossimo futuro.
2. Ad avviare il giudizio di costituzionalità nel caso che ci interessa sono stati due distinti rimettenti, la prima sezione della Suprema Corte di cassazione[1] e il Tribunale di sorveglianza di Perugia[2].
Ambedue i giudici a quibus erano chiamati a decidere in ordine a due richieste di permessi premio provenienti da soggetti che stavano scontando la pena dell’ergastolo per reati ostativi – nello specifico reati di “contesto mafioso”[3] – e che tuttavia avrebbero dovuto essere dichiarate inammissibili, trattandosi di soggetti che non avevano collaborato con la giustizia: la disciplina di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen. impediva infatti in radice la possibilità per la magistratura di sorveglianza di valutare nel merito la pericolosità sociale del detenuto non collaborante, come invece richiesto dall’art. 30-ter ord. pen. ai fini della concessione di permessi premio[4].
Entrambi i giudici dubitavano però della compatibilità di tale normativa con i principi di uguaglianza-ragionevolezza e di rieducazione del condannato di cui agli artt. 3 e 27 c. 3 Cost. e decidevano così di adire il giudice delle leggi, sottolineando come le questioni fossero di per sé rilevanti a prescindere dall’effettiva spettanza del beneficio invocato nei casi di specie, atteso che l’eliminazione della preclusione oggetto di censure appariva preliminare rispetto all’analisi nel merito delle istanze dei detenuti.
Accanto a tali caratteri comuni, un elemento di differenziazione tra le due ordinanze di rimessione concerne però la portata delle questioni di legittimità individuate dai diversi giudici: in effetti, mentre la prima sezione della Cassazione ha censurato la norma in questione «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio», il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha esteso i suddetti dubbi di legittimità altresì ai casi in cui l’istanza provenga da soggetti che siano stati direttamente condannati per partecipazione in un’associazione di tipo mafioso.
3. Nel merito, gli argomenti utilizzati dai rimettenti per sostenere la non manifesta infondatezza delle questioni appaiono in larga parte sovrapponibili, seppure con alcune significative differenze.
In base a un primo argomento – sviluppato dalla Corte di cassazione, ma non fatto proprio dal secondo giudice a quo – la preclusione di cui all’art. 4-bis comma 1 ord. pen. sarebbe irragionevole in quanto equipara ai fini della presunzione di pericolosità soggetti effettivamente affiliati a un’associazione criminale di tipo mafioso e soggetti estranei al sodalizio che abbiano commesso reati “avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste”. A sostegno di ciò, vengono richiamate quelle pronunce con cui la stessa Corte costituzionale si è in passato occupata, in materia cautelare, del tema delle presunzioni legali di pericolosità riferite a soggetti imputati o indiziati per reati di criminalità organizzata[5]: in esse, infatti, la Consulta ha da un lato ribadito che le presunzioni assolute limitative di diritti fondamentali si pongono in contrasto con l’art. 3 Cost. laddove siano arbitrarie e irrazionali, ossia non rispondano a «dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit»[6]; e, dall’altro, ha essa stessa rimarcato la peculiarità dei casi in cui il reato è espressione di un vincolo permanente di adesione al sodalizio mafioso rispetto ai reati di mero “contesto mafioso”, reputando irragionevole l’estensione ai secondi di presunzioni di pericolosità ritagliate sui primi.
Un secondo argomento – condiviso, invece, da entrambi i giudici a quibus – muove da un diverso filone giurisprudenziale della Corte costituzionale, ossia da quelle pronunce che negli ultimi anni hanno iniziato a scardinare alcuni tasselli del sistema ostativo: le sentenze nn. 239 del 2014[7] e 76 del 2017[8], con cui la Consulta ha aperto anche ai detenuti non collaboranti la possibilità di accedere a quelle particolari forme di detenzione domiciliare previste dalla legge nell’interesse della prole minore, e la sentenza n. 149 del 2018, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità della speciale preclusione di cui all’art. 58-quater c. 4 ord. pen., che si applicava ai condannati per i delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo, eversione o estorsione da cui fosse derivata la morte del sequestrato (soggetti già sottoposti al doppio binario ex art. 4-bis c. 1 ord. pen., nei cui confronti le condizioni di accesso ai benefici erano rese ancora più sfavorevoli)[9]; pronuncia particolarmente rilevante, quest’ultima, per aver solennemente riconosciuto i principi di progressività trattamentale e di flessibilità della pena quali necessari corollari del principio di rieducazione.
