Brevi considerazioni sulla recente ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite del quesito sulla patrimonialità, o meno, del dolo di profitto nel furto
0. Premessa. Con la Ordinanza in commento (Sez. V, ord. n. 693/2022 del 18 novembre 2022) torna alla ribalta uno fra i temi classici del diritto penale: stabilire la natura, patrimoniale o non patrimoniale, del fine di profitto nel furto.
L’evoluzione dei rapporti sociali riporta all’attualità la decifrazione di un requisito che, storicamente, viste le sue ascendenze addirittura di diritto bizantino[1], ha funto da “sentinella dello spirito” in un contesto, quello dei reati contro il patrimonio, altrimenti per sua essenza esclusivamente “materialistico”.
Oggi, la disgregazione dei rapporti sociali anche familiari più stretti (si pensi ai quotidiani contrasti, talvolta violenti, fra coniugi, fra conviventi o fra separati) pone sul banco del Giudice casi in cui la sottrazione – tipicamente, come nella vicenda deferita all’attenzione del Supremo Collegio, quella di un telefono cellulare – avviene non più tanto per ragioni di arricchimento, bensì più che altro per scopi che, in prima approssimazione, si potrebbe definire “emulativi” (dispetto, ritorsione, coercizione etc.).
Per risolvere tali complesse questioni, a volte apparentemente inestricabili, abbiamo pensato di enucleare sei paradigmatiche distinzioni.
1. Estraneità, di regola, fra autore e vittima del delitto di furto. Nel 1980, anno notevole sotto molti aspetti, un acuto Autore[2] coglieva con l’usuale penetrante chiarezza l’autentica cifra di offensività e di pericolosità soggettiva del delitto di furto, rispetto ad altre fattispecie del medesimo capo, quali – in particolare – il danneggiamento.
Non a caso, infatti, il furto contempla il fine di profitto: è questo che consente di annoverare la violazione fra quelle volte a realizzare un trasferimento di ricchezza del tutto unilaterale ed inopinato, perché non preceduto da alcun pregresso rapporto negoziale o “da contatto sociale”[3].
Le ipotesi di sottrazione di una cosa animate dallo scopo di danneggiarla, distruggerla, renderla inservibile, dal fine di ritorsione o di celia rispetto al proprietario, presuppongono invero – normalmente – la sussistenza di un qualche rapporto di conoscenza fra autore e vittima, il quale fa “supporre che la condotta di sottrazione sia rivolta più alla persona del proprietario che alla cosa in sé, sia più un modo di offendere il proprietario che un modo di far circolare economicamente un bene”[4].
2. Un reato non solo contro il patrimonio, ma anche per il patrimonio. Un’ulteriore tappa di avvicinamento alla comprensione della predetta finalità di profitto consiste nel rilevare come la funzione selettiva propria di tale dolo specifico connoti il furto come un delitto che, a differenza del danneggiamento, non si rivolge semplicemente contro il patrimonio (per la qual cosa basterebbe anche la semplice manomissione del possesso altrui[5] mediante sottrazione), ma che realizza anche, al contempo, un trasferimento di utilità in favore del reo; non solo, dunque, una violazione del patrimonio, ma una circolazione illegittima, e nella specie violenta, di beni.
Come è stato perspicuamente osservato, il furto, attraverso la descritta caratterizzazione del dolo, getta luce non solo sulla condotta, ma anche sull’autore, e presenta “un duplice contenuto precettivo”[6]: “non solo evitare l’impoverimento altrui”, ma anche “l’arricchimento o, comunque, l’avvantaggiarsi dell’agente mediante il ricorso a mezzi illeciti”[7].
Tale profilo di corrispettività era già stato rilevato dal Carmignani, che l’aveva cesellato nella seguente affermazione: “Il lucro però in questo delitto non consiste nel procacciarsi un comodo qualunque, ma propriamente nell’aumentare il proprio patrimonio colla diminuzione dell’altrui”[8].
