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05 Ottobre 2023


La prima pronuncia di legittimità sull’art. 612-ter c.p.

Cass. pen., Sez. V, sent. n. 14927 (ud. 22 febbraio 2023, dep. 7 aprile 2023), rel. Brancaccio



*Contributo pubblicato nel fascicolo 10/2023.

 

1. Dopo alcuni controversi provvedimenti di merito[1], si registra la prima pronuncia della Corte di Cassazione sul delitto di “diffusione di immagini o video sessualmente espliciti”, come noto introdotto all’art. 612-ter c.p. nel 2019, in occasione dell’approvazione del c.d. “Codice Rosso”[2].

La sentenza, che può leggersi in allegato, non serve a dissipare i dubbi interpretativi sorti in merito al requisito della destinazione privata delle immagini[3], fin qui il principale snodo applicativo della fattispecie e la cui problematicità, peraltro, sembra confermata anche da recentissime vicende di cronaca[4]. Il caso, infatti, ha ad oggetto un episodio di “revenge porn in senso stretto”[5], nel quale l’immagine, poi diffusa a scopo punitivo, era stata realizzata nel contesto intimo di una coppia, reso ancor più segreto dalla natura extraconiugale della relazione. Nondimeno, la Corte affronta tre questioni assai rilevanti per delineare l’estensione del perimetro applicativo della fattispecie. In particolare: a) se l’invio ad una singola persona assuma una valenza diffusiva e risulti, di conseguenza, idoneo ad integrare il delitto; b) se la fattispecie richieda ai fini della sua configurazione un dolo specifico; e, soprattutto, c) quando un’immagine possa dirsi “sessualmente esplicita”.

 

2. Questa la vicenda, «chiaramente ricostruita» – a giudizio della Corte (p. 7) – nelle motivazioni di merito. Nel marzo 2019, la persona offesa intraprende una relazione sentimentale con l’imputato, per poi interromperla alla fine di settembre dello stesso anno (quando, nel frattempo, il nuovo reato è stato introdotto durante l’estate). L’uomo, all’epoca poco più che cinquantenne, non accetta la separazione e avvia una serie di condotte persecutorie, dirette dapprima esclusivamente nei confronti della donna e, una volta che questa «blocca il contatto con la sua utenza telefonica», anche nei confronti della sua famiglia. Nello specifico, dopo aver svelato la relazione al marito (il quale chiederà alla moglie di abbandonare la dimora familiare), tempesta i figli di messaggi telefonici e tramite Facebook, inviando loro frasi offensive su entrambi i genitori e alcune foto. Tra queste ce n’è una che raffigura la donna a seno nudo, nell’atto di inviare un bacio che i giudici di merito non esitano a definire «erotizzante». La stessa immagine viene inoltrata alla sorella della migliore amica della vittima, che la informa di quanto sta accadendo. A seguito di quest’episodio, nonché di un aggressivo appostamento da parte del ricorrente davanti alla sua azienda agricola, la donna si decide a querelarlo.

L'uomo, tratto a giudizio davanti al Tribunale di Latina per i delitti di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e diffusione di immagini e video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.), viene condannato all’esito di giudizio abbreviato per entrambi i capi d’accusa. La decisione di primo grado è successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Roma.

 

3. Trattandosi di fenomeni sociali relativamente recenti, conviene soffermarsi ancora brevemente sui contorni della vicenda per trarne alcuni spunti di riflessione sul piano criminologico, nonché per meglio contestualizzare le questioni interpretative sollevate nel ricorso.

Nel caso giunto all’attenzione della Corte, la diffusione dell’immagine sessuale si inserisce in un più ampio episodio di stalking, rappresentandone una delle molteplici condotte vessatorie. Da questo punto di vista, come si accennava, l’etichetta anglofona revenge porn – peraltro applicata al caso anche dalla stessa Cassazione (p. 10) – non appare, nonostante i suoi innegabili limiti[6], del tutto fuorviante: l’imputato invia ai figli della vittima l’immagine della madre a seno nudo a mero scopo vendicativo, con l’evidente proposito di umiliarla e creare scompiglio in famiglia, come dimostrato anche dalla rivelazione del tradimento al marito.

Vicende come quella in oggetto sembrano collocare il delitto di cui all’art. 612-ter c.p., perlomeno in alcune sue manifestazioni, non solo all’interno della cornice della violenza di genere[7], come ormai riconosciuto con sempre maggiore nettezza a livello sovranazionale[8], ma anche nella sua sottospecie[9] della violenza domestica[10]. Studi stranieri dimostrano infatti la tendenza ad utilizzare le immagini intime – non per forza realizzate consensualmente o, addirittura, consapevolmente – come uno strumento di coercizione e di controllo, attraverso la minaccia di diffusione delle stesse in caso di rottura della relazione, di abbandono o di mancata sottomissione ad atti sessuali[11]. In questo senso, l’abuso è facilitato dallo strumento tecnologico[12]. Anche nel caso di specie, del resto, pur non convivendo con la persona offesa, l’imputato prospetta la rivelazione della storia “clandestina”: una minaccia resa ancor più verosimile e tangibile dal possesso di immagini intime che ne costituiscono la prova.

I fatti di Latina confermano dunque la contiguità criminologica tra la diffusione di immagini sessualmente esplicite e lo stalking che sembra alla base della scelta del legislatore di inserire la nuova fattispecie incriminatrice tra i delitti contro la libertà morale, proprio immediatamente dopo gli atti persecutori (art. 612-bis c.p.)[13]. Dato il carattere plurioffensivo del reato[14], infatti, le possibili soluzioni “topografiche” erano molteplici, spaziando ad esempio dalla annessione tra i delitti sessuali – che avrebbe trovato giustificazione nel requisito del carattere “sessualmente esplicito” dei materiali diffusi[15] – fino alla creazione di un nuovo titolo dedicato alla tutela dell’intimità o privacy sessuale[16]. Per quanto riguarda il caso in esame, dalla lettura della sentenza non pare che la contestazione separata di entrambe le fattispecie sia stata oggetto di appello e di ricorso. Esse, anzi, sono state ritenute in continuazione tra loro ex art. 81 c.p. senza alcuna obiezione difensiva (p. 2).