Alla luce di questa giurisprudenza, i rimettenti dubitano della compatibilità con gli artt. 3 e 27 Cost. di una norma che elevi a “prova legale” o indice “incontrovertibile” del venir meno della pericolosità sociale del condannato la collaborazione con la giustizia, la quale impedisce di valutare individualmente le concrete emergenze relative al singolo condannato, così come le ragioni che possono averlo indotto a non collaborare con la giustizia; viene infatti sottolineato da entrambi i giudici che la mancata collaborazione del condannato non può essere considerata univocamente dimostrativa della mancata rescissione dei legami con l’organizzazione criminale di riferimento, potendo invero dipendere da fattori differenti, quali il timore per l’incolumità propria o dei propri familiari (a causa di ritorsioni del gruppo criminale), la volontà di non rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di amici o congiunti, o il rifiuto di collaborazioni meramente utilitaristiche.
A incrementare i dubbi di legittimità costituzionale da ultimo esplicitati concorrerebbe poi, secondo quanto sostenuto sia dalla Suprema Corte, sia dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, la considerazione delle peculiarità dell’istituto dei permessi premio previsto dall’art. 30-ter ord. pen. Si osserva infatti che questo strumento, a differenza delle misure alternative alla detenzione, assolve a una funzione limitata e contingente, ossia quella di consentire al detenuto di curare specifici interessi affettivi, culturali o lavorativi: la concessione di tali benefici, dunque, da un lato dovrebbe rispondere a presupposti specifici e differenziati, dall’altro si pone ancora più come necessaria per realizzare la progressione trattamentale e per non frustrare la stessa funzione rieducativa della pena.
4. Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso nel giudizio dinanzi alla Consulta dall’Avvocatura dello Stato, ha di contro sostenuto l’infondatezza delle questioni sollevate. Secondo la difesa statale, la norma oggetto di censure esprimerebbe una precisa scelta di politica criminale del legislatore, animata da finalità di prevenzione generale e di garanzia della sicurezza della collettività; la stessa, peraltro, si fonderebbe sull’assunto, condiviso dal legislatore, secondo cui la collaborazione è per i detenuti di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen. l’unico mezzo idoneo a dimostrare l’assenza di pericolosità sociale, ossia l’effettiva rescissione dei legami con la criminalità organizzata: la preclusione assoluta appare allora l’unica soluzione adeguata per «evitare l’uscita dal carcere – anche solo per poche ore – di condannati verosimilmente ancora pericolosi, in particolare in ragione dei loro persistenti legami con la criminalità organizzata».
5. A fronte di simili questioni, il primo passo della Consulta è quello di delimitare correttamente il thema decidendum del giudizio di specie.
Anzitutto, viene sottolineato che oggetto di questione non è la disciplina del c.d. ergastolo ostativo, rispetto alla quale si è invece pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo nella recentissima vicenda Viola c. Italia, che ha visto la condanna dello Stato italiano per violazione dell’art. 3 Cedu[10]; tale istituto, frutto della combinazione dell’art. 4-bis c. 1 ord. pen. e dell’art. 2 c. 2 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 – il quale impedisce al non collaborante condannato per reati ostativi di avvalersi della liberazione condizionale[11] – è stato infatti censurato dai giudici di Strasburgo in quanto inadeguato a garantire al condannato a pena perpetua (che non collabori con la giustizia) una concreta “prospettiva di liberazione”[12]. Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, tuttavia, non toccano il citato art. 2 d.l. n. 152 del 1991, né richiamano, quale parametro di costituzionalità, l’art. 117 c. 1 Cost. con riferimento all’art. 3 Cedu.
In secondo luogo, il giudice delle leggi specifica che la legittimità di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen. può essere valutata con esclusivo riguardo alla concedibilità al non collaborante dei permessi premio ex art. 30-ter ord. pen., non interessando le censure dei giudici a quibus le altre misure alternative e premiali oggetto di preclusione da parte della norma in esame; e che, nonostante i casi oggetto dei giudizi a quibus concernessero istanze provenienti da soggetti condannati alla pena dell’ergastolo (per l’appunto, ostativo), i vizi di costituzionalità paventati riguardano indifferentemente tutti i soggetti condannati per reati ostativi di “contesto mafioso”, a pena tanto temporanea, quanto perpetua.
