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22 Febbraio 2023


Omicidio colposo derivante da inquinamento ambientale: il problema dell’accertamento del nesso causale in condizioni di incertezza scientifica in una pronuncia assolutoria del Tribunale di Taranto

Trib. Taranto, Sez. G.U.P., sentenza del 12 luglio 2022 (dep. 10 ottobre 2022), Est. Carriere, C.A.



* Contributo destinato alla pubblicazione nel Fascicolo 2/2023.

 

1. Un’interessante pronuncia del Tribunale di Taranto – qui pubblicata in allegato – si sofferma sul problema dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro per danni cagionati a terzi nell’esercizio dell’attività industriale, con particolare riferimento alle ipotesi in cui si assuma che soggetti estranei all’organizzazione aziendale abbiano contratto patologie correlate alla dispersione di sostanze inquinanti provenienti da un sito produttivo.

La decisione si affianca alla più ampia vicenda giudiziaria che tuttora interessa lo stabilimento siderurgico dell’ex Ilva di Taranto, costituendo per molti versi un’appendice del processo “Ambiente svenduto”, recentemente definito con sentenza di primo grado[1]; più precisamente, le accuse mosse in quest’occasione dalla Procura tarantina riguardano la morte di un bambino di cinque anni a causa di un grave tumore neurologico (astrocitoma pilomixoide), la cui insorgenza viene collegata all’esposizione alle sostanze tossiche rilasciate dagli impianti siderurgici dell’ex Ilva in un periodo in cui costui ancora si trovava allo stato fetale. Il reato contestato a diversi responsabili di area e a un dirigente di stabilimento delle acciaierie tarantine è quello di omicidio colposo aggravato ai sensi dell’art. 589 c. 2 c.p. per essere stato determinato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non risultando applicabile ratione temporis il delitto di “Morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale” oggi previsto dall’art. 452-ter c.p., collocato dalla l. 22 maggio 2015, n. 68 all’interno dell’attuale Titolo VI-bis del codice penale.

A differenza del più noto “maxi-processo” celebrato davanti alla Corte d’assise di Taranto, dunque, il procedimento in esame non muove dalla contestazione di macro-eventi innescati da fenomeni di inquinamento industriale, offensivi di beni quali l’ambiente e l’incolumità pubblica[2], ma dalla causazione di un singolo evento lesivo ai danni di un soggetto del tutto estraneo all’esercizio dell’impresa. Nel caso di specie, nondimeno, il giudice dell’udienza preliminare giunge a escludere la sussistenza del fatto oggetto di imputazione, attribuendo carattere decisivo, come si vedrà, all’impossibilità di individuare una legge scientifica di copertura da cui inferire l’esistenza di una correlazione causale tra l’esposizione alle sostanze tossiche provenienti dallo stabilimento Ilva e l’insorgenza della specifica patologia tumorale che aveva condotto alla morte la giovane persona offesa.

 

2. La vicenda di cui si tratta ha origine tra il novembre 2008 e il febbraio 2009, periodo corrispondente ai primi quattro mesi di vita fetale della vittima, durante i quali la madre del nascituro prestava servizio presso uno studio commercialista sito nel rione Tamburi di Taranto.

Il quartiere in questione, il cui nome è ormai noto alle cronache proprio a causa dell’elevato numero di patologie tumorali riscontrate tra i residenti[3], si trova a brevissima distanza – circa 200 metri – dagli stabilimenti dell’Ilva. La tesi della pubblica accusa, pertanto, era che la diretta esposizione della donna agli agenti nocivi derivanti dagli impianti siderurgici nel delicato frangente dei primi mesi della gravidanza avesse arrecato danni irreversibili al bambino, concretatisi nell’insorgenza della grave neoplasia neurologica, diagnosticatagli fin dai primi mesi di vita, che lo aveva condotto alla morte nel luglio 2014; per questo motivo, la Procura di Taranto riteneva che il decesso del minore fosse addebitabile alla condotta colposa dei diversi responsabili delle Aree Agglomerato, Parchi Minerali, Cokeria, Altiforni, Acciaierie e Gestione Rottami di Ilva s.p.a., oltre che al direttore dello stabilimento tarantino, i quali, omettendo le necessarie misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, avrebbero permesso la dispersione delle sostanze inquinanti derivanti dalle lavorazioni siderurgiche tanto all’interno dei luoghi di lavoro quanto all’esterno degli impianti produttivi.

 

3. Come si anticipava, le accuse mosse dalla Procura tarantina sono state considerate infondate dal giudice dell’udienza preliminare, che ha assolto con la formula più ampia il solo tra gli otto imputati ad aver richiesto il giudizio abbreviato condizionato, disponendo il non luogo a procedere nei confronti degli altri.

La pronuncia in commento concerne specificamente la posizione dell’imputato giudicato con rito abbreviato, ma le valutazioni svolte dal G.U.P. risultano ugualmente riferibili a tutti i soggetti nei cui confronti il pubblico ministero aveva richiesto il rinvio a giudizio. Può pertanto essere utile ripercorrere brevemente le motivazioni che hanno condotto alla decisione assolutoria evidenziando lo schema argomentativo seguito dal giudicante, strutturalmente articolato in tre passaggi fondamentali:

  1. nella prima parte, che ha funzione di premessa, il G.U.P. circoscrive le condotte colpose oggetto di contestazione, verificando la pertinenza delle norme cautelari in materia di infortuni e malattie sul lavoro richiamate dal p.m. all’interno del capo d’imputazione, da cui dipende l’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 589 c. 2 c.p.;
  2. nella seconda parte, oggetto di indagine è la sussistenza della condotta colposa ascritta a ciascun imputato, consistente nell’aver consentito la diffusione incontrollata di sostanze inquinanti provenienti dallo stabilimento siderurgico, con conseguente esposizione della madre della vittima a tali agenti nocivi durante i primi quattro mesi di gravidanza;
  3. nella parte conclusiva, infine, viene affrontato il problema del nesso causale tra la condotta contestata e la morte della persona offesa, ovverosia tra l’esposizione della vittima alle sostanze inquinanti prodotte da Ilva e l’insorgenza del grave astrocitoma pilomixoide che ne ha provocato il decesso.