Può risultare invece sorprendente osservare da vicino i protagonisti della vicenda: un uomo che ha appena superato la cinquantina e una donna sposata con due figli. Spesso si tende a considerare circoscritti all’ambito giovanile taluni fenomeni che implicano l’uso disinvolto di nuove tecnologie. Tuttavia, le ricerche empiriche realizzate nei Paesi angloamericani dimostrano da tempo il contrario[17], ovvero la trasversalità anagrafica delle condotte di “sexting[18] e delle correlate forme di abuso basate su immagini sessualmente esplicite[19]. Paradossalmente, per effetto delle campagne di prevenzione indirizzate ai più giovani, che suggeriscono ad esempio la condivisione solo di immagini dalle quali non è possibile il riconoscimento della persona rappresentata, a risultare più esposte al rischio di vittimizzazione potrebbero risultare proprio le persone non più giovanissime[20].

Un’ultima peculiarità del caso di specie riguarda le modalità di diffusione. Forse per via di eclatanti vicende di cronaca che hanno segnato l’opinione pubblica, si tende ad associare il fenomeno del “revenge porn” a condotte in grado di determinare – o quantomeno innescare – la “viralità” delle immagini. Se è vero che si tratta probabilmente delle vicende contrassegnate dal maggior disvalore, va altresì sottolineato come il quadro criminologico presenti molte storie di condivisione delle immagini con pochi soggetti mirati (ad es. il nuovo partner della vittima, i genitori, il suo datore di lavoro), volte a cagionare conseguenze specifiche prima ancora che la diffusione a tappeto dell’immagine[21]. Ciò, evidentemente, è accaduto anche nella vicenda in esame, nella quale un’immagine della madre nuda e ammiccante è stata inviata solo ai figli della persona offesa (e a un’amica). Tale aspetto ha costituito una sorta di appiglio difensivo per il ricorrente, che nei motivi ha esplicitamente argomentato la mancata configurazione del delitto contestatogli sulla base del fatto che la sua condotta si era limitata a mettere a disposizione l’immagine a un novero ristretto di soggetti, dai quali, peraltro, era lecito attendersi che non avrebbero dato ulteriore impulso alla disseminazione.

 

3. E proprio ai motivi di ricorso conviene rivolgere lo sguardo. La difesa dell’imputato ne articola quattro, con ampi rimandi interni e contaminazioni: come sintetizza l’estensore, in sostanza, i primi tre afferiscono tutti a profili probatori relativi ai reati contestati, mentre l’ultimo solleva le questioni sostanziali sull’art. 612-ter c.p. che rendono di interesse la lettura della sentenza.

La tesi principale del ricorso, approfondita in particolare nei primi due motivi, è che nei gradi di giudizio precedenti non fosse stato identificato con certezza l’autore dell’invio della foto a seno nudo raffigurante la vittima. Tale circostanza, infatti, era stata oggetto di una richiesta di perizia integrativa del rito abbreviato, correttamente respinta – a giudizio della Corte – sulla base dei criteri di «novità, decisività e rispetto della finalità di economia processuale che sovrintendono all’ammissibilità della prova integrativa del giudizio abbreviato» (p. 5). Qui sembra interessante osservare che, a differenza dei casi di upload di immagini su siti o social network, nei quali la prova della condotta presenta notevoli difficoltà probatorie, quanto ad invii “ad personam” dell’immagine la Corte avalla l’operato dei giudici di merito, che avevano ritenuto sufficienti le prove testimoniali e gli “screenshot” dei telefoni: «i contenuti della perizia ripercorrono dati di prova già certi ed inequivoci, per la presenza di plurime dichiarazioni reciprocamente riscontrantesi e di documenti in atti (gli screenshot dei telefoni, ad esempio, che cristallizzano i contenuti dei messaggi e delle foto)»[22].

Quanto al reato di atti persecutori, invece, il terzo motivo lamenta – come spesso accade – l’insussistenza (o, comunque, il mancato accertamento) degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis c.p. Sul punto la Corte potrebbe limitarsi ad enfatizzare la solidità logico-argomentativa della sentenza d’appello (p. 7), ma aggiunge ad abundantiam: «peraltro, secondo la pacifica opzione della giurisprudenza di questa Corte di legittimità – il realizzarsi di uno degli eventi alternativi descritti dalla fattispecie di atti persecutori è evincibile in ogni caso (anche) dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente per come risulta accertata, senza che sia necessario che la vittima prospetti tali eventi espressamente o li descriva con esattezza» (p. 8). Il significato del richiamo all’idoneità oggettiva delle condotte a cagionare l’evento – ribadito anche immediatamente dopo («è indubbio che il complessivo snodarsi della vicenda attesti l’idoneità oggettiva dei comportamenti realizzati dall’imputato a realizzare gli eventi suddetti») – non è del tutto chiaro: essa va intesa come sufficiente per ritenere configurato il delitto o è soltanto indiziante della effettiva sussistenza degli eventi legalmente richiesti, la cui verificazione rimane comunque da accertare?

Secondo quanto si legge nelle premesse della Corte, ma anche nelle pronunce richiamate nella motivazione, sembra comunque necessario accertare uno degli eventi. Ma la linea risulta estremamente sottile, perché tale evento è – per usare il linguaggio della sentenza – «evincibile» dall’idoneità oggettiva delle condotte a provocarlo. La questione è problematica a maggior ragione in vicende processuali come quella in esame, nella quale il giudizio si è svolto nelle forme del giudizio abbreviato, rendendo di conseguenza assai complicato ipotizzare la piena prova (di almeno uno) degli eventi se la persona offesa non li ha nemmeno «prospettati» nella querela. In questa sede, ci si limita qui incidentalmente a sottolineare come l’orientamento della Corte rischi, in concreto, di spostare il baricentro della fattispecie da reato di evento a reato di mera condotta pericolosa [23].

Il quarto ed ultimo motivo concentra – come si accennava – le doglianze “sostanziali” relative alla configurabilità della nuova fattispecie. Esse vengono enucleate dalla Corte in tre diverse questioni, così descritte: «a) se l’invio della foto al figlio (rectius ai figli) della vittima abbia una connotazione “diffusiva”, visto che l’imputato, inoltrandogliela, non aveva la certezza che questi non l’avrebbe a sua volta diffusa; b) se sussista, nel caso di specie, il dolo specifico di aver agito con la finalità di recare nocumento alla persona offesa; c) se possa essere ricompresa nella categoria delle “immagini a contenuto sessualmente esplicito” la foto che ritraeva la vittima a seno nudo, mentre mima un bacio serrando le labbra, che, secondo la difesa, non rientra nella tipicità penale, che ricomprenderebbe soltanto le immagini che raffigurano organi genitali ovvero atti sessuali».