Oltre a ciò, la Corte precisa poi di dover vagliare preliminarmente le censure mosse dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, atteso che quest’ultime, riferendosi alla posizione del soggetto condannato sia per partecipazione in associazione mafiosa, sia per reati di “contesto mafioso”, assorbirebbero – se fondate – quelle proposte dalla Corte di cassazione.
6. Nel merito, le questioni di legittimità come sopra definite sono considerate fondate. La Consulta reputa infatti incompatibile con gli artt. 3 e 27 c. 3 Cost. la presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato per reati ostativi che non collabori con la giustizia su cui si fonda la preclusione di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen.: e ciò non perché sia irragionevole presumere che il soggetto che scelga di non collaborare con la giustizia non abbia reciso i legami con il gruppo criminale di provenienza e sia, pertanto, socialmente pericoloso e immeritevole di permessi premio, quanto perché una presunzione siffatta dovrebbe necessariamente essere relativa, dunque vincibile da prova contraria.
Nello specifico, l’assolutezza della presunzione in parola è reputata contraria alla Costituzione sotto tre “distinti, ma complementari” profili.
i) Sotto il primo profilo, viene affermata la libertà del detenuto – qualsiasi detenuto – di non collaborare con la giustizia, senza che tale sua scelta possa essere di per sé causa di un trattamento deteriore. La legge, di conseguenza, può far eventualmente dipendere dalla collaborazione del condannato l’applicazione di misure premiali aggiuntive rispetto al trattamento ordinario[13], ma non può comminare “sanzioni” al non collaborante per perseguire finalità estranee rispetto a quelle costituzionalmente preposte all’esecuzione della pena, quali finalità di carattere investigativo, di politica criminale e di pubblica sicurezza: pena il contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost.
ii) Sotto il secondo profilo, l’assolutezza della presunzione de qua contrasta con l’art. 27 c. 3 Cost. perché impedisce alla magistratura di sorveglianza di valutare la specifica situazione del singolo detenuto e di adattarvi di rimando il relativo trattamento penitenziario. La stessa Corte costituzionale, del resto, nella recente sentenza n. 149 del 2018 ha indicato quale “criterio costituzionalmente vincolante” l’effettuazione di una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari, conformemente a quanto richiesto dai principi di rieducazione, di proporzionalità e di individualizzazione della pena[14]; la disciplina di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen., invece, preclude in radice la possibilità di apprezzare secondo criteri individualizzati le specificità dei casi concreti, a partire dalle ragioni che possono aver indotto il condannato a non collaborare con la giustizia.
iii) Da ultimo, la presunzione assoluta di pericolosità in questione viene considerata irrazionale alla stregua del criterio dell’id quod plerumque accidit e conseguentemente contraria ai principi di uguaglianza e di rieducazione del condannato. Come si ricordava sopra, la giurisprudenza della Consulta ha nel tempo chiarito che le presunzioni legali assolute violano l’art. 3 Cost. «se non rispondono a dati di esperienza generalizzati», ossia «tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa»; questo sarebbe proprio il caso, secondo la pronuncia qui in commento, della presunzione di pericolosità di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen., la quale – nell’assolutizzare l’equazione tra mancata collaborazione e mancata rescissione dei legami con l’organizzazione criminale – irragionevolmente non tiene conto né degli effetti che il decorso del tempo della pena può avere sull’evoluzione della personalità del detenuto, né della possibilità che durante l’esecuzione muti il contesto esterno al carcere (ad esempio nell’ipotesi in cui l’organizzazione criminale di riferimento del detenuto si estingue).
7. In conseguenza a quanto riscontrato dalla Corte, l’art. 4-bis c. 1 ord. pen. viene dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevede che anche in assenza di collaborazione con la giustizia il condannato possa usufruire di permessi premio «allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti».
In base all’oggetto specifico delle questioni di legittimità sollevate dai rimettenti, tale dichiarazione di illegittimità deve essere riferita ai soggetti condannati per reati di “contesto mafioso”, ovverosia per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste da tale articolo o per agevolare le associazioni ivi contemplate. Ciò nondimeno, la Corte ritiene necessario estendere l’ambito di applicazione della propria pronuncia, in via consequenziale, altresì a tutte le rimanenti fattispecie “ostative” indicate dalla norma censurata, al fine di non compromettere la stessa “coerenza intrinseca” della disciplina in questione.