 

4. Muovendo dall’esame delle premesse, occorre anzitutto rilevare come il capo di imputazione fosse stato oggetto di riformulazione da parte dello stesso p.m. nel corso dell’udienza preliminare, dopo che i difensori degli imputati ne avevano lamentato l’eccessiva genericità e indeterminatezza. Di conseguenza, mentre l’accusa originaria si limitava a fare riferimento all’“omessa adozione di misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”, la versione finale indicava specificamente le norme del d.lgs. 81/2008 (Testo unico della sicurezza sul lavoro, da ora T.U.S.L.) che si riteneva fossero state violate dai dirigenti dell’ex Ilva, individuandole negli artt. 15, 18 lett. d), f), h), m), q), z) e comma 3-bis, 19, 64 e 71.

Il puntuale richiamo a specifiche regole cautelari del T.U.S.L. acquisiva rilievo non solo al fine di muovere all’agente un rimprovero a titolo di colpa specifica, ma altresì per fondare la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 589 c. 2 c.p.; per poter produrre tali effetti, però, a giudizio del G.U.P. le norme preventive evocate dovevano essere previamente vagliate nella loro pertinenza e rilevanza, in applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di “causalità della colpa” e, nello specifico, del criterio della “concretizzazione del rischio”. Come più volte affermato anche dalla Suprema Corte, infatti, il mero riscontro di una posizione di garanzia in capo all’agente non consente un’automatica imputazione dell’evento a titolo di colpa, dovendosi preliminarmente procedere a una verifica della coincidenza tra il rischio concretizzatosi nell’evento e il rischio specifico fronteggiato dalla regola cautelare violata, per poi accertare, in seconda battuta, se tale violazione abbia dispiegato una concreta efficacia causale rispetto all’evento[4]. Ne conseguiva, per il caso di specie, l’esigenza di appurare se effettivamente le norme del T.U.S.L. richiamate dal capo di imputazione svolgessero la funzione di prevenire rischi come quello concretizzatosi nell’evento, ossia la causazione di danni all’integrità fisica o alla vita di persone estranee alla compagine aziendale dovuti alla dispersione di sostanze inquinanti.

Procedendo a tale accertamento, il G.U.P. di Taranto esclude, per prima cosa, la pertinenza delle “misure generali di protezione” previste dall’art. 15, specificamente volte a tutelare la salute e la sicurezza “dei lavoratori nei luoghi di lavoro” e, dunque, inconferenti rispetto all’evento concreto; lo stesso viene affermato per le previsioni dell’art. 18, che a loro volta prendono in considerazioni rischi specifici concernenti i lavoratori e comunque diversi da quello innescato nel caso in esame. Una considerazione particolare viene dedicata alla disposizione di cui all’art. 18 lett. q), che sancisce il dovere del datore di lavoro di «prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando periodicamente la perdurante assenza di rischio»: pur trattandosi di una norma cautelare espressamente deputata alla protezione di soggetti estranei all’attività d’impresa, tuttavia, la sua rilevanza rispetto al caso di specie viene parimenti esclusa, in quanto gli specifici rischi che essa mira a prevenire – secondo l’interpretazione offertane dalla Cassazione – sono solo quelli promananti dalle particolari misure tecniche adottate dall’impresa per garantire lo svolgimento in sicurezza dell’attività lavorativa[5].

La medesima valutazione di non conferenza viene estesa anche alle disposizioni di cui all’art. 18 comma 3-bis in tema di obblighi di vigilanza del datore di lavoro (peraltro introdotta solo nell’agosto 2009, dunque successivamente rispetto al periodo in cui la madre della vittima sarebbe stata esposta alle sostanze inquinanti); all’art. 19, attinente agli obblighi del preposto; e all’art. 71, concernente l’obbligo di dotare i lavoratori di attrezzature conformi ai requisiti di legge e idonee a tutelare la loro stessa salute e sicurezza.

L’unica tra le norme cautelari invocate che viene reputata pertinente rispetto allo specifico evento lesivo in contestazione, in sintesi, è quella di cui all’art. 64, co. 1 lett. a) del T.U.S.L., che stabilisce che il datore di lavoro sia tenuto ad assicurare la conformità dei luoghi di lavoro ai requisiti di cui al precedente art. 63, che a sua volta fa rinvio, al primo comma, a quanto prescritto dall’allegato IV al d.lgs. 81/2008, intitolato “Presenza nei luoghi di lavoro di agenti nocivi”; a venire in rilievo, in particolare, sarebbero le disposizioni di cui ai punti 2.1.5. e 2.2. di tale testo normativo, già vigenti al tempo della condotta di esposizione[6], da cui si ricava l’obbligo del datore di lavoro di assicurare l’aspirazione di gas, vapori, odori o fumi quanto più possibile vicino al luogo dove sono prodotte (violato in presenza di emissioni c.d. fuggitive o non convogliate) e quello di impedire o ridurre, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione di polveri nell’ambiente di lavoro (attraverso apparecchi chiusi, sistemi di aspirazione o, in via residuale, inumidimento del materiale).

Attestato che le regole cautelari da ultimo richiamate mirano effettivamente a prevenire rischi legati alla diffusione di sostanze inquinanti prodotte dall’attività lavorativa, si pone tuttavia il problema di stabilire se le medesime, specificamente preposte alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, possano altresì ritenersi finalizzate a proteggere soggetti terzi estranei all’organizzazione aziendale. A tale quesito il G.U.P. di Taranto ritiene di poter rispondere affermativamente, osservando come la Cassazione abbia in più occasioni sostenuto che i presupposti dell’aggravante di cui all’art. 589 c. 2 c.p. possono essere integrati anche nei casi in cui la persona offesa non sia un lavoratore e l’offesa si sia verificata al di fuori del contesto lavorativo, a condizione che l’evento costituisca una concretizzazione del rischio lavorativo, intendendo per tale «quello derivante dallo svolgimento di attività lavorativa e che ha ordinariamente a oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori, ma può concernere anche la sicurezza e la salute di terzi, ove questi vengano a trovarsi nella medesima situazione di esposizione del lavoratore»[7]. Questa, del resto, è sicuramente la situazione degli abitanti del quartiere Tamburi di Taranto, che, per la particolare vicinanza allo stabilimento, si trovano in una situazione di esposizione sostanzialmente identica a quella riguardante i lavoratori dell’ex Ilva.

