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23 Dicembre 2019


La sicurezza sul lavoro ai tempi dell’Ilva: il Tribunale di Taranto respinge la richiesta di prorogare la facoltà d’uso dell’altoforno

Trib. Taranto, ord. 10 dicembre 2019, giud. Maccagnano



1. Lo scorso 10 dicembre il Tribunale di Taranto ha rigettato l’istanza con la quale i difensori di Ilva s.p.a. (in amministrazione straordinaria) avevano chiesto la proroga della facoltà d’uso dell’Altoforno n. 2, sottoposto a sequestro preventivo sin da giugno 2015, nell’ambito di un procedimento, attualmente in fase dibattimentale, per omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro. La vicenda trae origine dall’incidente nel quale un operaio rimase ucciso dopo essere stato investito da un getto di ghisa incandescente e da una fiammata, mentre effettuava rilievi di temperature.

Si tratta del filone dell’affaire Ilva relativo ai profili di sicurezza sul lavoro, che parallelamente al filone ambientale si sta intrecciando negli ultimi anni (e con particolare intensità negli ultimi mesi) alle questioni relative al trasferimento dell’acciaieria dagli amministratori straordinari ad un acquirente privato. L’eventuale spegnimento dell’Altoforno n. 2 – che avverrà a metà gennaio 2020, salvo concessione della proroga da parte del Tribunale del riesame (sul punto v. infra, par. n. 7) – rappresenterebbe, nella prospettiva dell’attuale affittuario (e potenziale futuro acquirente) ArcelorMittal, una misura ulteriormente “penalizzante” (dopo la recente abolizione del c.d. scudo penale) nonché ulteriormente modificativa delle condizioni in cui era maturato l’accordo di cessione (per un inquadramento più ampio, sia consentito rinviare a Zirulia S., La (perenne) crisi dell’Ilva e il c.d. scudo penale: tra reati ambientali e sicurezza sul lavoro, in questa Rivista, 18 novembre 2019).

 

2. Prima di illustrare i contenuti del provvedimento in esame, pare utile richiamare brevemente le tappe principali che hanno condotto alla sua adozione (delle quali peraltro il provvedimento stesso dà analiticamente conto). A giugno 2015, subito dopo l’incidente mortale di cui si è detto, l’Altoforno n. 2 era stato sottoposto a sequestro preventivo. Di lì a poco, tuttavia, replicando lo schema seguito nel 2012 con il primo decreto “salva-Ilva” (relativo al filone ambientale), il Governo aveva emanato il d.l. 4 luglio 2015, n. 92 (non convertito, ma trasfuso negli artt. 1 comma 2 e 21-octies della legge n. 32 del 6 agosto 2015), espressamente finalizzato a “garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia” (art. 3). In sintesi, il decreto autorizzava gli stabilimenti di interesse strategico nazionale (quale appunto l’acciaieria tarantina) posti sotto sequestro per reati in materia di sicurezza sul lavoro a proseguire l’esercizio dell’attività per un periodo massimo di dodici mesi, alla sola condizione che venisse predisposto, da parte della stessa impresa, un piano (anche provvisorio) di misure di sicurezza aggiuntive.

Il 7 settembre 2015 la Procura di Taranto, tenuto conto da un lato della ratio ispiratrice del novum legislativo (che considerava peraltro affetto da «palesi dubbi di legittimità costituzionale»); dall’altro lato della necessità di garantire la realizzazione di determinati interventi volti alla messa in sicurezza degli impianti, riteneva adeguato disporre la restituzione dell’altoforno (non tout court, bensì) ai sensi dell’art. 85 disp. att. c.p.p., impartendo cioè ai gestori una serie di prescrizioni da attuarsi entro il 31 novembre 2015, pena alla scadenza del termine la ri-espansione del vincolo reale. Le prescrizioni riguardavano, tra l’altro, l’individuazione delle cause dell’incidente mortale e di possibili analoghi eventi (analisi del rischio); nonché la realizzazione di procedure automatizzate volte ad evitare l’esposizione diretta degli operai ai fattori di rischio in questione, scongiurando così la verificazione di ulteriori tragedie.

 

3. Proprio in quanto basata sulla menzionata disposizione del codice di rito, la restituzione in questione non risentiva (quanto meno non direttamente) della declaratoria di incostituzionalità che successivamente colpiva il d.l. n. 92/2015 e la legge n. 32/2015 (C. Cost., sent. n. 58 del 2018[1]). Tuttavia, a seguito della relazione del custode giudiziario dell’8 ottobre 2018, dalla quale emergeva il parziale inadempimento delle prescrizioni impartite oltre tre anni prima, la Procura di Taranto giudicava non perfezionata la procedura di restituzione ex art. 85 disp. att. c.p.p. e coerentemente, con decreto del 9 luglio 2019, disponeva lo spegnimento dell’altoforno, da eseguire secondo un cronoprogramma dettato dal custode stesso.