La presunzione di persistenza di collegamenti con la criminalità organizzata contenuta nel comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. diviene in questo modo, anche se solo per quanto riguarda la concessione dei permessi premio, una presunzione relativa. La stessa Consulta, nondimeno, si cura di precisare che – a fronte della mancata collaborazione del condannato per reati ostativi – detta presunzione potrà comunque essere vinta solo in base a valutazioni particolarmente rigorose, che non si limitino a considerare la regolare condotta carceraria, la semplice partecipazione al percorso rieducativo o mere dichiarazioni di dissociazione del detenuto, ma si fondino anzitutto sull’esame del contesto sociale esterno al carcere, avvalendosi di dettagliate informazioni acquisite dai comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica e dalle Procure nazionale e distrettuali antimafia e antiterrorismo. La prova delle condizioni a supporto della concessione dei permessi premio, peraltro, ricadrebbe in parte sullo stesso condannato, il quale sarebbe tenuto a fornire una specifica allegazione degli elementi capaci di sostenere la sua istanza.
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8. La pronuncia qui in commento segna indubbiamente un radicale cambio di passo della Consulta con riguardo all’atteggiamento manifestato nei confronti del sistema stabilito dall’art. 4-bis ord. pen.: per la prima volta il giudice delle leggi riconosce il frontale contrasto tra tale disciplina e gli artt. 3 e 27 Cost., con una decisione che, pur accertando solo parzialmente l’illegittimità costituzionale della norma, appare invero minare in radice le fondamenta del “doppio binario” così come finora lo abbiamo conosciuto.
Fino a questo momento, difatti, la Corte costituzionale aveva sempre “salvato” il regime ostativo da aperte censure di legittimità per incompatibilità con il principio di rieducazione del condannato. Così era avvenuto, anzitutto, nella sentenza n. 306 del 1993, la quale, se da un lato aveva ammesso che «la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione» e che la disciplina in questione comportava «una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena», aveva comunque valorizzato il fatto che la collaborazione con la giustizia possa essere ragionevolmente ritenuta di per sé indicativa della rottura dei legami con la criminalità organizzata, accanto alla scelta del legislatore di «privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività»[15]. Ancora più chiara era stata la sentenza n. 273 del 2001, la quale aveva direttamente avallato la scelta fatta dalla legge di considerare la mancata collaborazione del soggetto condannato per reati ostativi come un «indice legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e, quindi, della mancanza del sicuro ravvedimento del condannato»[16].
Persino quando era stata chiamata a esprimersi direttamente circa la legittimità costituzionale del c.d. ergastolo ostativo, nella sentenza n. 135 del 2003, la Corte aveva deciso di non destabilizzare il sistema predisposto dall’art. 4-bis ord. pen., mettendo in luce come la perpetuità de facto della pena detentiva in tali situazioni non sia una conseguenza automatica della legge, bensì sia il frutto di una precisa scelta del condannato, che non vuole collaborare pur essendo nelle condizioni di farlo: nei casi di collaborazione impossibile o inesigibile, infatti, la preclusione in parola non opera[17].
È pertanto la prima volta che la Consulta non si limita a rimandare al criterio di giudizio utilizzato dal legislatore nella disposizione in esame, ma si preoccupa di esaminare nello specifico la razionalità di quel criterio, al fine di verificare la compatibilità della valutazione compiuta in astratto dalla legge con i principi cui la Costituzione vincola l’esecuzione della pena detentiva; razionalità che, stavolta, viene negata.
Dei tre profili posti dalla Consulta a fondamento della propria decisione e sopra esaminati, in effetti, ci sembra che sia il terzo a rivestire una portata preminente: negare la ragionevolezza dell’unico e imprescindibile criterio di valutazione della pericolosità sociale del condannato “ostativo” utilizzato dal legislatore nell’art. 4-bis c. 1 ord. pen., cioè, era a nostro giudizio condizione necessaria per sancire la prevalenza delle esigenze di individualizzazione del trattamento sanzionatorio – sottostanti ai principi di uguaglianza e di rieducazione del condannato – rispetto alle finalità (di prevenzione generale e speciale, oltre che propriamente investigative) perseguite dalla disciplina in esame.