Queste considerazioni inducono il G.U.P. a considerare correttamente contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 589 c. 2 c.p., così escludendo che il reato, consumatosi nel luglio 2014 con il decesso della vittima, fosse già estinto per prescrizione: la presenza dell’aggravante in parola, infatti, ai sensi dell’art. 157 c. 6 c.p. determina il raddoppio del termine di prescrizione ordinaria. Il giudice, nondimeno, omette (scientemente) di approfondire il profilo inerente al possesso da parte degli imputati delle qualifiche soggettive richieste dal T.U.S.L., pur rilevando l’assenza nel fascicolo del pubblico ministero delle deleghe notarili con cui i singoli incarichi sarebbero stati conferiti. Sebbene, dunque, allo stato degli atti non fosse possibile attribuire la qualifica di datori di lavoro “sotto-ordinati” – piuttosto che di semplici “dirigenti” – a ciascuno dei co-imputati, specialmente con riferimento ai responsabili d’area[8], il giudice decide consapevolmente di non avvalersi dei propri poteri istruttori officiosi, osservando come, in ogni caso, l’assenza di prove circa la sussistenza del nesso causale tra la condotta colposa e l’evento avrebbe condotto a una sentenza di proscioglimento.

 

5. Passando a considerare il merito della vicenda in esame, il G.U.P. si pone anzitutto il problema della delimitazione temporale della condotta ascritta ai diversi imputati, consistente nell’aver consentito la dispersione di polveri e sostanze nocive provenienti dalle lavorazioni dello stabilimento siderurgico, omettendo l’adozione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. A tal proposito, infatti, viene messo in luce che, vertendo il procedimento in esame sulla causazione di un singolo omicidio colposo, per circoscrivere la condotta rilevante non si dovrebbe aver riguardo all’intero arco di tempo durante il quale si presume che dallo stabilimento tarantino di Ilva s.p.a. siano state disperse polveri e sostanze inquinanti, ma verrebbe in considerazione una “finestra temporale” più ristretta, corrispondente al periodo in cui si assumeva che la madre della vittima in recente stato di gravidanza fosse stata direttamente esposta alle sostanze nocive prodotte dall’attività siderurgica. Per questa ragione, all’esito dell’udienza preliminare il giudice aveva dichiarato il non luogo a procedere “per non aver commesso il fatto” nei confronti di quegli imputatati che, in base a quanto riportato nello stesso capo di imputazione, non svolgevano la funzione di responsabile di area nel periodo compreso tra il novembre 2008 e il febbraio 2009, considerati in radice estranei rispetto alla causazione dell’evento in contestazione.

Per quanto riguarda gli imputati in carica durante tale periodo, invece, la prospettiva accusatoria da vagliare concerneva la possibilità di muovere loro un rimprovero a titolo di colpa specifica per aver cagionato la morte della persona offesa omettendo «l’adozione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali» e, più in dettaglio, delle misure preventive in materia di diffusione di sostanza nocive di cui all’allegato IV del d.lgs. 81/2008. La genericità dei precetti tecnici contenuti nell’allegato in questione, qualificabili come norme cautelari “a contenuto elastico”, imponeva tuttavia al giudice un’attenta opera di contestualizzazione, specificandone il contenuto alla luce delle caratteristiche dell’attività produttiva concretamente svolta, della normativa di riferimento vigente al tempo del fatto e delle migliori tecniche disponibili a quel tempo.

A tal riguardo, l’accusa produceva a sostegno della propria tesi le risultanze della perizia chimica ed epidemiologica svolta nel 2012 nell’ambito del procedimento “Ambiente svenduto”, i cui atti erano stati acquisiti al fascicolo delle indagini preliminari. I risultati di tale attività istruttoria, in estrema sintesi, deponevano per le seguenti conclusioni:

  1. dallo stabilimento Ilva s.p.a. a quel tempo si diffondevano gas, vapori e polveri contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori degli impianti e della popolazione limitrofa – tra cui benzo(a)pirene, IPA, diossine, polveri di minerali e altro – nella forma tanto di emissioni convogliate (ossia incanalate attraverso condotti dello stabilimento), quanto di emissioni non convogliate (dunque diffuse o fuggitive);
  2. i livelli di diossina e PCB rinvenibili negli animali abbattuti e nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto erano riconducibili in maniera prevalente all’attività di Ilva s.p.a.;
  3. all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto non erano state osservate tutte le misure idonee a evitare la dispersione incontrollata di fumi e polveri nocivi per la salute umana, rilevandosi un elevato livello di emissioni non convogliate dagli impianti, la cui esistenza – anche a seguito degli interventi di adeguamento svolti nell’ambito del procedimento di autorizzazione integrata ambientale – era documentata dalla presenza di fenomeni di slopping, emissioni incontrollate di scorie derivanti dalla conversione della ghisa in acciaio, caratterizzate da una distintiva “fumata rossa”;
  4. per quanto riguarda la conformità dei livelli di emissione alle normative nazionali e regionali in vigore, i valori misurati nell’anno 2010 risultavano conformi ai valori-limite prescritti dalle precedenti autorizzazioni di settore e dall’AIA rilasciata il 4 agosto 2011, ma, con riferimento all’attività di recupero di rifiuti non pericolosi (materie prime secondarie) mediante trattamento termico, vi era difformità rispetto all’obbligo di assicurare sistemi di controllo continuo sancito dal d.m. 5 febbraio 1998, con conseguente impossibilità di accertare il rispetto dei relativi parametri; inoltre, le emissioni non convogliate (connesse quasi integralmente al fenomeno di slopping) e le torce esistenti in stabilimento risultavano non regolate, e quindi non conformi, fino al decreto AIA del 2011. In merito alla conformità alle norme comunitarie, invece, i valori di inquinanti emessi nel 2010 per il parametro polveri risultavano inferiori a quelli fissati dal decreto AIA nel 2011, ma superiori rispetto alle best available techniques (BAT) previste dai documenti tecnici europei (BRef), con punte di particolare criticità in relazione ad alcune delle aree coinvolte.