3. Un profitto tratto dalla cosa, non un mero vantaggio derivante dalla condotta. Oltre all’assenza di pregressi rapporti fra autore e vittima ed all’evidenziato trasferimento illegittimo di utilità, una terza ed ulteriore puntualizzazione consiste nel notare come, nel furto, a differenza che in altri reati – ad es. contro la persona – l’agente non persegue la generica finalità di avvantaggiarsi nei confronti della persona offesa attraverso una condotta di prevaricazione; ciò che invece accade nella violenza privata.
No, nel furto, il fine specifico è quello di avvantaggiarsi dal punto di vista di accrescere il proprio ventaglio di utilità, i propri averi, è il fine accrescitivo di ampliare la sfera di possibilità di soddisfare i propri bisogni: questi ultimi, poi, potranno essere di ogni genere, ma di certo l’utilità è di natura patrimoniale, non foss’altro perché ricavata direttamente da una cosa.
Non a caso, l’art. 624 c.p. dice profitto, non mero vantaggio: termine che è viceversa impiegato in altre fattispecie, fra cui l’articolo 490 c.p., ad indicare che se la condotta si traduce nel nascondere o nel rendere illeggibile si avrà il reato di soppressione di atti, ma se la prova trapassi nel possesso del reo si avrà (quantomeno anche) delitto di furto.
Ad esempio: è violenza privata se l’amotio, lo spostamento della cosa, ha per oggetto le chiavi dell’autovettura alla propria consorte, nel contesto di un litigio familiare, e sia diretto al solo fine di impedirle di partire ed andarsene; ciò lo si può desumere nel caso concreto dal fatto che esse siano immediatamente restituite alla p.o. (senza utilizzarle), o siano da questa ritrovate nel luogo in cui il reo le abbia celate, senza impossessarsene, come del resto indicato dal fatto che il nascondiglio sia collocato fuori dalla sfera di controllo dell’autore; egli le ha dunque sottratte per disfarsene, non certo per trasferirle definitivamente nel suo patrimonio.
Sono violenza privata, inoltre, magari in concorso con il danneggiamento (se la cosa sia anche solo in parte dispersa[9] o resa inservibile), tutte le azioni di mero disturbo o manomissione di una cosa; azioni che si riducono alla mera contrectatio, senza l’hanimus rem sibi habendi.
Se viceversa è attraverso uno stabile impossessamento delle chiavi che il reo cerca di impedire alla consorte di ripartire con l’autovettura, quest’ultima finalità degrada a motivo della condotta, perché il fine immediato è quello di realizzarne un’appropriazione niente affatto precaria: tenere le chiavi presso di sé è furto, non importa se azione compiuta col retropensiero di privare un’altra persona di una facoltà legittima.
Non vi è soltanto una privazione di utilità a danno di altri; vi è una circolazione di un bene contro la legge.
La derivazione diretta dell’utilità accrescitiva dalla res, come vedremo, è uno dei fondamentali criteri discretivi e rivelatori in subiecta materia, uno fra i pochi davvero in grado di assicurare un’interpretazione tassativa della previsione incriminatrice.
D’altronde, prima di ogni altra cosa, è la formulazione letterale della norma ad indicarlo: la desinenza pronominale “-ne”, contenuta nel sintagma espressivo del dolo specifico, al fine di trarne profitto, è un elemento assolutamente rilevante in tal senso, e non è certo possibile obliterarlo[10].
Tanto è vero che, qualora il reo abbia agito pur sempre per ricavare una utilità dalla cosa, ma si tratti di una utilità transitoria, ebbene allora è comunque un furto a configurarsi, più precisamente un furto d’uso, compiuto al solo fine di fare della cosa sottratta “un uso momentaneo”.
4. Un fine immediato di profitto, non un motivo ulteriore qualsiasi. Una quarta decisiva distinzione si coglie nel rendersi conto di come, nel furto, a differenza che nel danneggiamento, il fine di accrescimento delle proprie provviste connota in maniera immediata la condotta, in sostanza ne costituisce lo scopo immediato e non un movente remoto (o scopo ulteriore).