 

4. La prima questione viene definita dalla Corte come «di nessun pregio» e «manifestamente infondata» (p. 10). In effetti, lo spettro delle condotte tipizzate dall’art. 612-ter c.p. appare estremamente ampio, contemplando oltre alla “diffusione”, ripresa nella rubrica del reato, anche l’invio, la consegna, la cessione e la pubblicazione dell’immagine, peraltro in perfetta simmetria sanzionatoria tra loro. E proprio il primo nucleo di condotte (inviare, consegnare, cedere) sembra fare evidente riferimento, non senza sovrapposizioni, alle ipotesi di trasferimento delle immagini tra due persone o, comunque, con un novero ristretto e determinato di destinatari[24].

Per la Corte, dunque, non risulta particolarmente difficile sostenere che la condotta realizzata dal ricorrente nel caso di specie integra un invio ed è pertanto rilevante ai fini della configurabilità del delitto. Sottolineando il passaggio con il corsivo, quasi a suggerirne una sua massimazione, l’estensore argomenta: «il reato, infatti, è configurabile come istantaneo e si consuma nel momento in cui avviene il primo invio dei contenuti sessualmente espliciti, non importa se diretto a familiari della vittima, che possano eventualmente avere interesse a non alimentare una successiva diffusione» (p. 10). È con tale primo invio che si verifica la diffusione penalmente rilevante, poiché la disposizione incriminatrice «non fa questione di reiterazione della condotta diffusiva né “quantifica” o qualifica in alcun modo la diffusione lesiva del bene protetto».

Il passaggio risulta particolarmente interessante anche perché consente alla Corte di soffermarsi sul bene giuridico tutelato dalla nuova incriminazione, enfatizzandone in modo originale la componente dell’autodeterminazione sessuale: «il reato è inserito tra quelli a tutela della libertà morale individuale e si rivolge alla sfera di intimità e della privacy, intesa quale diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale» (p. 10)[25].

Messe così a fuoco le entità giuridiche tutelate, un pregiudizio potrebbe rilevarsi anche nelle ipotesi – non menzionate nella sentenza in quanto non pertinenti al caso deciso – in cui l’agente si limiti a mostrare de visu immagini sessualmente esplicite ad un’altra persona, senza che avvenga una cessione “fisica” su un supporto cartaceo o digitale (e, naturalmente, in assenza del consenso della persona rappresentata nell’immagine). Il controllo sull’esposizione del corpo viene infatti meno, così come l’autodeterminazione del soggetto raffigurato. Nondimeno, tale condotta difetta di una connotazione diffusiva e sembra rimanere fuori dall’ambito della tipicità – fermo restando che, laddove l’immagine venga mostrata a molte persone (ad es. in occasione di una festa o di una mostra fotografica), la condotta potrebbe essere incriminata quale “pubblicazione”[26].

Ad ogni modo, queste prime considerazioni applicative sembrano accreditare come opportuna la scelta legislativa di non limitare l’estensione del reato a diffusioni a tappeto dell’immagine sessualmente esplicita[27]. Da una parte, vicende come il caso di specie dimostrano come anche una diffusione contenuta possa dimostrarsi lesiva; dall’altra, il dato empirico insegna che in molte ipotesi è proprio una iniziale e ristretta condivisione a dare il via ad una disseminazione più ampia e incontrollabile[28]. Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, va ribadito che l’imputato aveva comunque inviato l’immagine anche ad una terza persona, il cui collegamento con la persona offesa, molto più flebile di quello dei figli, non poteva dare certezza di non ulteriore diffusione.

Per completezza pare opportuno segnalare che, nonostante la condotta sia stata evidentemente realizzata con «mezzi informatici o telematici»[29], non risulta essere stata contestata e applicata la relativa aggravante prevista dall’art. 612-ter c.p., comma 3. Le ragioni rimangono naturalmente implicite. Atteso che, come noto, la previsione delle circostanze è funzionale a ridurre la discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena, si può ipotizzare che alla base possa esservi una eventuale sproporzione tra i fatti in commento e l’applicazione di una pena aggravata dalla circostanza. E lo stesso può dirsi, forse, anche dell’altra aggravante ad effetto comune prevista dal comma 3 dell’art. 612-ter c.p. sulla pregressa relazione affettiva tra autore e vittima[30]. Del resto, come si è da tempo sottolineato criticamente, si tratta di previsioni dalla scarsissima portata selettiva che finiscono di fatto per colpire sistematicamente l’ipotesi base di commissione del reato, di solito perpetrata da un ex partner con mezzi telematici[31]. Può ben essere dunque – ma, come si accennava, è solo un’ipotesi – che in un caso nel quale la circolazione delle immagini si è arrestata dopo la condotta dell’imputato, si sia valutato di non appesantire il carico sanzionatorio.

 

5. Anche la seconda doglianza, relativa alla mancata sussistenza del dolo specifico di arrecare nocumento alla vittima, viene ritenuta dalla Corte come «priva di fondamento». La questione si pone perché era stata la stessa querelante ad inviare al ricorrente l’immagine sessualmente esplicita, come dalla stessa ammesso (e come appurato altresì dalla consulenza di parte realizzata sull’immagine dal ricorrente), comportando l’applicazione del secondo comma della disposizione incriminatrice.

A seconda delle modalità di acquisizione dei materiali sessualmente espliciti, infatti, il legislatore ha diversamente modulato l’elemento soggettivo del reato. Nelle ipotesi di ricezione, per la sussistenza del reato l’agente deve realizzare la condotta con «il fine di recare nocumento» alla persona rappresentata nelle immagini o nei video diffusi. La ratio parrebbe quella di differenziare tra il “distributore originario”, colui che ha realizzato le immagini o le ha sottratte alla vittima, per poi pubblicarle per primo, e i c.d. “secondi distributori”, coloro che ridiffondono immagini ricevute da altri e contribuiscono alla “viralizzazione”, selezionando, all’interno di quest’ultima eterogenea categoria di soggetti, solo quelle condotte che, proprio perché animate da un intento malevolo, possono rivelarsi più lesive per la persona offesa[32].

Fin da subito, in dottrina si è ricondotto l’inciso alla categoria del dolo specifico, non senza metterne in rilievo una sorta di “eterogenesi dei fini” [33]. Difettando una precisazione circa il mittente dal quale l’autore del reato riceve l’immagine, il secondo comma verrebbe ad applicarsi non solo ai secondi distributori ma anche a frequenti ipotesi di prima diffusione, ad esempio quando l’immagine sia realizzata e inviata confidenzialmente al divulgatore dalla persona offesa (c.d. sexting). E se, prima facie, la finalità di recare nocumento alla persona raffigurata nelle immagini divulgate può sembrare in re ipsa, numerosi studi criminologici dimostrano come la maggior parte delle ipotesi di distribuzione non consensuale di immagini intime (“NCDII”)[34], per le quali impropriamente il linguaggio comune ancora scomoda il neologismo “revenge porn”, si verifichino sulla base di finalità molto diverse dalla mera vendetta[35].