Tali esiti erano stati per il vero confutati dalle difese degli imputati, a parere delle quali le valutazioni peritali comunque non fornivano la prova dell’effettiva esposizione della madre della vittima alle sostanze inquinanti eventualmente prodotte da Ilva; ciò nondimeno, il giudice ritiene superabili i rilievi difensivi, in considerazione tanto delle descritte risultanze della perizia chimico-ambientale quanto degli ulteriori dati ambientali acquisiti con l’istruttoria, che evidenziavano come tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 nel quartiere Tamburi fossero stati registrati valori critici di diversi inquinanti cancerogeni, tra cui PM10 e IPA[9].

La ragionevolezza delle prospettazioni del p.m., pertanto, sarebbe avallata dal complesso dei dati raccolti, da cui a parere del G.U.P. «sembrerebbe evincersi (…) la fondatezza dell’assunto accusatorio non soltanto con riferimento alla diffusione incontrollata (o non adeguatamente controllata) di polveri e sostanze nocive (ad effetto cancerogeno) provenienti dalle varie unità produttive del siderurgico (…), ma anche che ciò fosse avvenuto proprio nel periodo di esposizione della madre del piccolo L., ossia nei primi quattro mesi di gravidanza»[10]. A siffatta conclusione, tuttavia, il giudice attribuisce esplicitamente la qualifica di “valutazione incidentale”, ritenendo superfluo svolgere un’indagine più approfondita e perciò astenendosi dal richiedere un supplemento istruttorio: ancora una volta, infatti, prevale la considerazione che, in ogni caso, i dubbi circa l’effettiva sussistenza di una correlazione causale tra la diffusione delle sostanze inquinanti da parte di Ilva e la morte della persona offesa dovevano reputarsi insuperabili allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, imponendo a prescindere una pronuncia di proscioglimento.

 

6. La sentenza passa così a considerare il profilo dirimente della vicenda in esame, rappresentato dall’accertamento del nesso causale tra la “presunta” condotta colposa e l’evento-morte oggetto di contestazione.

La tesi accusatoria traeva fondamento dai risultati delle analisi di alcuni frammenti dell’astrocitoma formatosi nel cervello della giovane persona offesa, prelevati attraverso due distinte biopsie, l’una eseguita quando il bambino aveva poco più di due mesi, l’altra due anni più tardi: entrambi i reperti, infatti, erano caratterizzati dalla presenza di numerosi corpi estranei micro e nano-dimensionati (ossia di dimensioni inferiori a 1 micron), di natura metallica e ceramica, di sicura provenienza esogena e suscettibili di produrre effetti cancerogeni. Alla luce di tale significativo elemento, la concreta verifica della sussistenza di un collegamento eziologico tra la contestata condotta colposa dei dirigenti dell’ex Ilva e la morte del bambino passava per la soluzione di un triplice ordine di quesiti:

  1. se le particelle di origine esogena trovate all’interno dell’astrocitoma presente nel cervello della persona offesa provenissero dall’attività produttiva dello stabilimento Ilva;
  2. se la tesi secondo cui tali corpi estranei erano stati trasmessi dalla madre al feto durante la gravidanza fosse fondata alla luce delle conoscenze scientifiche a disposizione;
  3. se la presenza di quelle particelle potesse essere ricondotta con ragionevole certezza all’origine dell’insorgenza della patologia tumorale che aveva determinato la morte della persona offesa.

Il G.U.P. di Taranto ritiene di poter fornire risposta positiva ai primi due quesiti. Da un lato, le particelle ritrovate all’interno del cervello della vittima sembravano avere una «chiara provenienza da sostanze inquinanti esterne e da processi di combustione nell’ambito di lavorazioni industriali» e alcuni reperti apparivano addirittura «univocamente riferibili proprio ai processi di lavorazione dello stabilimento siderurgico Ilva»[11]; dall’altro, il consulente tecnico del p.m. aveva messo in luce come fosse possibile escludere con certezza che la patologia tumorale che aveva condotto il minore alla morte potesse essere stata innescata in epoca successiva alla nascita, risultando pertanto insorta durante lo stato fetale. In proposito, doveva ritenersi scientificamente plausibile che le polveri fossero state inizialmente inalate dalla madre della vittima e fossero poi transitate per via ematica fino ai tessuti cerebrali del feto, anche se solo con riferimento alle particelle di dimensioni inferiori a 1 micron (atteso che le particelle più grandi di tale misura, in base ai dati scientifici a disposizione, non sarebbero in grado di attraversare la barriera placentare).

Al contrario, il terzo quesito ottiene una risposta negativa, a fronte dell’impossibilità di provare con certezza l’effettivo svolgimento del meccanismo causale reale che aveva condotto all’insorgenza del tumore. Questa conclusione appare al giudice imposta dal rispetto dei principi fondamentali in tema di accertamento del nesso causale, consolidatisi presso la giurisprudenza della Corte di cassazione nel corso degli ultimi venti anni[12]: da un lato, si osserva che la Suprema Corte sarebbe ormai attestata «nel senso di esigere, in tema di nesso di causalità, il positivo accertamento di ciò che è naturalisticamente accaduto»[13]; dall’altro, si sottolinea la necessità di individuare una specifica legge di copertura, anche a carattere statistico, che si fondi su una tesi qualificata e accreditata dalla comunità scientifica, la quale dovrà essere “calata nel caso concreto” al fine di verificare se il rapporto di causalità possa ritenersi dotato di un’elevata credibilità razionale o probabilità logica, previa esclusione dell’esistenza di tutti i possibili “decorsi causali alternativi”. Si ricorda, in proposito, che i giudici di legittimità hanno da ultimo chiarito che «non è consentito l’utilizzo di una teoria esplicativa originale, mai prima discussa dalla comunità degli esperti, a meno che ciascuna delle assunzioni a base della teoria non sia verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo dell’attendibilità scientifica di essa e dell’affidabilità dell’esperto»[14].