Tanto è bene precisare per sancire, ad esempio, l’inconferenza, rispetto alla previsione tipica dell’art. 624 c.p., del fine di arricchimento perseguito da chi, nel periodo natalizio, per avvantaggiarsi di una minore concorrenza, privi il gestore del vicino negozio, che vende generi alimentari identici ai propri, delle chiavi di apertura della saracinesca: a decidere dell’integrazione, o meno, della fattispecie tipica non è tale scopo ulteriore, ma quello immediato; se la sottrazione viene fatta per tenere le chiavi presso di sé, impossessandosene, questo è furto, non importa poi che cosa il reo ne voglia fare, essendo come noto proprio del dominus lo ius utendi ac abutendi della cosa in suo possesso; se invece essa viene commessa per un fine immediato di dispersione/inservibilità della cosa, magari gettata subito, e volontariamente, nella discarica prima ancora dell’impossessamento, ecco allora che si avranno, magari in concorso, i reati di danneggiamento e violenza privata.
Quest’ultimo aspetto è stato colto anche dalla ordinanza in commento, laddove essa, nel richiamare e sunteggiare il percorso argomentativo seguito dalla recente pronuncia della Sezione Quinta (n. 26421 del 17/05/2022, in CED Cass., Rv. 283531[11]), tiene a sottolineare la necessità di operare una demarcazione netta fra dolo specifico, o fine immediato, e movente, o scopo recondito dell’azione; quest’ultimo sempre sussistente in re ipsa, essendo ogni uomo spinto ad agire per un qualche motivo.
In effetti, la funzione tassativizzante di questo elemento di fattispecie, che la distingue essenzialmente da altre figure quali la violenza privata e, se la vis adoperata deteriori la cosa, il danneggiamento, consiste propriamente nel sancire l’insufficienza della generica posizione di vantaggio nei confronti della persona offesa che viene giocoforza conseguita attraverso ogni atto di umana prevaricazione.
Nel furto (così come, del resto, nell’ipotesi speciale della rapina), quel vantaggio preso di mira dall’agente è specifico: è il dolo di accrescere le proprie capacità di soddisfare i propri bisogni attraverso una utilità ricavata direttamente dalla cosa sottratta.
5. Lo scopo di appropriarsi stabilmente di una cosa, per soddisfare un bisogno anche transitorio. Trattiamo ora del nocciolo della questione, del fondamentale e risolutivo criterio di demarcazione del fine di profitto nel furto.
Nel far ciò, occorre a nostro giudizio premettere che la pronuncia in commento, se certo spicca per approfondimento culturale e giurisprudenziale nell’esporre lo sviluppo del dibattito sul tema, appare invece un poco riduttiva nell’enucleare il quesito in definitiva rimesso alle Sezioni Unite.
Scrive la Corte: “appare evidente la necessità di investire il massimo Consesso nomofilattico sotto il seguente aspetto: se il fine di profitto, in cui si concerta [rectius concreta] il dolo specifico del delitto di furto, debba essere inteso solo come finalità dell’agente di incrementare la sfera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini conseguibili, ovvero se possa anche consistere nella volontà di trarre un’utilità non patrimoniale dal bene sottratto”.
In particolare, ciò che non persuade fino in fondo è se tale alternativa, così come seccamente delineata, possa davvero fungere da criterio certo – e soprattutto tassativo – di risoluzione dei singoli casi concreti o se invece, come crediamo, non presti il fianco ad un eccesso di vaghezza.
Stabilire infatti se una determinata utilitas sia, o meno, economicamente valutabile, e quindi annoverabile a pieno titolo tra quelle di natura patrimoniale, sembra porsi in linea di continuità, riecheggiandole, con le più insolubili dicotomie del mondo giuridico, come quelle fra “pubblico” e “privato”, o fra “processuale” e “sostanziale”, ciascuna inevitabilmente implicante la necessità di concludere per l’esistenza di regimi giuridici intermedi o misti, né totalmente pubblici né totalmente privati (es. società, o beni), di istituti non proprio solamente sostanziali né proprio esclusivamente processuali (es. la querela, la prescrizione).