9. Secondo la Corte, dunque, presumere in assoluto, senza possibilità di prova contraria, che il detenuto non collaborante sia in perdurante rapporto con l’organizzazione criminale è irragionevole: e ciò non tanto, ci pare, perché tale presunzione non corrisponderebbe a ciò che avviene “nella grande maggioranza dei casi” (come farebbe pensare il richiamo al principio dell’id quod plerumque accidit), quanto piuttosto perché è irragionevole pensare che non possano in concreto presentarsi delle situazioni che facciano “eccezione” alla “regola” stabilita dal legislatore. La Consulta considera, a tal proposito, il fatto che tanto il contesto esterno al carcere, quanto la personalità del detenuto possano cambiare durante l’esecuzione della pena; sarebbe stato però più convincente, forse, valorizzare a tal fine il fatto che la scelta di non collaborare con la giustizia potrebbe dipendere – alla luce delle peculiarità del caso concreto – da una pluralità di fattori differenti, e non sia per questo univocamente indicativa del permanere del vincolo con l’associazione criminale.
La Corte non richiama però, in questa sede, quest’ultimo argomento, che invece era stato particolarmente enfatizzato non solo dai giudici a quibus , ma anche, in una differente vicenda, dalla Corte di Strasburgo: nella già citata sentenza Viola c. Italia, infatti, i giudici europei hanno sancito a chiare lettere che «la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata soltanto dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e al mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza»; e che, pertanto, «se altre circostanze o altre considerazioni possono spingere il condannato a rifiutarsi di collaborare, o se la collaborazione può eventualmente essere proposta a uno scopo meramente opportunistico, l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al percorso reale di rieducazione del ricorrente»[18].
10. Quel che certo, comunque, è che la Corte costituzionale abbia negli ultimi anni dimostrato di voler prendere particolarmente “sul serio” il principio di rieducazione del condannato e i corollari che ne discendono, in ciò dimostrando una particolare sintonia con la Corte europea dei diritti dell’uomo. Sicché, alla luce dei più recenti arresti di entrambe tali Corti, ci pare che il regime ostativo come voluto dal legislatore del 1992 non possa oggi più trovare spazio nel nostro ordinamento.
Non sfugge, difatti, che sebbene la sentenza che abbiamo qui preso in esame investa solo parzialmente la legittimità dell’art. 4-bis c. 1 ord. pen. gli argomenti utilizzati dalla Consulta potrebbero agevolmente giustificare nuove pronunce di incostituzionalità della disciplina de qua, le quali parimenti relativizzino la presunzione di pericolosità su cui si fonda la preclusione normativa anche con riferimento alla concessione del lavoro all’aperto, delle misure alternative alla detenzione e, non da ultimo, della liberazione condizionale.
In particolare, ci sembra che le medesime ragioni che hanno indotto la Corte a censurare la preclusione assoluta alla concessione dei permessi premio ai non collaboranti potrebbero essere addotte, a maggior ragione, per espungere dal nostro sistema costituzionale il c.d. ergastolo ostativo, della cui illegittimità ci pare non si possa più dubitare. La pronuncia qui in commento, in effetti, supera il precedente arresto costituito dalla sentenza n. 135 del 2003, avendo chiaramente messo in luce l’irrazionalità di una presunzione assoluta che associ in maniera incontrovertibile alla mancata collaborazione la persistente pericolosità sociale del reo (e con ciò l’impossibilità di un suo progressivo rientro nella società libera); a ben vedere, anzi, una volta ammessosi che l’assenza di collaborazione non può essere univocamente ricondotta alla persistenza di rapporti con il crimine organizzato, il contrasto con il principio di ragionevolezza e con il principio di rieducazione del condannato appare ancora più marcato con riferimento alla condizione degli ergastolani ostativi, cui – come da tempo denunciato dalla dottrina[19] – viene radicalmente negata ogni prospettiva di reinserimento sociale, qualora non collaborino, anche in quei (magari rari, ma comunque possibili) casi in cui non debbano più essere reputati in concreto socialmente pericolosi.
Per di più, rispetto all’ergastolo ostativo sarebbe certamente invocabile quale parametro di costituzionalità, in aggiunta agli artt. 3 e 27 c. 3 Cost., l’art. 117 Cost., atteso che la sentenza Viola c. Italia nel decretare l’incompatibilità di questo istituto con l’art. 3 Cedu ha chiaramente accertato un vizio strutturale del nostro ordinamento, la cui rimozione – attraverso un intervento che deve avere carattere generale – sembrerebbe esigere un ulteriore intervento del nostro giudice delle leggi.