Diversamente nel caso di specie, trattandosi di una vicenda per certi versi “da manuale”, non è difficile ricostruire tale «finalismo ulteriore tipico del c.d. revenge porn, dato dalla “vendetta” nei suoi confronti ed integrato dal movente di “punirla” per aver deciso unilateralmente di interrompere il rapporto tra loro» (pp. 10-11). La sentenza si appoggia alle motivazioni dei gradi di giudizio precedenti, che avevano diffusamente argomentato circa la sussistenza del dolo specifico e ravvisato non solo la finalità di arrecare nocumento alla vittima, nella specie rappresentata dalla «volontà di minarne la reputazione aggredendone la moralità con offese ed ingiurie dirette anche ai suoi figli ed al marito, informandoli, altresì della relazione extraconiugale» (p. 11, corsivo in sentenza), ma anche, ancorché non strettamente necessario per l’integrazione del dolo specifico, «quanto la condotta abbia nociuto alla vita della persona offesa, diventata dapprima “impossibile” e poi naufragata nella fine del rapporto coniugale e nella perdita della serenità familiare» (p. 11).

Nel delineare in questo modo il dolo specifico di arrecare documento, la Suprema Corte dà due indicazioni, per quanto implicite. Da una parte, conferma l’impressione dottrinale di trovarsi in presenza di una fattispecie a dolo specifico. E, peraltro, nel farlo la Corte sottolinea che tale «finalismo è parte preponderante, a monte, della scelta legislativa di nuova criminalizzazione», avvalorando dunque l’opinione per cui il legislatore avrebbe modellato la fattispecie incriminatrice sul limitato fenomeno del “revenge porn” in senso stretto[36]. Dall’altra, sforzandosi di ricostruire con precisione il nocumento perseguito dall’imputato, la Corte grava di quest’onere i giudici di merito successivi, scoraggiando possibili (e deprecabili) scorciatoie interpretative e, in primis, un possibile appiattimento dell’accertamento dolo specifico sul diverso elemento dell’assenza di consenso.

 

6. Neppure la terza contestazione sostanziale, relativa al mancato carattere “sessualmente esplicito” dell’immagine diffusa, fa breccia tra i giudici di legittimità.

La tesi proposta dal ricorrente è che la nozione di “contenuti sessualmente espliciti” si limiti soltanto alle immagini o ai video che ritraggano organi genitali – escluso dunque il seno femminile, neppure nudo – o atti sessuali veri e propri. La sentenza critica questa prospettiva offrendo più argomentazioni.

Anzitutto, viene constatato che «il testo normativo non pone esplicite riserve in tal senso» (p. 11). In effetti, al momento dell’introduzione del reato, a differenza di altre esperienze straniere[37], il legislatore ha rinunciato a fornire una definizione di contenuto “sessualmente esplicito”, lasciando all’interprete il compito di tracciarne i confini. Né – si aggiunge qui – il legislatore ha ritenuto di richiamare la definizione di pornografia prevista all’ultimo comma dell’art. 600-ter c.p., sulla quale è ricalcata quella del ricorrente[38].

Ciò premesso, la Corte rivolge lo sguardo alla propria giurisprudenza sviluppatasi in «materie analoghe», ricavandone «accenti contrari» alla soluzione proposta nel ricorso.

Preliminarmente, si osserva che «la locuzione normativa “a contenuto sessualmente esplicito” non rimanda evidentemente e necessariamente alla diffusione di video o immagini di un organo proprio dell’apparato sessuale-riproduttivo in senso medico scientifico». Ma tale dicitura non allude nemmeno «solo ad un atto sessuale vero e proprio […], essendo evidente che la sessualità di una persona, vittima del reato, può essere evocata in materia manifesta anche soltanto attraverso la proposizione di parti del suo corpo “erogene” e diverse dagli organi genitali, eppure capaci di richiamare, per il contesto e le condizioni concrete nelle quali vengono ritratte l’istinto sessuale».

Il primo punto di riferimento della Corte, dunque, è il reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e, nello specifico, la controversa nozione di “atti sessuali”, definita «complessa» in sentenza e sulla quale molto ci si interroga a partire dall’unificazione, attuata come noto dalla riforma dei reati sessuali del 1996, tra i delitti di violenza carnale (art. 519 c.p.) e atti di libidine (art. 521). Se in dottrina si sono fronteggiati essenzialmente due paradigmi, uno «anatomico-culturale» e l’altro «contestuale-relazionale»[39], la giurisprudenza ha formalmente aderito al primo finendo tuttavia per scivolare, in concreto, verso logiche di tipo «contestuale», che risultano evidentemente più malleabili e, per questo, più adatte a garantire la massima tutela possibile all’autodeterminazione sessuale. In molti casi, infatti, la Corte sembra adottare la tesi anatomica, ma estende l’ambito delle zone corporee rilevanti a quelle, appunto, c.d. “erogene”, senza tuttavia offrire chiare delimitazioni del concetto e decidendo spesso sulla base del contesto specifico[40], con conseguenti criticità sotto i profili della tassatività, della prevedibilità e del “fair labelling[41].

Da questo punto di vista, una perfetta sintesi dell’approccio è traslata nella affermazione della sentenza in commento per cui, in relazione (anche) all’art. 612-ter c.p., le «“zone erogene” possono essere il seno e i glutei, ancor più se nudi ovvero in condizioni di contesto che richiamino il sesso».

Dal parallelismo, emerge in modo ancor più evidente l’inquadramento da parte della Cassazione della nuova fattispecie come lesiva dell’autodeterminazione sessuale, specie laddove si legge che «qualora la diffusione avvenga senza il consenso della persona offesa, si stabilizzerà una violazione della libertà di autodeterminazione della sua sfera sessuale complessivamente intesa».

A sostegno di tale conclusione, poi, le motivazioni ripercorrono gli orientamenti sulla rilevanza penale dell’immagine del seno in ambito pedopornografico. Dapprima viene sottolineato che la giurisprudenza maturata in relazione agli artt. 600-ter c.p. e seguenti conferisce «rilievo sessuale alla nudità in quanto tale» (corsivo della sentenza). In seguito, viene precisato che «il seno è stato inserito nel novero delle zone erogene e si è chiarito, sempre in tema di pornografia minorile, che il riferimento alla “rappresentazione degli organi sessuali di un minore degli anni diciotto” di cui all’ultimo comma dell’art. 600-ter cod. pen. ricomprende non solo gli organi genitali, ma anche altre zone erogene, come il seno e i glutei» (corsivi della sentenza).