Il problema si pone oggi, eminentemente, per la sottrazione di dati o informazioni: carpire una notizia sul conto della propria moglie attraverso la sottrazione del telefono cellulare del suo amante, onde offenderne la reputazione al cospetto di altri, non costituirebbe furto, come invece quello commesso ai danni della stessa donna se questa sia un personaggio noto al pubblico ed autore della sottrazione un avido paparazzo? Non sarebbe forse patrimoniale l’acquisizione della password di una carta di credito annotata in un’agenda digitale? Non sarebbe economicamente valutabile l’hard disk contenente il reportage segreto delle atrocità commesse da un gerarca nazista, oppure occorrerebbe piuttosto considerarne le enormi possibilità di sfruttamento giornalistico?
Chi scrive crede che la semplicità del quesito posto alle Sezioni Unite della S.C. sconti in verità, ancora in parte, l’equivoco non sopito fra fine immediato e scopo ulteriore[12]: è infatti il motivo ad agire che può essere indifferentemente anche soltanto morale, ma il dolo specifico del furto consiste giocoforza nella volontà di trasferire un’utilità dalla sfera patrimoniale di un altro soggetto alla propria.
Che poi il così istituito nuovo dominus di quella utilitas ne possa fare l’uso che più gli aggrada, appagando le esigenze più varie, morali o materiali che esse siano, è insito nell’ordinario ius utendi ac abutendi che connota ogni situazione di signoria su un bene.
Ciò che è decisivo, tuttavia, è che l’azione furtiva sia assistita e sorretta, nel momento in cui viene commessa, dalla specifica finalità di arricchire il proprio ventaglio di possibilità (di soddisfare i propri più svariati bisogni) attraverso la stabile introduzione di una cosa nella propria sfera di possesso.
Il quesito deferito al Supremo Collegio non consente allora di rispondervi nel modo corretto, e cioè di affermare che il passaggio definitivo di una cosa dall’altrui alla propria signoria costituisce in ogni caso, e necessariamente, l’oggetto di una finalità di tipo patrimoniale, a prescindere dai fini ulteriori cui la nuova utilitas verrà asservita.
Un ulteriore fattore di ambiguità, cui anche il predetto quesito non si sottrae, è dato dall’impiego del termine “utilità”, che pure anche qui abbiamo ripetuto più volte: è invero decisivo chiarire, una volta per tutte, che un conto è parlare di “utilità”, a mo’ di metonimia, per indicare l’“avere una cosa in più”, ed allora il fine è sicuramente patrimoniale ed ultimativo; tutt’altro conto è “utilità” nel senso di “utilizzo della cosa”, il che come visto può soddisfare finalità anche del tutto spirituali e transeunti.
La verità è infatti che l’interpretazione del profitto nel furto non può andare disgiunta da quella dell’evento tipico di fattispecie: l’impossessamento.
È attraverso un impossessamento che il reo persegue quel profitto: di talché, quest’ultimo non può che consistere nel fine di incrementare le proprie risorse mettendo al sicuro un nuovo bene (a prescindere dall’utilizzo che il nuovo possessore deciderà poi di fare della cosa sottratta).
In estrema sintesi, il profitto sta lì proprio ad indicare la stabilità perseguita della nuova situazione possessoria[13].
Tanto è vero che se preso di mira è solo un uso momentaneo della cosa, allora il furto degrada nella fattispecie minore del furto d’uso; nel furto comune, è allora il movente, questo solo, che può consistere anche nella soddisfazione transitoria e del tutto momentanea di un proprio bisogno, ma attraverso il possesso di una cosa che si vuole entri definitivamente nel proprio patrimonio.
Ed ovviamente non rileva che, in itinere criminis, quel possesso sia perduto per un fatto indipendente dalla volontà dell’agente: l’infrazione si arresterà allo stadio del tentativo, ma pur sempre un tentativo di furto, non certo di un altro delitto.