11. In alternativa a nuovi interventi della Consulta, potrebbe essere lo stesso legislatore, per una volta, a intervenire, modificando la disciplina di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen. in modo da renderla compatibile e con la Costituzione, e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Una proposta di legge in tal senso, in realtà, è stata elaborata già nel 2013 dalla Commissione Palazzo ed è oggi all’esame della Commissione Giustizia della Camera[20]: essa – anticipando di fatto l’intervento della Corte costituzionale – mira nello specifico «a trasformare l'attuale presunzione di non rieducatività in assenza di collaborazione da assoluta in relativa»[21], ammettendo che la preclusione all’accesso alle misure alternative e premiali possa venire meno «altresì nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefici summenzionati».
Certo, una tale riforma dovrebbe andare significativamente controcorrente rispetto agli indirizzi manifestati negli ultimi anni da un’importante parte della classe politica italiana, che con riguardo al diritto penale sanzionatorio si è fatta portatrice di (e ha al contempo alimentato) istanze fortemente repressive, radicate in una vasta porzione dell’opinione pubblica. Le reazioni spiccatamente polemiche avute da diversi esponenti politici – tra cui alcuni membri dell’attuale Esecutivo – a seguito delle pronunce della Consulta e della Corte di Strasburgo non lasciano, per la verità, ben sperare con riguardo a un esito positivo di un simile percorso legislativo: non ci resta dunque che augurarci che il vulnus costituzionale e convenzionale rilevato da tali pronunce non venga ignorato o “aggirato” dal nostro legislatore, di questi tempi ben poco propenso ad attendere alle ragioni della rieducazione.
[1] Cass. pen, Sez. I, ordinanza del 20 novembre 2018 (dep. 20 dicembre 2018), n. 57913, con commento di M.C. Ubiali, Ergastolo ostativo e preclusione all’accesso ai permessi premio: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., in Dir. pen. cont., 28 gennaio 2019.
[2] Trib. sorveglianza Perugia, ordinanza del 28 maggio 2019, pubblicata in G.U. Rep. Ita., I serie speciale, n. 34, 21 agosto 2019, 37 ss.
[3] La disciplina di cui all’art. 4-bis comma 1 ord. pen. – che, come si è detto, condiziona l’assegnazione al lavoro all’esterno e la concessione di permessi premio e misure alternative alla collaborazione con la giustizia del condannato – si applica invero a una pluralità di fattispecie, il cui numero è significativamente cresciuto dal 1991 a oggi: nello specifico, l’elenco comprende «delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis, 416 bis e 416 ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600 bis, primo comma, 600 ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609 octies e 630 del codice penale, all'articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, all'articolo 291 quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all'articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309».
[4] La norma così recita: «Permessi premio. 1. Ai condannati che hanno tenuto regolare condotta ai sensi del successivo comma 8 e che non risultano socialmente pericolose, il magistrato di sorveglianza, sentito il direttore dell'istituto, può concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. La durata dei permessi non può superare complessivamente quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione. (…)».
[5] Il riferimento è a Corte cost., sentenza del 25 marzo 2013 (dep. 29 marzo 2013), n. 57, con cui la Consulta ha riconosciuto l’illegittimità dell’art. 275 c. 3 c.p.p. nella parte in cui considerava la misura della custodia cautelare in carcere quale l’unica adeguata a soddisfare le esigenze cautelari anche nel caso di indagato o imputato per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni mafiose (ossia di un soggetto comunque estraneo rispetto alla compagine associativa criminale); e a Corte cost., sentenza del 25 febbraio 2015 (dep. 26 marzo 2015), n. 48, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per i soggetti indagati o imputati per concorso esterno in associazione mafiosa, di cui all’art. 275 c. 3 c.p.p.
[6] Così in particolare Corte cost., sentenza del 25 marzo 2013 (dep. 29 marzo 2013), n. 57, § .4.2
[7] Corte cost., sentenza del 22 ottobre 2014, n. 239, con cui la Consulta ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis c. 1 ord. pen. nella parte in cui includeva «fattispecie e misure alternative tra loro eterogenee» e più precisamente non escludeva dalla preclusione in parola la detenzione domiciliare speciale ex art. 47-quinquies ord. pen. per le madri di prole di età inferiore ai dieci anni e quella di cui all’art. 47-ter c. 1 lett. a) e b) per le donne incinte o le madri o i padri di prole di età inferiore ai dieci anni.