Anche se non viene specificato espressamente, l’argomento sembra assumere nel ragionamento della Corte carattere dirimente. La definizione di pornografia di cui all’ultimo comma dell’art. 600-ter c.p., infatti, limitandosi alle “attività sessuali esplicite” e alla “rappresentazione degli organi sessuali” del minore, presenta una certa consonanza con quella proposta dal ricorrente in relazione all’art. 612-ter c.p. Se l’immagine del seno nudo viene sussunta in tale definizione, allora, a maggior ragione andrà a configurare un contenuto “sessualmente esplicito”, espressione che indica probabilmente un contenuto meno pregnante e meno esplicito di uno “pornografico”.

La Corte allora conclude, ancora con l’enfasi del corsivo, che: «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 612-ter cod. pen., la diffusione illecita di contenuti sessualmente espliciti può avere ad oggetto immagini o video che ritraggano atti sessuali ovvero organi genitali ovvero anche altre parti erogene del corpo umano, come i seni o i glutei, nudi o in condizioni e contesto tali da evocare la sessualità»[42].

L'approdo della Corte era abbastanza prevedibile, specie in relazione ad un caso come quello sottopostole, nel quale oltre alla nudità è presente anche un contesto particolarmente intimo (il bacio definito “erotizzante” nei giudizi precedenti). A leggere bene la massima, tuttavia, la nudità delle zone erogene e il contesto evocativo della sessualità vengono presentati come requisiti alternativi, che non devono per forza sussistere contemporaneamente. L’adozione di un approccio di fatto “contestualistico”, per quanto piuttosto prevedibile, atteso che nelle ipotesi limite è il contesto a dotare l’immagine di una connotazione sessuale[43] (si pensi, ad esempio, alla differenza che intercorre tra l’immagine di una persona in costume da bagno su una spiaggia e di una persona in intimo e in pose allusive in una camera da letto), non è certamente ideale sul piano della tassatività.

Sarà allora interessante osservare come si evolverà la giurisprudenza in casi più problematici di quello qui affrontato e come verrà utilizzato il riferimento al contesto, ovvero se (auspicabilmente) assumerà anche una valenza restrittiva, o se tale funzione sarà assolta esclusivamente dal diverso requisito della destinazione privata delle immagini. Nel frattempo, occorre segnalare come la sentenza commentata sia stata seguita a stretto giro (circa un mese dopo) da un’altra pronuncia della Corte, che, proprio rifacendosi ai principi ivi stabiliti, ha ritenuto “sessualmente espliciti” alcuni video nei quali la denunciante era raffigurata «in biancheria intima»[44]. Dalle motivazioni non è possibile ricostruire con esattezza il fatto e soprattutto il tenore delle immagini, ma si trova specificato che «la diffusione delle immagini della persona offesa con la sola biancheria intima avveniva proprio per sottolineare l'ambito di svolgimento della vita sessuale nel quale erano state riprese», di talché sembra di capire che esse fossero state realizzate in momenti di spiccata intimità, contigui alla attività sessuale vera e propria.

 

 

[1] Si veda, ad esempio, Trib. Reggio Emilia, Sez. GIP/GUP, sent. n. 528/2021 (ud. 09/11/2021, dep. 22/11/2021), in questa Rivista, 7 giugno 2022, con nota di P. Beccari, Le prime difficoltà applicative della nuova fattispecie di “revenge porn” in caso di diffusione del materiale da parte di soggetti estranei al rapporto sessuale; nonché in disCrimen, 7 gennaio 2022, con note di D. Micheletti, L’interversio pubblicationis quale elemento costitutivo della fattispecie di Revenge porn, e C. Paonessa, Ai confini del c.d. Revenge porn. Tessere di un mosaico normativo (18 marzo 2022).

[2] “Codice Rosso” è il nome col quale si indica il Ddl. n. S. 1200 (“Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”), poi divenuto L. 19 luglio 2019, n. 69. Per una panoramica e un commento in questa Rivista anche degli altri contenuti, D. Russo, Emergenza “Codice Rosso”, 9 gennaio 2020. Per una sua lettura in prospettiva rispetto alla lunga evoluzione normativa, F. Basile, La tutela delle donne dalla violenza dell’uomo: dal Codice Rocco… al Codice Rosso, in Dir. pen. Uomo, 20 novembre 2019. Per un approfondimento circa l’introduzione “emergenziale” del reato di cui all’art. 612-ter c.p. nel provvedimento, G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di Internet. L’art. 612-ter c.p. e l’incriminazione della pornografia non consensuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 2045 ss., in particolare 2059 ss.

[3] Oggetto delle condotte incriminate, infatti, sono immagini e video non solo “sessualmente espliciti” ma anche “destinati a rimanere privati”. In una prima pronuncia di merito (v. nota 1), tale requisito è stato interpretato in modo stringente, mettendo di fatto in dubbio l’applicazione del nuovo delitto in relazione a tutte le ipotesi nelle quali le immagini non sono create nell’intimità, privata, di un contesto di coppia. Cfr. P. Beccari, Le prime difficoltà applicative della nuova fattispecie di “revenge porn, cit., in particolare 13 ss.

[4] Nelle scorse settimane ha destato sgomento e preoccupazione una vicenda di cronaca avvenuta a Palermo, dove sette giovani sono indagati per aver violentato una coetanea. A quanto si apprende dalla stampa, lo stupro sarebbe stato ripreso dagli stessi protagonisti e le immagini sarebbero state persino messe in vendita online. Cfr. Stupro a Palermo, in duemila su Telegram per arrivare al video: «Se qualcuno ce l’ha pago bene», in Corriere.it, 23 agosto 2023. Già in sede di primo commento alla nuova fattispecie, si era prospettata una criticità applicativa in relazione «alle ipotesi, sempre più frequenti, nelle quali vengano filmate molestie o vere e proprie violenze sessuali con finalità “cyberbullistiche” o allo scopo di tenere sotto ricatto la vittima». Cfr. G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di Internet, cit., 2070.

[5] Per via dell’ampio utilizzo dell’espressione nel linguaggio comune, in un precedente lavoro si è distinto tra “revenge porn in senso stretto”, che si configura quando la diffusione di immagini avviene per mano dell’ex partner con finalità vendicative (proprio come nel caso in commento), da tutte le altre ipotesi di diffusione di immagini sessuali (“revenge porn in senso lato”), per le quali il neologismo sarebbe del tutto improprio. G.M. Caletti, “Revenge porn” e tutela penale. Prime riflessioni sulla criminalizzazione specifica della pornografia non consensuale alla luce delle esperienze angloamericane, in Dir. pen. cont. Riv. trim., 2018, n. 3, 63 ss., spec. 69 ss.