Conta eccome, invece, che quella finalità, di realizzare – come detto – un impossessamento stabile/definitivo, sia perseguita originariamente dall’agente, il che sarebbe ad esempio inficiato da un ragionevole dubbio se quegli si fosse per avventura disfatto della cosa nell’immediatezza, sua sponte e prima ancora di averne conseguito un possesso sicuro, giacché ne rivelerebbe il dolo di solo danneggiamento o di sola violenza privata[14].
Del resto, il furto nient’altro è che un’appropriazione indebita commessa da chi, non avendo di già la disponibilità materiale della cosa, se la procacci sottraendola a chi la detiene.
Il fine del furto è dunque, indubbiamente, appropriativo[15]: trattasi non soltanto di diminuire le utilità altrui, ma al contempo, e correlativamente, di accrescere le proprie “mediante lo sfruttamento, attuale o anche solo potenziale, della cosa sottratta”[16]; dove la possibilità di godimento della cosa, anche solo futuro e potenziale, deve davvero ritenersi la cifra minima di patrimonialità del delitto in questione.
Tenendo sempre ben presente questo fine di instaurare un nuovo possesso non precario su di una res possono allora a nostro avviso risolversi, nel senso della configurabilità del furto, alcuni tradizionali casi problematici di scuola, tutti comunque contrassegnati dal fatto che il reo agisce allo scopo di tenere la cosa per sé[17] (per poi magari decidere, soltanto in seguito, che uso farne).
Così, ad esempio il furto, per vendetta, di un bene di esclusivo valore affettivo per la vittima[18]; il furto per pura curiosità o a scopo feticistico; il furto a fin di bene, ad esempio la sottrazione della droga al proprio compagno per impedirgli di usarne; il furto strategico, ad esempio per farsi esonerare dalla leva militare o per fare ricadere la responsabilità su altri: sono tutte ipotesi che, nella misura in cui comunque si concretano in un’azione volta al trasferimento stabile di una cosa dalla altrui alla propria sfera possessoria, integrano la fattispecie del furto.
Invero, in tutte, il fine immediato, in continenti tempore, è quello di istituire una nuova relazione di signoria su di un bene, non importa poi a quale fine ulteriore. Ed è solo quest’ultimo che può essere indifferentemente patrimoniale e non patrimoniale, duraturo o transitorio. Il primo è invece, indiscutibilmente, quello di accrescere in modo non precario la propria provvista di utilità.
Lo stesso vale, mutatis mutandis, per il furto con violenza o minaccia alla persona, la rapina.
Qui, addirittura, l’assenza di una fattispecie minore, incentrata sul solo fine d’uso momentaneo della cosa, fa assurgere a rapina qualsiasi sottrazione aggressiva, nei termini indicati, di una cosa altrui, anche se finalizzata a farne un utilizzo temporalmente assai circoscritto, purché, beninteso, si sia agito al fine di instaurare sul bene un nuovo, e definitivo, rapporto di possesso.
In questi termini si è già espressa la giurisprudenza: “È configurabile il delitto di rapina, e non quello di violenza privata, quando la persona offesa sia costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene, anche per un uso meramente momentaneo, e ne perda il controllo durante l'utilizzo da parte dell'agente, il quale, in tal modo, consegue l'autonoma disponibilità della cosa (Fattispecie in cui l'imputato non si era limitato a richiedere un passaggio alla persona offesa, ma l'aveva percossa e si era impossessato del suo ciclomotore, allontanandosi)” (Cass., Sez. II, Sentenza n. 16819 del 26/02/2019, in CED Cass., Rv. 276052 – 01)[19].
6. Un profitto ingiusto, non solo una condotta priva di cause di giustificazione. Infine, una sesta ed ultima puntualizzazione concerne la riconosciuta necessaria ingiustizia del profitto: si è infatti unanimemente argomentato su basi sistematiche che il profitto del furto, benché non sia detto espressamente dal legislatore, debba essere ingiusto, non potendo coincidere con il requisito implicito di ogni violazione penale, e cioè con l’assenza di scriminanti.
Sotto questo profilo, emerge ancora un’altra prestazione selettiva e tipizzante del dolo specifico in questione: quella di distinguere il furto dai reati di esercizio arbitrario delle private ragioni mediante violenza (sulle cose o alle persone), dove contra ius è il solo mezzo adoperato e non anche il fine perseguito.