[8] Corte cost., sentenza dell’8 marzo 2017 (dep. 12 aprile 2017), n. 76, con cui, similmente, veniva considerata illegittima la non concedibilità della detenzione domiciliare ex art. 47-quinquies c. 1-bis ord. pen. alle detenute madri.
[9] Corte cost., sentenza del 21 giugno 2018 (dep. 11 luglio 2018), n. 149, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater c. 4 ord. pen. nella parte in cui precludeva l’accesso ai benefici penitenziari nei confronti dei soggetti condannati all’ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione ovvero di terrorismo o eversione che avessero cagionato la morte del sequestrato i quali non avessero effettivamente espiato almeno ventisei anni di pena. In proposito cfr., per tutti, E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., 18 luglio 2018.
Più di recente, peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza del 9 ottobre 2019 (dep. 8 novembre 2019), n. 229, ha dichiarato l’illegittimità di tale norma anche nella parte in cui precludeva l’accesso ai benefici ai soggetti condannati a pena temporanea per i medesimi reati prima che avessero effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata: in proposito si può rimandare a S. Bernardi, Dalla Consulta un’ulteriore affermazione dei principi di flessibilità e progressività nell’esecuzione della pena detentiva: definitivamente smantellata la disciplina dell'art. 58-quater, co. 4 ord. penit., in questa Rivista, 21 novembre 2019.
[10] Corte eur. dir. uomo, sentenza del 13 giugno 2019, ric. n. 77633/16, Marcello Viola c. Italia (n. 2), definitiva dal 7 ottobre 2019. Per alcuni commenti a tale decisione può rimandarsi a E. Dolcini, Dalla Corte Edu una nuova condanna per l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2019, 925 ss.; D. Galliani – A. Pugiotto, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (A proposito della sentenza Viola v. Italia n. 2), in Osservatorio costituzionale AIC, fasc. 4/2019, 191 ss.; V. Manca, Le dichiarazioni della tutela dei diritti fondamentali dei detenuti nel dialogo tra le Corti: da Viola c. Italia alla attesa della Corte costituzionale, in Arch. pen. (web), fasc. 2/2019, 1 ss.; M.S. Mori – V. Alberta, Prime osservazioni sulla sentenza Marcello Viola c. Italia (n.2) in materia di ergastolo ostativo, in Giur. Pen. (web), 6/2019, 1 ss.; M. Pelissero, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, in SIDIBlog, 21 giugno 2019; S. Santini, Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo”: dalla Corte di Strasburgo un monito al rispetto della dignità umana, in Dir. pen. cont., 1° luglio 2019.
[11] Si ricorda infatti che ai sensi dell’art. 176 c. 3 c.p. l’ergastolano “comune” può accedere alla liberazione condizionale trascorsi ventisei anni di pena, purché ovviamente ne sussistano in concreto i requisiti. Allo stato, dunque, nel nostro ordinamento l’ergastolo ha i tratti di una pena de iure e de facto perpetua solo con riferimento all’ergastolano ostativo non collaborante. Sul problema della compatibilità con l’art. 27 Cost. della pena dell’ergastolo, in generale, e dell’ergastolo ostativo, in particolare, cfr. per tutti E. Dolcini, La pena detentiva perpetua nell'ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, in A.A.VV., Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Torino, 2019, 11 ss., oltre che in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 3/2018, 1 ss.