Facendo dunque applicazione di tali principi al caso di specie, il G.U.P. pone in evidenza come gli studi scientifici fino a quel momento condotti intorno alla cancerogenesi dell’astrocitoma pilomixoide – ossia il particolare tumore che aveva determinato la morte della persona offesa – avessero rilevato l’esistenza di due sole cause note, la “predisposizione genetica ereditaria” e le “radiazioni ionizzanti”, le quali peraltro potevano essere concretamente ricondotte all’origine di tale patologia solo nel 10% dei casi: allo stato attuale, di conseguenza, le cause del 90% degli astrocitomi rimanevano ignote.

Nel caso in esame, entrambe le due cause note dell’astrocitoma potevano essere escluse con certezza, non risultando né che la madre della persona offesa fosse stata esposta a radiazioni ionizzanti durante la gravidanza, né la ricorrenza di sindromi genetiche ereditarie; ciò nondimeno, la perdurante incertezza scientifica in ordine alle possibili cause della patologia in questione, imputabile all’insufficienza dei dati statistici a disposizione, rendeva impossibile accertare con ragionevole certezza che cosa avesse determinato l’insorgenza dell’astrocitoma nel caso concreto e, conseguentemente, impediva di escludere che il tumore che aveva provocato la morte del bambino fosse riconducibile a cause diverse rispetto all’esposizione alle sostanze cancerogene provenienti dagli impianti produttivi dell’ex Ilva.

Come ammesso in sede di audizione dallo stesso consulente tecnico del p.m., del resto, l’esposizione alle sostanze inquinanti in questione durante lo stato fetale costituiva senz'altro un fattore idoneo a determinare un aumento del rischio di sviluppare un tumore cerebrale nei primi anni di vita, ma non poteva essere posto con certezza all’origine del singolo astrocitoma, con conseguente impossibilità di rintracciare una correlazione causale dotata di un “elevato grado di probabilità logica” tra la condotta contestata agli imputati e l’evento morte. Anche gli studi epidemiologici richiamati dalla pubblica accusa si dimostravano inconferenti rispetto a tale ultimo scopo, posto che i dati relativi alla popolazione di Taranto non rilevavano un eccesso di tumori cerebrali, ma solo di patologie tumorali di altro genere; allo stesso modo, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca contro il Cancro non annoverava i tumori del sistema nervoso centrale tra quelli correlati all’inquinamento ambientale derivante dallo svolgimento di attività siderurgiche.

Detto in altri termini, a giudizio del G.U.P. la generale cancerogenicità delle sostanze inquinanti provenienti da Ilva cui la vittima era stata esposta non poteva considerarsi elemento sufficiente a fondare l’accertamento del nesso causale nella vicenda di specie: tale dato, infatti, rappresentava un mero indizio a sostegno della tesi accusatoria, che tuttavia non permetteva di prescindere dall’indicazione di una legge di copertura più specifica che attestasse un collegamento, quantomeno a livello probabilistico, tra l’esposizione alle sostanze nocive e l’insorgenza della patologia tumorale alla base dell’evento morte nel caso concreto. Risultando una simile legge di copertura, allo stato dell’arte, inesistente, permaneva «una totale incertezza (anche medico-scientifica) sui meccanismi eziologici e sulla cancerogenesi di simili forme di tumori del sistema nervoso centrale», da cui derivavano «ragionevoli dubbi circa l’interferenza di possibili fattori causali alternativi, anche non noti»[15]; l’imputato, conseguentemente, doveva essere assolto ai sensi dell’art. 530 c. 2 c.p.p. per insufficienza di prove circa la sussistenza del fatto di reato.

 

***

 

7. La pronuncia in commento ci sembra meritevole di segnalazione, oltre che in considerazione dei rilevanti profili di interesse pubblico legati alla vicenda dell’ex Ilva di Taranto, proprio per l’attenzione dedicata al problema della ricostruzione del rapporto di causalità in situazioni caratterizzate dall’incompletezza delle conoscenze scientifiche di riferimento. La drammatica vicenda all’esame del G.U.P. di Taranto, in effetti, potrebbe efficacemente proporsi quale esempio paradigmatico di come il rigoroso rispetto del meccanismo di accertamento del nesso eziologico proposto dalle Sezioni Unite Franzese – articolato, come noto, sulla distinzione tra causalità generale (incardinata sulla possibilità di affermare una correlazione causale, almeno a livello probabilistico, tra classi di condotte e classi di eventi) e causalità individuale (il cui accertamento presuppone l’effettiva esclusione dei decorsi causali alternativi a quello individuato dalla legge di copertura) – in alcuni casi ponga il giudice di fronte al limite rappresentato da una non superabile condizione di incertezza sul piano scientifico, che inevitabilmente finisce per precludere la possibilità di avallare l’ipotesi accusatoria “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Nell’affrontare tale problematica in relazione al caso di specie, il G.U.P. si mostra consapevole del ruolo che la giurisprudenza della Corte di cassazione assegna al giudice di merito in punto di selezione del sapere scientifico attendibile. Come rilevato dalla Suprema Corte fin dalla sentenza Cozzini, invero, solo raramente costui ha la possibilità di fare affidamento su leggi di copertura provviste di riconoscimento unanime all’interno della comunità degli esperti, «non potendosi pretendere l'unanimità alla luce della ormai diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità del sapere scientifico»[16]: il suo compito, allora, diviene quello di valutare «se esista una teoria sufficientemente affidabile (…) sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso»[17], sottoponendo a un’analisi critica il sapere scientifico confluito nel giudizio e l’attendibilità e imparzialità dei soggetti che se ne fanno portatori[18]. Il tema della causalità generale, peraltro, è stato oggetto di ulteriore approfondimento da parte della Cassazione anche in pronunce più recenti, che hanno evidenziato come possa altresì capitare che il giudice si trovi a fare i conti con teorie scientifiche emergenti per la prima volta nel dibattito processuale sottoposto al suo esame, ossia con un sapere scientifico sostanzialmente “nuovo [19]; questo non importa automaticamente che simili teorie non possano essere utilizzate per corroborare la sussistenza del nesso eziologico nel caso concreto, ma il giudicante sarà tenuto a svolgere un vaglio ancora più accorto della loro affidabilità, alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, ferma l’esigenza che egli sia non “creatore”, ma “fruitore” della legge scientifica di copertura.