[6] Ibidem, anche per i riferimenti alla serrata critica della dottrina internazionale a tale espressione.

[7] Per una panoramica su come le problematiche legate alla violenza di genere siano affrontate all’interno del nostro sistema penale, C. Pecorella, Violenza di genere e sistema penale, in Dir. pen. proc., 2019, 1181 ss.

[8] Va infatti registrata una sempre più definita tendenza a livello sovranazionale verso un inquadramento giuridico quale violenza di genere degli abusi perpetrati attraverso immagini sessualmente esplicite. Sul fronte convenzionale, vanno segnalate le sentenze CEDU Volodina c. Russia, 9 luglio 2019, e Volodina c. Russia (n. 2), 14 settembre 2021, che qualificano la disseminazione non consensuale di immagini intime come una forma di “violenza contro le donne”. Per un commento delle due pronunce, M. Elósegui, The Case Law of the European Court of Human Rights on Violence Against Women and the Intimate Image Abuse, in G.M. Caletti, K. Summerer (a cura di), Criminalizing Intimate Image Abuse. A comparative perspective, Oxford, 2023 (in corso di pubblicazione). Sul fronte comunitario, invece, pende una proposta di direttiva da parte della Commissione europea (dell’8 marzo 2022) volta a contrastare la violenza di genere e armonizzare le legislazioni degli Stati membri. Tra le disposizioni, l’art. 7 prevede che gli Stati assicurino l’incriminazione delle condotte di diffusione di immagini intime, anche manipolate. In proposito, si veda l’approfondito commento di C. Rigotti, C. McGlynn, Towards an Eu criminal law on violence against women: The ambitions and limitations of the Commission’s proposal to criminalise image-based sexual abuse, in New Journal of European Criminal Law, 2022, vol. 13(4), 452 ss.

[9] Per l’inquadramento della violenza domestica come forma di violenza di genere, M. Bertolino, Violenza e famiglia: attualità di un fenomeno antico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1710 ss.

[10] Per un recente contributo in lingua italiana dedicato a tale nozione, S. Braschi, La nozione di “violenza domestica” tra tutela dei diritti umani e sistema penale, in Criminalia, 2022, anticipato su disCrimen, 3 luglio 2023.

[11] Si veda N. Henry, C. McGlynn, A. Flynn, K. Johnson, A. Powell, A.J. Scott, Image-based sexual abuse. A study on the causes and consequences of non-consensual nude or sexual imagery, Abingdon Oxon-New York, 2021, e in particolare il quarto capitolo, intitolato “Image-based sexual abuse perpetration. Power and control”, 67 ss.

[12] Di qui l’espressione «technology-facilitated sexual violence» (“TFSV”) sempre più diffusa nella letteratura internazionale, per un sunto della quale, l’ampio lavoro di J. Bailey, S. Dunn, Recurring Themes in Tech-facilitated Sexual Violence Over Time. The More Things Change, The More They Stay the Same, in G.M. Caletti, K. Summerer (a cura di), Criminalizing Intimate Image Abuse, cit. Potrebbe sorprendere l’impiego della parola violenza in relazioni ad ipotesi nelle quali la violazione è del tutto priva di contatti corporei. Per una recente riflessione sul tema, nella nostra dottrina, si veda B. Panattoni, Violazioni “incorporee” della sfera sessuale. Possibili evoluzioni ed insidie nell’ambito dei reati sessualmente connotati, in Arch pen., 2022, n. 3, 1 ss.

[13] Si esprime favorevolmente rispetto all’attuale collocazione, T. Padovani, L’assenza di coerenza mette a rischio la tenuta del sistema, in Guida dir., 2019, n. 37, 54.

[14] Aspetto ben ricostruito da M. Bianchi, L’incriminazione del “revenge porn”: il nuovo delitto di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, in A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Diritto penale, t. III, Milano, 2022, 6568-6569.

[15] La prospettiva dell’offesa alla sfera sessuale è stata evidenziata da diversi Autori. Cfr., ad esempio, B. Romano, L’introduzione dell’articolo 612-ter del codice penale in materia di diffusione di immagini o video sessualmente espliciti (art. 10, l. 19 luglio 2019, n. 69), in B. Romano, A. Marandola (a cura di), Codice Rosso. Commento alla l. 19 luglio 2019, n. 69, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, Pisa, 2020, 106 («è indubbio che con il delitto […] si intenda tutelare la libertà della persona, gravemente vulnerata sul piano della vita di relazione poiché violata nella propria sfera sessuale»). Sia consentito anche richiamarsi a quanto scritto in G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di Internet, cit., 2064: «il riferimento al carattere “sessualmente esplicito” delle immagini contenuto nell’art. 612-ter c.p. fa pensare ad un’aggressione anche ad altri valori, quali l’intimità, la riservatezza, talvolta la fiducia prestata nei confronti dell’agente e, più in generale, la libertà di determinarsi in ambito sessuale». Va poi segnalato come nella recente proposta di riforma dei reati sessuali elaborata dall’Associazione italiana dei Professori di diritto penale, una analoga fattispecie venga inserita tra i delitti contro l’autodeterminazione sessuale. Il gruppo, coordinato dal Prof. Sergio Seminara, era composto dai Proff. Giuliano Balbi e Marta Bertolino, nonché dalle dottoresse Malaika Bianchi, Sofia Braschi e Lara Ferla. Cfr. S. Seminara (a cura di), Reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, in www.aipdp.it.

[16] Una simile collocazione sistematica per il nuovo delitto era stata prospettata dall’Unione Camere Penali Italiane (UCPI) nell’ambito delle audizioni tenute dalla commissione giustizia del Senato in relazione al “Codice Rosso”. Il testo scritto è rinvenibile sul sito www.senato.it. In dottrina, sembra favorire questa impostazione S. Seminara, Codice penale, riserva di codice e riforma dei delitti contro la persona, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 456, criticandone invece la collocazione prescelta per l’assenza del requisito della violenza o della minaccia che è presente in tutti gli altri reati contro la libertà morale.

[17] Da ultimo, N. Henry, C. McGlynn, A. Flynn, K. Johnson, A. Powell, A.J. Scott, Image-based sexual abuse, cit. Si vedano in particolare le statistiche della tabella a pagina 36.