[12] Non è purtroppo questo il luogo adatto per dar conto dello sviluppo giurisprudenziale della Corte europea in tema di art. 3 Cedu e pena perpetua; ci limiteremo pertanto a ricordare che, a partire dalla sentenza della Grande Camera del 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro, la Corte ha costantemente ribadito il principio per cui la pena dell’ergastolo, di per sé non incompatibile con la Convenzione, ammonta tuttavia a trattamento inumano e degradante in tutti i casi in cui l’ordinamento interno non assicuri al condannato nessuna reale prospettiva, de iure o de facto, di essere rimesso in libertà una volta che la protrazione della detenzione non appaia più sorretta da nessuna ragione giustificatrice, né di ordine punitivo, né di ordine preventivo. Vero leading case in questa materia è un’ulteriore pronuncia della Grande Camera, emessa il 9 luglio 2013 nel caso Vinter e a. c. Regno Unito, con cui la Corte ha censurato per incompatibilità con la Convenzione l’istituto del whole life order inglese, affermando la necessità che l’ordinamento interno assicuri al condannato a pena perpetua la possibilità, trascorso un congruo periodo di detenzione, di chiedere e ottenere una revisione della propria situazione in vista di una possibile liberazione. Dei medesimi principi è stata successivamente fatta applicazione più volte da parte della Corte europea – ricordiamo, tra tutte, due ulteriori sentenze della Grande Camera, emesse il 26 aprile 2016, nel caso Murray c. Paesi Bassi, e il 17 gennaio 2017, nel caso Hutchinson c. Regno Unito – da ultimo, per l’appunto, con la pronuncia Viola c. Italia. Per una più accurata trattazione su questo tema di può rimandare, per tutti, a D. Galliani – A. Pugiotto, Eppure qualcosa si muove: verso il superamento dell’ostatività ai benefici penitenziari?, in AA.VV., Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Torino, 2019, 169 ss., e a P. Pinto de Albuquerque, L’ergastolo e il diritto europeo alla speranza, ibidem, 221 ss.
[13] Meccanismi propriamente premiali sono del resto già associati alla collaborazione con la giustizia nell’ambito del “doppio binario penitenziario”: ai sensi dell’art. 58-ter c. 1 ord. pen., infatti, ai condannati per i delitti di cui al 4-bis che collaborino con la giustizia non si applicano gli ordinari limiti di pena previsti in materia di lavoro all’esterno, di permessi premio e di semilibertà dagli artt. 21 c. 1, 30-ter c. 4 e 50 c. 2 ord. pen., il che significa che costoro possono godere immediatamente di tali misure, senza dover previamente scontare una parte della pena irrogata.
[14] Del resto, si legge nella stessa Corte cost., sentenza del 21 giugno 2018 (dep. 11 luglio 2018), n. 149, § 7, che «una volta che il condannato (…) abbia raggiunto, nell’espiazione della propria pena, soglie temporali ragionevolmente fissate dal legislatore, e abbia dato prova di positiva partecipazione al percorso rieducativo, eventuali preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari possono dunque legittimarsi sul piano costituzionale soltanto laddove presuppongano pur sempre valutazioni individuali, da parte dei competenti organi giurisdizionali, relative alla sussistenza di ragioni ostative di ordine specialpreventivo – sub specie di perdurante pericolosità sociale del condannato».
[15] Corte cost., sentenza dell’11 giugno 1993 (dep. 7 agosto 1993), n. 306, §§ 9 e 11.
[16] Corte cost., sentenza del 5 luglio 2001 (dep. 20 luglio 2001), n. 273, § 5.
[17] Corte cost., sentenza del 9 aprile 2003 (dep. 24 aprile 2003), n. 135, § 4.
[18] Così Corte eur. dir. uomo, sentenza del 13 giugno 2019, ric. n. 77633/16, Marcello Viola c. Italia (n. 2), §§ 118 e 120.
[19] Possiamo richiamare, per tutti, i contributi recentemente pubblicati in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 1495 ss., nella sezione “Commenti e dibattiti” sotto il titolo Ergastolo ‘ostativo’: profili di incostituzionalità e di incompatibilità convenzionale. Un dibattito. Contributi al seminario di studi svoltosi il 16 novembre 2017 presso l’Università degli Studi di Milano; in G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi (a cura di), Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti. Atti del Seminario. Ferrara, 27 settembre 2019, in Forum di Quaderni Costituzionali Rassegna, fasc. 10/2019; oltre che in A.A.VV., Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Torino, 2019, 11 ss.
[20] Trattasi della proposta di legge C.1925 della XVIII Legislatura, dal titolo «Modifiche agli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia», presentata dall’on. Vincenza Bruno Bossio. Il testo della proposta elaborata dalla Commissione Palazzo può essere consultato su Dir. pen. cont., 19 febbraio 2014.
[21] Così F. Palazzo, Fatti e buone intenzioni. A proposito della riforma delle sanzioni penali, in Dir. pen. cont., 10 febbraio 2014.