I principi appena sintetizzati, come si diceva, ci sembrano adeguatamente valorizzati nella decisione del G.U.P. di Taranto. In continuità con l’impostazione della Suprema Corte, infatti, il giudice ha tenuto conto del fatto che la lacunosità degli studi scientifici inerenti alla genesi dell’astrocitoma pilomixoide fosse una conseguenza della rarità del tumore in questione e, pertanto, dell’insufficienza della base statistica a disposizione; la tesi originale prospettata dalla pubblica accusa attraverso il consulente tecnico del p.m., tuttavia, a suo giudizio non superava la verifica di attendibilità prescritta dalla Cassazione, sia perché non supportata da un’adeguata base scientifica, sia perché di per sé incapace di esprimere un valido giudizio probabilistico circa la sussistenza di una correlazione causale tra l’esposizione alle sostanze tossiche prodotte da Ilva e l’insorgenza della patologia concretamente emersa, limitandosi a riscontrare la “mera possibilità” di una simile connessione[20]. Si può osservare, inoltre, che la scelta rigorosa del G.U.P. circa il grado di specificità richiesto alla legge di copertura – il cui termine di riferimento viene individuato nella causazione non di generiche patologie tumorali, ma dello specifico tumore che aveva condotto alla morte la persona offesa – appare in linea con l’impostazione in passato già seguita dalla giurisprudenza nei processi in materia di amianto, nei quali l’accertamento del nesso causale tra l’inalazione di fibre di asbesto e l’evento lesivo è stato subordinato alla condizione che l’amianto rientrasse, secondo la scienza medica del tempo, tra i possibili fattori di rischio della specifica patologia sviluppata dalla persona offesa[21].

 

8. C’è però un aspetto su cui, nonostante la scrupolosa attenzione riservata al tema dell’accertamento del nesso causale, la sentenza in commento ci sembra presentare alcuni margini di ambiguità; in particolare, il giudice tarantino non chiarisce fino in fondo se intenda inquadrare la vicenda entro il paradigma della causalità commissiva ovvero della causalità omissiva. Il dubbio circa la qualificazione adottata, a dire il vero, sorge fin dalla lettura del capo di imputazione, in quanto la scelta terminologica del p.m., pur in assenza di richiami espressi all’art. 40 c. 2 c.p., sembra sottendere una possibile lettura dei fatti a titolo di omicidio colposo mediante omissione (giacché agli imputati viene contestato di “aver consentito” la diffusione delle polveri e sostanze nocive provenienti dallo stabilimento siderurgico “omettendo l’adozione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”); lo stesso G.U.P., inoltre, nel sottolineare la necessità di un’indagine intorno al meccanismo causale che aveva condotto all’insorgenza del tumore, non sembra distinguere tra causalità attiva, nella quale l’accertamento della causalità reale mediante “eliminazione mentale” della condotta esaurisce il giudizio causale, e causalità omissiva, per cui invece la verifica della causalità naturalistica costituisce solo il presupposto del giudizio controfattuale di “addizione mentale” della condotta doverosa omessa[22].

Tale ambiguità, a dire il vero, non ha prodotto effetti pratici sulla decisione in esame, posto che il riscontro di un vizio attinente alla ricostruzione della causalità reale avrebbe in ogni caso condotto a escludere il nesso eziologico. Ci sembra però corretto, al netto di queste considerazioni, collocare con sicurezza il fatto oggetto di contestazione nel quadro della responsabilità commissiva, risultando esso incentrato sul verificarsi di un evento – la morte della giovane persona offesa – che, secondo l’assunto accusatorio, costituiva l’esito di un decorso causale innescato dalla stessa attività produttiva di Ilva s.p.a. Si può difatti sostenere, facendo applicazione di un criterio da tempo proposto in dottrina[23], che ricadano nel paradigma commissivo tutte quelle ipotesi in cui all’agente si rimproveri di aver introdotto nella realtà un fattore di rischio prima inesistente, poi sfociato nell’evento lesivo, mentre la responsabilità assume carattere omissivo allorché si imputi al titolare di una posizione di garanzia di non aver impedito il concretizzarsi di una situazione di rischio già esistente. In accordo con tale distinzione, la stessa giurisprudenza di legittimità ha in diverse occasioni sostenuto che nei casi in cui il fondamento causale dell’evento lesivo sia riconducibile all’esposizione a sostanze tossiche prodotte dall’attività d’impresa – come nella casistica in materia di morti da amianto[24] – la condotta attribuibile ai responsabili dell'azienda risulta, nel suo “nucleo significativo” [25], attiva, avendo costoro contribuito a cagionare l’offesa al bene giuridico attraverso le proprie determinazioni di tipo organizzativo; in simili ipotesi, pertanto, la dimensione dell’omissione acquista rilevanza esclusivamente sul piano del rimprovero a titolo di colpa, in termini di mancata adozione delle cautele doverose, il cui rispetto avrebbe impedito il verificarsi dell’evento.

Non va perciò trascurato che la distinzione tra condotte commissive e omissive, resa più complessa nell’ambito dei reati colposi di evento dalla frequente sovrapposizione tra causalità della condotta e causalità della colpa[26], appare comunque gravida di conseguenze rilevanti sul piano applicativo. Da tale qualificazione dipende infatti lo schema di accertamento della causalità, che – come già ricordato – in presenza di una condotta omissiva presuppone il compimento di un giudizio a carattere ipotetico (o, come autorevolmente sostenuto in dottrina, “doppiamente ipotetico”[27]), ponendo il giudice di fronte alle difficoltà insite nella verifica dell’efficacia impeditiva della condotta doverosa omessa; se dunque nella causalità commissiva il coefficiente probabilistico della legge di copertura perde, in definitiva, di pregnanza, a fronte della necessità di procedere a un accertamento in concreto della causalità individuale mediante l’esclusione dei decorsi causali alternativi, così non sarà in relazione alla causalità omissiva, la cui irriducibile dimensione prognostica rende difficile – già sul piano logico – emanciparsi da un ragionamento di carattere probabilistico[28] e, specularmente, assegna un significativo rilievo al grado di probabilità espresso dalla legge di copertura[29].