[18] La letteratura angloamericana sul tema del sexting è ormai vastissima. Nella nostra dottrina, per un inquadramento anche sociologico del fenomeno, si veda per tutti il ricco lavoro monografico di M. Bianchi, I confini della repressione penale della pornografia minorile. La tutela dell’immagine sessuale del minore tra esigenze di protezione e istanze di autonomia, Torino, 2019, anche ovviamente per le problematiche giuridiche relative alle interferenze con i reati di pedopornografia. Su quest’ultimo tema, come noto, si sono di recente espresse a più riprese le Sezioni Unite, con pronunce che sono pubblicate in questa rivista.

[19] Nella letteratura internazionale è sempre più condivisa l’idea di ridefinire le condotte di diffusione di immagini sessualmente esplicite (e non solo) come abusi sessuali basati sulle immagini (“image-based sexual abuse”). Ciò a partire dall’articolo di C. McGlynn, E. Rackley, Image-Based Sexual Abuse, in Oxford Journal of Legal Studies, 2017, vol. 37(3), 534 ss.

[20] Tanto è evidenziato anche dai risultati di una ricerca empirica alla quale si è direttamente preso parte nell’ambito del progetto Creep – Criminalizing Revenge Porn? (https://creep.projects.unibz.it/it/home/). Alcune di tali risultanze, anche in relazione al punto in questione, sono riassunte in A. Brighi, A. Amadori, K. Summerer, D. Menin, Prevalence and Risk Factors for Nonconsensual Distribution of Intimate Images Among Italian Young Adults: Implications for Prevention and Intervention, disponibile su SSRN: https://ssrn.com/abstract=4412642.

[21] Sul punto risulta emblematica la rassegna casistica di D.K. Citron, Hate crimes in Cyberspace, Cambridge Massachusetts-Londra, 2014, 56 ss.

[22] In proposito, peraltro, l’estensore non fa a meno di osservare che è lo «stesso ricorso che finisce con l’ammettere l’oggetto centrale della richiesta di perizia, vale a dire l’invio (con relativi tempi e modalità) ai figli della persona offesa da parte dell’imputato, di foto che ritraevano la madre, tra l’altro, a seno nudo (ciò facendo nel tentativo di sostenere la tesi dell’invio non finalizzato alla diffusione e di evitate l’affermazione di colpevolezza per il delitto di cui all’art. 612-ter cod. pen.)» (p. 5).

[23] Per una lettura dell’art. 612-bis c.p. quale reato di pericolo, tesa a conseguire «un maggior rispetto del principio di determinatezza, una più stringente tutela della vittima in termini di politica criminale e, forse, per assurdo, un maggior rispetto dello stesso principio di offensività», cfr. A.M. Maugeri, Lo Stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, 153 ss.

[24] Secondo quanto già sostenuto in G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di Internet, cit., 2065.

[25] Attraverso queste riflessioni la sentenza sembra iscriversi a quella corrente, probabilmente maggioritaria in dottrina, che ritiene la violenza sessuale come una forma speciale di violenza privata. Cfr. T. Padovani, Pre-Art. 609-bis c.p. Commento ad Art. 2 l. 15 febbraio 1996, n. 66, in A. Cadoppi (a cura di), Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, 4a ed., Padova, 2006, 431 ss., in particolare 433 («la violenza sessuale non rappresenta del resto che un’ipotesi speciale di violenza privata, qualificata dalla natura dell’atto che la vittima è costretta a tollerare. In questo senso, la serie di incriminazioni […] avrebbe dovuto ricavare il proprio spazio topografico dopo l’art. 610 c.p.»).

[26] Per alcune considerazioni ulteriori su questo profilo, sia consentito rimandare ancora a G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di Internet, cit., 2066.

[27] Ibidem.

[28] Si pensi al noto caso di Tiziana Cantone. Per quanto i fatti siano tuttora estremamente controversi, l’ipotesi per lungo tempo più accreditata è che la diffusione virale dei video abbia preso avvio da quattro amici, ai quali i materiali erano stati inviati confidenzialmente in attuazione di un gioco di coppia. Per maggiori dettagli, G.M. Caletti, “Revenge porn” e tutela penale, cit., 65-66.

[29] In altri casi di atti persecutori, reato dal quale l’aggravante è mutuata, infatti, la giurisprudenza ha qualificato l’uso della piattaforma Facebook utilizzata nel caso di specie quale ipotesi aggravata per via dell’impiego di “strumenti informatici o telematici”. Si veda, tra le altre, Cass. pen., sez. V, sent. n. 19363, 31 marzo 2021, in Dejure.

[30] Anche in questo caso, non sembrano esservi giustificazioni per la non applicazione dovute alle particolarità della vicenda e, nella specie, al fatto che i due protagonisti intrattenessero una relazione extraconiugale. In tema di atti persecutori, infatti, la giurisprudenza insegna «che ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all' art. 612-bis, comma 2, c.p. , per 'relazione affettiva' non s'intende necessariamente la sola stabile condivisione della vita comune ovvero il coinvolgimento sentimentale con prospettive di futuro duraturo, ma qualsiasi legame di significativa frequentazione, indipendentemente dalla convivenza con la vittima, dalla stabilità e/o durata della 'relazione', che faciliti il delitto, consentendo all'agente lo sfruttamento del rapporto di fiducia della vittima nei suoi confronti» (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 9406, 25 gennaio 2022).

[31] G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di Internet, cit., 2087. Definisce un «pasticcio» le aggravanti introdotte nella disposizione legislativa, G. Panebianco, La diffusione di immagini o video sessualmente espliciti: tra carenze della fattispecie incriminatrice e coadiuvanti extrapenali, in GenIUS, 16 novembre 2022, 14.

[32] Per un inquadramento della figura del secondo distributore, delle sue eventuali responsabilità e dei connessi problemi a livello di imputazione soggettiva, Ivi, 2063.

[33] Come si è sottolineato fin dalle primissime letture. Cfr. G.M. Caletti, “Revenge Porn”. Prime considerazioni in vista dell’introduzione dell’art. 612-ter c.p.: una fattispecie “esemplare”, ma davvero efficace?, in Dir. pen. cont., 29 maggio 2019. Conf. B. Romano, L’introduzione dell’articolo 612-ter del codice penale, cit., 108-109. M. Bianchi, L’incriminazione del “revenge porn”, cit., 6575. Si veda tuttavia anche l’opinione di M. Dova, sub Art. 612-ter, in Codice penale commentato, E. Dolcini, G.L. Gatta (diretto da), Tomo III, Artt. 452bis-649bis, V ed., Milano, 2021, 1942, che prova a ridimensionare la possibile lacuna applicativa. Secondo l’Autore, l’effettività della norma incriminatrice non risentirebbe dell’accertamento del dolo specifico, poiché l’art. 612-ter, comma 2, c.p. rappresenterebbe «un singolare reato di danno la cui realizzazione è sorretta dalla finalità di nocumento» e l’analisi sulle finalità della condotta non può che avviarsi dagli elementi di fatto «e in particolare da quelli che restituiscono al dolo specifico una dimensione oggettiva, in termini di idoneità della condotta al fine, che altrimenti si muoverebbe in un’incerta dimensione puramente psicologica».