[1] Cfr. G. Pecorella, voce Furto (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XVIII, pp. 318-410, in partic. p. 348.
[2] F. Sgubbi, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, Giuffrè, Milano, 1980, p. 150 ss.
[3] È del resto tradizionale la distinzione, in tema di reati contro il patrimonio, fra alcune forme criminose dettate da fine di lucro e altre animate da spirito di vendetta, le prime concretizzantesi in uno spostamento di ricchezza, le seconde in un’attività dispersiva di beni: cfr. F. Bricola, voce Danneggiamento (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XI, pp. 599-611, in partic. p. 607.
[4] F. Sgubbi, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, cit., p. 159.
[5] L’antica contrectatio.
[6] Questa l’espressione utilizzata da F. Mantovani, voce Furto, in Dig. pen., vol. V, pp. 356-386, in partic. p. 374.
[7] Ibidem.
[8] G. Carmignani, Elementi di diritto criminale, San Vito, Milano, 1863, p. 379 (§ 1039).
[9] Spesso non si rammenta che il trasferimento di una cosa in un luogo inaccessibile sia al reo che alla vittima può integrare la previsione dell’art. 635 c.p.
[10] Oltretutto, tale sottolineatura della derivazione reale (dalla res, appunto) del profitto ha illustri natali nelle Codificazioni unitarie e preunitarie: diceva il Codice Toscano “per farne lucro”; il Codice Zanardelli “per trarne profitto”. Ma comunque era chiaro in tutti progetti, anche precedenti a tali Legislazioni, che l’uso della cosa sottratta doveva essere pratico, non meramente teoretico o contemplativo (cfr. G. Pecorella, voce Furto (dir. pen.), cit., in partic. p. 347 ss.; non bastava tenere la cosa per sé, occorreva farla propria, come è del resto implicito nel concetto di impossessamento, altro elemento tipico della fattispecie.
[11] Pronuncia di annullamento con rinvio, peraltro eccessivamente indulgente, a nostro giudizio, verso l’orientamento favorevole a negare il furto anche in casi pacifici in cui preso di mira è uno scopo di trasferimento patrimoniale definitivo del bene sottratto.
[12] Nodo problematico che poi consiste nel domandarsi, in definitiva, se il dolo specifico sia da collocare, dal punto di vista della teoria generale del reato, nel “fatto tipico” o piuttosto nella “colpevolezza”. Se, cioè, esprima una modalità dell’azione, ovvero soltanto una posa dell’atteggiamento interiore. È ovvia la nostra preferenza per la prima opzione, se non altro alla luce del principio di materialità del diritto penale moderno (nullum crimen sine iniuria, cogitationis poenam nemo patitur). La ragione per la quale non abbiamo eletto tale distinzione a titolo di un autonomo paragrafo, nell’economia del presente commento, è che la stessa non riguarda soltanto il furto, ma ogni reato la cui struttura contempla il perseguimento di una finalità di dolo specifico.
[13] Non può dunque in alcun modo condividersi che, nella formulazione della fattispecie dell’art. 624 c.p., la menzione del fine di profitto sia inutiliter data, in quanto già implicita nell’azione finalizzata ad acquisire il possesso della cosa; oltre alle altre funzioni che sono illustrate nel breve corso del presente commento, la funzione eminente del profitto è quella di segnalare la finalità appropriativa stabile di quell’impossessamento. Ciò può essere dimostrato anche per via di un illustre riferimento comparatistico: in Germania, la previsione sul furto (Diebstahl) (§ 242 StGB) prescinde da ogni contemplazione di un dolo di profitto: ma proprio perché la norma si esprime in termini di finalità di appropriarsi della cosa (eine Sache zueignen), non semplicemente di acquistarne il possesso (den Gewahrsam/Besitz von einer Sache erwerben).