 

[1] Tribunale di Taranto, Prima Corte di Assise, 31 maggio 2021 (dep. 28 novembre 2022), n. 1.

[2] Nel procedimento “Ambiente svenduto”, infatti, le principali figure di reato contestate dalla Procura tarantina sono state quelle di disastro (art. 434 c.p.), omissione di cautele (art. 437 c.p.) e avvelenamento di acque (art. 439 c.p.), accanto all’associazione per delinquere, a reati contro la p.a. e la fede pubblica, e a diverse ulteriori figure delittuose e contravvenzionali. Sul punto si può rimandare a C. Ruga Riva, Il caso Ilva: avvelenamento e disastro dolosi, in L. Foffani – D. Castronuovo (a cura di), Casi di diritto penale dell’economia, II. Imprese e sicurezza (Porto Marghera, Eternit, Ilva, ThyssenKrypp), 2015, p. 149 ss.; cfr. anche S. Zirulia, Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale, Milano, 2018, p. 192 ss.

[3] La correlazione tra inquinamento industriale e incidenza anomala di patologie nelle aree prossime allo stabilimento è stata messa in luce fin dai primi studi epidemiologici condotti sulla città di Taranto, i quali hanno assunto particolare rilevanza ai fini del processo Ilva; cfr. ad esempio lo studio AA.VV., Ambiente e salute a Taranto: studi epidemiologici e indicazioni di sanità pubblica, in Epidemiologia e Prevenzione, 36(6), 2012, disponibile online sul sito www.epiprev.it, nel quale si rileva (p. 307) che i quartieri Paolo VI e Tamburi sono quelli in cui si sono registrati i più elevati tassi di ospedalizzazioni e mortalità della popolazione residente.

[4] Cfr. di recente Cass. pen., Sez. IV, 5 maggio 2021 (dep. 3 giugno 2021), n. 21554; il principio è stato affermato anche da Cass. pen., Sez. IV, 8 gennaio 2021 (dep. 6 settembre 2021), n. 32899, p. 302 ss., relativa al caso del disastro ferroviario di Viareggio, a proposito della quale si può rinviare al commento di P. Brambilla, Disastro ferroviario di Viareggio: le motivazioni della sentenza di Cassazione, in questa Rivista, 9 novembre 2021.

[5] Così, in particolare, la citata Cass. pen., Sez. IV, 8 gennaio 2021, n. 32899, p. 318, in cui si precisa che «L’intento del legislatore è quindi quello di evitare che in funzione della sicurezza delle attività lavorative e dei relativi addetti si creino rischi per la popolazione e l’ambiente esterno ai luoghi di lavoro».

[6] Sicuramente pertinente sarebbe stata anche la prescrizione di cui al punto 2.1.4.-bis, che stabilisce che “Nei lavori in cui si svolgano gas o vapori irrespirabili o tossici od infiammabili ed in quelli nei quali si sviluppano normalmente odori o fumi di qualunque specie il datore di lavoro deve adottare provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione”, la quale tuttavia non era vigente all’epoca dei fatti, essendo stata inserita dal d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106.

[7] Così la sentenza relativa al disastro di Viareggio, Cass. pen., Sez. IV, 8 gennaio 2021, n. 32899, p. 311. Nello stesso senso, Cass. pen., Sez. IV, 6 maggio 2016 (dep. 10 giugno 2016), n. 24136; Cass. pen., Sez. IV, 9 settembre 2015, n. 40719; Cass. pen., Sez. IV, 15 maggio 2003 (dep. 1 luglio 2003), n. 27975.

[8] Il direttore di stabilimento, infatti, nella maggior parte dei casi può ritenersi datore di lavoro ex lege sulla base della definizione contenuta nell’art. 2 lett. b) T.U.S.L., che attribuisce tale qualifica a chi «ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa». Sul complesso problema dell’individuazione dei soggetti che rivestono il ruolo di datore di lavoro all’interno delle organizzazioni complesse, cfr. la recente Cass., Sez. III, 15 febbraio 2022 (dep. 17 marzo 2022), n. 9028, con nota di A. Rossetti, L’individuazione del datore di lavoro ai sensi del d.lgs. 81/2008: uno scostamento dalle Sezioni Unite, in questa Rivista, 9 giugno 2022.

[9] La sentenza richiama, in proposito, una nota di sintesi dell’ARPA Puglia, relativa ai dati ambientali del 2008 e del primo semestre del 2009, sui cui dati si era fondata la relazione del consulente tecnico prodotta dai genitori della persona offesa (cfr. p. 18 della sentenza in commento).

[10] Cfr. p. 19 della sentenza in commento, in cui si ricorda come la madre della vittima, sentita in sede di sommarie informazioni, avesse ricordato la presenza quotidiana nell’ambiente di lavoro di “polveri di colore scuro”, che macchiavano le mani e i documenti e rimanevano intrappolate tra i capelli e che venivano quindi abitualmente inalate.

[11] Cfr. p. 21 della sentenza in commento.

[12] Si tratta dei principi accolti dalle Sez. un. dell’11 settembre 2002, n. 30328, nel caso Franzese, e più recentemente ribaditi dalle Sez. un. 24 aprile 2014, n. 38342, nel noto caso ThyssenKrupp. Tra gli arresti più recenti, la sentenza in commento richiama, in particolare, Cass. pen., Sez. IV, 15 dicembre 2021 (dep. 22 marzo 2022), n. 9705; Cass. pen., Sez. IV, 12 novembre 2021 (dep. 11 gennaio 2022), n. 416; Cass. pen., Sez. IV, 11 maggio 2021 (3 agosto 2021), n. 30229; Cass. pen., Sez. III, 7 aprile 2021 (6 settembre 2021), n. 32860; Cass. pen., Sez. IV, 29 ottobre 2020, n. 34341; Cass. pen., Sez. IV, 24 febbraio 2021 (dep. 4 maggio 2021), n. 16843; Cass. pen., Sez. IV, 13 giugno 2019 (dep. 12 novembre 2019), n. 45935; Cass. pen., Sez. IV, 19 giugno 2018 (dep. 24 ottobre 2018), n. 48541.