[34] L’acronimo, che sta sia per “non-consensual distribution of intimate images” che per “non-consensual disclosure of intimate images”, è di gran lunga la dicitura più utilizzata per riferirsi alla diffusione di immagini intime o sessualmente esplicite. Ad es., tra i tanti, M. Aikenhead, Non-Consensual Disclosure of Intimate Images as a Crime of Gender-Based Violence, in Canadian Journal of Women and the Law, 2018, vol. 30(1), 117 ss.

[35] Tra i numerosi Autori stranieri che sottolineano questo aspetto, si veda in particolare A.M. Franks, “Revenge porn” reform: a view from the front lines, in Florida Law Review, 2017, 1258.

[36] In senso critico già G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di Internet, cit., spec., 2063.

[37] In Inghilterra, ad esempio, si è approntata una esplicita definizione di “sexual”. Ciò non ha tuttavia permesso di raggiungere – secondo la dottrina – alcuna facilitazione in termini di prevedibilità applicativa della fattispecie. Cfr. A.A. Gillespie, “Trust me, it’s only for me”: “revenge porn” and the criminal law, in Criminal Law Review, 2015, 869.

[38] Anche una parte della dottrina sosteneva che la definizione di pornografia minorile potesse assurgere a valido punto di equilibrio per l’interpretazione della nuova espressione impiegata dal legislatore. Di questo avviso B. Romano, L’introduzione dell’articolo 612-ter del codice penale, cit., 107.

[39] La prima è quella «anatomico-culturale», come noto prospettata da Alberto Cadoppi a poche settimane dall’approvazione della riforma (A. Cadoppi, Art. 3, in Id. (a cura di), Commentario delle “Norme contro la violenza sessuale” (Legge 15 febbraio 1996, n. 66), 1a ed., Padova, 23 ss.). Secondo tale indirizzo, poiché un atto abbia natura sessuale occorre che si realizzi il toccamento di alcune parti del corpo umano, compendiabili nei genitali, nelle zone anali, nel seno femminile e, limitatamente a certe ipotesi (nella specie i c.d. “baci profondi”), nella bocca. La concezione è definita «anatomico-culturale» perché la delimitazione anatomica effettuata è il frutto delle indicazioni provenienti dal contesto culturale di riferimento e, segnatamente, dalle scienze medico-psicologiche e da quelle antropologico-sociologiche, queste ultime in grado di misurare le “Kulturnormen” della società in un preciso momento. La visione contrapposta è stata sostenuta in particolare da Giovanni Fiandaca, che ha elaborato la propria nozione di atti sessuali commentando – e giustificando gli esiti di – una sentenza della Corte, Di Francia, che aveva condannato l’imputato per violenza sessuale consumata in un caso di tentativo di bacio sulla bocca poi sfociato in un semplice bacio sulla guancia per via della pronta reazione della vittima. Secondo l’autorevole studioso, l’apparente contraddittorietà si spiegherebbe alla luce del contesto nel quale si erano svolti i fatti; in altre parole, dando peso alla “vicenda complessiva” e ai rapporti tra autore e vittima: si trattava di un datore di lavoro che aveva provato a baciare una propria dipendente. Per questo, la tesi viene di solito denominata «contestuale-relazionale», non accordando rilievo alle parti anatomiche attinte dalla condotta, bensì al significato sociale degli atti compiuti tra due soggetti. Cfr. G. Fiandaca, La rilevanza penale del «bacio» tra anatomia e cultura, in Foro it., 1998, 505 ss.

[40] Nella specie, la Corte ha qualificato atti sessuali i toccamenti del seno, delle cosce, il bacio a labbra chiuse (v., per esempio, Cass. pen., Sez. III, 4 dicembre 1998, n. 1137, in Cass. pen., 2000, 930; Cass. pen., Sez. III, 10 ottobre 2000, n. 12446, in Giust. pen., 2001, II, 606) e il semplice bacio sulla guancia (Cass. pen., Sez. III, 26 settembre 2012, n. 44480, cit.). Quanto al bacio, invece, si è di recente affermato che «ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, va qualificato come “atto sessuale” anche il bacio sulla bocca che sia limitato al semplice contatto tra le labbra, potendosi detta connotazione escludere solo in presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l’atto risulti privo di valenza erotica, come, ad esempio, nel caso del bacio sulla bocca scambiato, nella tradizione russa, come segno di saluto». Cfr. Cass. pen., Sez. III, 19 gennaio 2018 (dep. 10 maggio 2018), n. 20712, che richiama espressamente Cass. pen., Sez. III, 13 febbraio 2007, n. 25112, in Cass. pen., 2008, 1039.

[41] Per una panoramica dell’attuale diritto vivente in materia, sia consentito richiamare G.M. Caletti, Dalla violenza al consenso nei delitti sessuali. Profili storici, comparati e di diritto vivente, Bologna, 2023, 245-271.

[42] Per una posizione simile in dottrina, M. Bianchi, L’incriminazione del “revenge porn”, cit., 6573, secondo la quale «sarebbe eccessivamente limitante circoscrivere la punibilità esclusivamente alle immagini che ritraggono pratiche sessuali in senso stretto (rapporto sessuale o autoerotismo). Appartengono al fenomeno in commento e risulterebbero, a nostro avviso, idonee ad integrare la fattispecie e a offendere i beni giuridici tutelati anche rappresentazioni erotiche di nudità focalizzate sugli organi genitali, sul seno o sulle natiche».

[43] Sia consentito un nuovo richiamo a G.M. Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di Internet, cit., 2069. Dello stesso avviso anche M. Bianchi, L’incriminazione del “revenge porn”, cit., 6573 («in generale, nella valutazione del “contenuto sessualmente esplicito dell’immagine”, soprattutto per i casi più dubbi, rileverà la sussistenza o meno di un contesto sessuale»).

[44] Cass. pen., Sez. V, sent. n. 32602 (ud. 29 marzo 2023; dep. 26 luglio 2023), rel. Bifulco, in Dejure.