[14] Non è punto vero, allora, che ad intendere nei termini qui esposti il fine di profitto non si connota ulteriormente e in alcun modo il già espresso requisito-evento dell’impossessamento (c.d. interpretatio abrogans): non costituisce furto, ad esempio, ogni azione volta a un impossessamento precario di una cosa, ogni apprensione e trasferimento nella propria sfera di controllo/signoria fatta al solo fine di immediatamente danneggiarla/disperderla/renderla introvabile.
[15] Così V. Manes, Delitti contro il patrimonio mediante violenza sulle cose o alle persone, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, II ed., Monduzzi, Bologna, 1998, p. 447: «Tale finalità [di dolo specifico, ndr] assolve ad un importante compito di ‘tipicizzazione’ del fatto, contribuendo a puntualizzare che è l’appropriazione il termine finale dello ‘spostamento’ patrimoniale». L’A. richiama le conclusioni raggiunte anni prima da L. Picotti, Il dolo specifico. Un’indagine sugli ‘elementi finalistici’ delle fattispecie penali, Giuffrè, Milano, 1993, il quale a p. 228 aveva affermato: «Benché formulato, a livello di tipo normativo, come dato “soggettivo” ed ulteriore rispetto alla condotta, il fine specifico puntualizza, così, l’oggettivo significato di “appropriazione”, che deve avere l’impossessamento materiale della cosa, per realizzare il reato».
[16] Così, pressoché testualmente, G. Pecorella, op. cit., p. 350 ultimo capoverso.
[17] Integra dunque, indiscutibilmente, furto la sottrazione commessa con la generica volontà di tenere definitivamente la cosa per sé. Contra: Cass., Sez. V, Sent. n. 30073 del 23/01/2018, in CED Cass., Rv. 273561: sottrazione della borsetta alla p.o. per mantenere i contatti con essa (questo movente è irrilevante, ciò che conta è che il reo è in possesso di un nuovo bene, che potrà anche regalare ad una successiva fidanzata o farne ciò che vuole); Cass., Sez. V, Sent. n. 25821 del 5/04/2019, in CED Cass., Rv. 276516: sottrazione di due flessibili dalla scatola di derivazione elettrica di una saracinesca al fine di favorire uno sciopero contro il datore di lavoro (se li trattiene presso di sé, il ladro possiede due nuovi flessibili funzionanti, con cui potrà sostituire quelli del proprio quadro elettrico quando questi si danneggeranno); Cass., Sez. V, Sent. n. 40438 del 1/07/2019, in CED Cass., Rv 277319-02: sottrazione di un rilevante numero di cani di razza per sottrarli al regime di segregazione di uno stabulario (non importa il movente animalistico, i nuovi possessori dei cani, fra l’altro così notevolmente arricchitisi, potranno venderli o goderseli a loro piacimento).
[18] È indubbiamente furto la sottrazione, per ritorsione, del quadretto con la fotografia della nonna che l’amico con cui si sono rotti i rapporti suole tenere sul comodino: quel che conta è il fine immediato di trasferire in modo non precario la cosa nella propria sfera di possesso, potendosi un domani, ad esempio, sempre fare uso soltanto della piccola cornice o del fondo per appiccicarvi quella della propria fidanzata. Si ripeta: sta al nuovo dominus decidere se usare o abusare della cosa ormai fatta propria.
[19] È in verità conforme, proprio nella misura sottolinea, in quel caso, la mancanza del fine di acquisire un possesso durevole sulla cosa, Cass., Sez. II, Sentenza n. 34905 del 07/05/2013, in CED Cass., Rv. 257102 – 01, così massimata: “Non è configurabile il delitto di rapina, nemmeno nella forma tentata, bensì quello di violenza privata, quando la persona offesa è costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene per un uso meramente momentaneo e ne conserva inoltre il controllo durante l’utilizzo, senza che l’agente consegua un autonomo possesso della cosa. (Fattispecie in cui la vittima era stata costretta a consegnare un motorino all'imputato per un uso momentaneo, ma aveva ottenuto che a bordo del mezzo prendesse posto anche una persona di sua fiducia a garanzia della restituzione del veicolo)”.