[13] Cfr. p. 26 della sentenza in esame, in cui il G.U.P., citando Cass. pen., Sez. IV, 12 novembre 2021, n. 416, ricorda che «In tema di nesso di causalità, il giudizio controfattuale, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, ove eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede il preliminare accertamento di ciò che è naturalisticamente accaduto (c.d. giudizio esplicativo), al fine di verificare, sulla base di tale ricostruzione, se la condotta omessa può valutarsi come adeguatamente e causalmente decisiva in relazione all’evitabilità dell’evento, ovvero alla sua verificazione in epoca significativamente posteriore». Come si avrà modo di osservare nelle brevi considerazioni svolte in chiusura al presente commento, il G.U.P. fa più volte riferimento a principi chiaramente riferibili al paradigma della causalità omissiva, pur senza mai affrontare espressamente il problema della natura commissiva od omissiva delle condotte contestate nel caso di specie.

[14] In questi termini, in particolare, Cass. pen., Sez. IV, 13 giugno 2019, n. 45935, cit., commentata in questa Rivista da S. Zirulia, Morti da amianto ed effetto acceleratore: la Cassazione interviene (tra l’altro) sui criteri di selezione della “scienza nuova”, 13 febbraio 2020.

[15] Cfr. p. 40 della sentenza in commento.

[16] Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010 (dep. 13 dicembre 2010), n. 43786, Cozzini, § 15.

[17] Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010 (dep. 13 dicembre 2010), n. 43786, Cozzini, § 16.

[18] A tal proposito, la stessa Cassazione Cozzini propone dei criteri di ordine oggettivo (relativi alla correttezza metodologica della teoria) e soggettivo (relativi alla professionalità ed imparzialità dell’esperto che interviene nel processo) sulla cui base valutare l’attendibilità della legge scientifica; in questo senso anche Cass. pen., Sez. IV, 3 novembre 2016 (dep. 14.03.2017), n. 12175, Montefibre-bis, § 18, in cui si legge che «Il sapere scientifico, altrove consolidatosi, giunge nel processo penale attraverso gli esperti; al giudice sta il compito di assicurare la competenza e l'imparzialità di giudizio del medium e di verificare con l'ausilio di questi, attraverso una documentata analisi della letteratura scientifica universale in materia, l'esistenza e l'apporto della legge scientifica di copertura». Il problema della selezione del sapere scientifico si è posto in particolare in materia di amianto, ambito nel quale la giurisprudenza, pur richiamandosi puntualmente ai test elaborati dalla sentenza Cozzini, non è mai giunta a una soluzione univoca circa la questione della validità della tesi del c.d. effetto acceleratore in relazione allo sviluppo del mesotelioma pleurico: sul punto si rimanda, per alcune analisi recenti, a S. Finocchiaro, La responsabilità penale per mesotelioma pleurico causato dall’esposizione ad amianto: una patologia di sistema, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2021, p. 161 ss.; S. Zirulia, Contrasti reali e contrasti apparenti nella giurisprudenza post-Cozzini su causalità e amianto. Riflessioni per un rinnovato dibattito sul c.d. effetto acceleratore nei casi di morte per mesotelioma, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2019, p. 1289 ss.

[19] Cfr. in particolare la già citata Cass. pen., Sez. IV, 13 giugno 2019, n. 45935, p. 29, e il relativo commento di S. Zirulia, Morti da amianto ed effetto acceleratore, cit.; nello stesso senso anche Cass. pen., Sez. I, 18 giugno 2020 (dep. 29 settembre 2020), n. 27115.

[20] Cfr. in particolare pp. 35-39 della sentenza in commento.

[21] Per tale ragione, ad esempio, il nesso di causalità è stato riconosciuto rispetto all’insorgere di patologie quali asbestosi, tumore polmonare e mesotelioma pleurico, ma non rispetto a tumori afferenti ad altre parti del corpo: in proposito si può rimandare alle considerazioni di S. Zirulia, Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale, cit., p. 64 ss.

[22] Cfr. p. 26 ss. della sentenza in commento.

[23] Cfr. in particolare L. Masera, Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva, in Dir. pen. proc., 2006, p. 500; per un chiaro inquadramento della questione si rimanda anche a F. Viganò, Il rapporto di causalità nella giurisprudenza penale a dieci anni dalla sentenza Franzese, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., 3/2013, p. 384 ss.

[24] Su tali profili, in relazione alla casistica in materia di amianto, si può rimandare a S. Zirulia, Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale, cit., p. 62 ss.

[25] In questi termini Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini, § 21; la stessa espressione si ritrova anche in Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014 (dep. 18 settembre 2014), n. 38342, Espenhahn, § 28.

[26] Su questa distinzione cfr., in particolare, Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010 (dep. 13 dicembre 2010), n. 43786, Cozzini, § 21; Cass. pen., Sez. IV, 3 novembre 2016 (dep. 14.03.2017), n. 12175, Montefibre-bis, § 15.1. In dottrina, cfr. per tutti M. Donini, La causalità omissiva e l’imputazione “per l’aumento del rischio”, in Riv. ita. dir. proc. pen., 1/1999, p. 41 ss.

[27] In dottrina si è evidenziato, in effetti, che il giudizio controfattuale rivestirebbe un carattere necessariamente ipotetico anche nella causalità attiva; nell’ambito della causalità omissiva, tuttavia, tale connotazione appare ancora più spiccata, posto che la correlazione che il giudice è chiamato a verificare non riguarda due elementi reali, ma vede la presenza di un elemento immaginario, rappresentato dalla condotta che l’agente avrebbe dovuto tenere, ma che non vi è stata. In proposito, cfr., per tutti, C.E. Paliero, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici, in Riv. It. Med. Leg., 4/1992, in particolare p. 839 ss.

[28] Sul punto, chiaramente, L. Masera, Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva, cit., p. 497 ss.; F. Viganò, Il rapporto di causalità nella giurisprudenza penale, cit., pp. 385-387.

[29] In questo senso v. ancora la sentenza Cozzini, cit., §§ 6-8.