 

4. Dopo l’inizio del processo, un nuova istanza di restituzione veniva proposta dinanzi al giudice del dibattimento, che la respingeva il 31 luglio 2019. Tuttavia, in parziale accoglimento dell’appello proposto da Ilva, con ordinanza del 17 settembre 2019 il Tribunale del riesame individuava «il punto di equilibrio tra la tutela della sicurezza dei lavoratori e la continuità della produzione industriale» nell’assegnazione ai gestori di ulteriori tre mesi di tempo (a fronte dei sei richiesti) per effettuare gli interventi di messa in sicurezza. I giudici della libertà valorizzavano da un lato la circostanza che medio tempore fossero state adottate misure idonee quanto meno ad attenuare il rischio; dall’altro lato ritenevano che non sarebbe stato equo, «dopo anni di inadempimento colpevole», assegnare un termine più ampio rispetto a quello originariamente concesso dalla Procura nel 2015 (pari appunto a circa tre mesi).

 

5. Scaduto tuttavia anche questo termine senza che le prescrizioni fossero portate a compimento, veniva formulata una nuova richiesta di proroga, per un tempo questa volta pari a quattordici mesi, rigettata dal giudice dibattimentale con il provvedimento qui pubblicato.

In limine rispetto alle valutazioni strettamente giuridiche, il giudice si sofferma sugli elementi probatori emersi nel frattempo grazie in particolare al documento di analisi del rischio commissionato da Ilva ad una società privata al fine di adempiere ad una delle prescrizioni che, come si ricorderà, le erano state impartite sin dal 2015. Dall’esame di tale consulenza, il giudice trae la conclusione che i lavoratori operanti presso il piano di colata dell’Altoforno n. 2 sono tuttora sottoposti a rischi «apprezzabilmente alti» per la propria incolumità, in ragione sia della probabilità di nuovi incendi, sia e soprattutto della rapidità della relativa sequenza causale, tale da rendere inefficaci sul piano preventivo i dispositivi di allarme attualmente in funzione.

 

6. Il provvedimento in esame procede quindi alla ricerca dei referenti normativi e giurisprudenziali necessari ad «ancorare l’operazione di bilanciamento fra la continuità della produzione presso l’altoforno in sequestro e l’integrità psico-fisica dei lavoratori ivi operanti a criteri certi, verificabili, condivisi». Vengono a tal fine richiamati:

i) l’art. 41 comma 2 Cost., che come è noto individua nella sicurezza e nella dignità umana altrettanti limiti al libero esercizio dell’iniziativa economica privata;

ii) la giurisprudenza costituzionale che ha allacciato a tale disposizione, unitamente al diritto alla salute di cui all’art. 32, il carattere prevalente della sicurezza dei lavoratori rispetto alla libertà d’impresa (sent. n. 405/1999, 399/1996);

iii) la già menzionata sent. n. 58/2018, con la quale la stessa Consulta ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni che autorizzavano ex lege l’utilizzo dell’altoforno in questione, proprio in considerazione dell’irragionevole e sproporzionato sacrificio che imponevano alla tutela della sicurezza;

iv) il decreto “salva Ilva” 2015, oggetto di censura, che prevedeva un limite temporale di 12 mesi, comunque inferiore a quello oggi complessivamente richiesto dagli amministratori;

v) la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha già avuto occasione, a più riprese, di estrapolare dagli articoli 2 e 8 della Convenzione precisi obblighi positivi in capo allo Stato di tutela della vita e della salute rispetto ai rischi inerenti all’esercizio di attività pericolose (sent. Oneryildiz c. Turchia 2004, Brincat c. Malta 2014, Cordella c. Italia 2019);

vi) le rilevanti disposizioni di cui al Testo Unico in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, segnatamente l’obbligo di aggiornamento delle misure di prevenzione in relazione al grado di evoluzione delle tecniche, in combinato disposto con l’obbligo di eliminazione o quanto meno riduzione dei rischi attraverso l’adozione delle misure che il progresso tecnologico mette a disposizione del garante (rispettivamente, art. 18, comma 1, lett. z) e art. 15, comma 1, lett. c) d.lgs. n. 81/2008);

vii) la non derogabilità, quanto meno non per lunghi periodi, di norme la cui violazione è espressamente considerata fonte di colpa specifica dal codice penale (così le “norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” richiamate dagli artt. 589, 590 c.p.)

Rinviando per ulteriori dettagli all'articolata motivazione del provvedimento (di cui in questa sede è stato possibile dare conto in via di estrema sintesi), preme qui evidenziare che, alla luce del ricco compendio normativo appena richiamato, il giudice Tarantino perviene alla conclusione secondo cui, in materia di sicurezza sul lavoro, l’ordinamento italiano delinea un’area di rischio consentito «estremamente ristretta, alla quale sono estranee valutazioni di “accettabilità del rischio”». Sicché, se per un verso poteva considerarsi ragionevole la concessione di facoltà d’uso dell’altoforno entro margini temporali circoscritti e comunque ben definiti, altrettanto non potrebbe dirsi rispetto alla concessione di ulteriori quattordici mesi di proroga, che sommati ai periodi precedenti porterebbero l’arco temporale di utilizzo in costanza di sequestro a 5 anni, 5 mesi e 6 giorni.

 

* * *

 

7. Il 30 dicembre 2019 si terrà dinanzi al Tribunale del riesame di Taranto l’udienza avente ad oggetto l’appello presentato dai difensori di Ilva in a.s. avverso il provvedimento qui illustrato. Laddove la proroga del termine non fosse concessa nemmeno dai giudici della libertà, le operazioni di spegnimento dell’Altoforno n. 2, iniziate lo scorso 14 dicembre, proseguirebbero fino al completamento previsto per metà gennaio 2020. Un’eventualità, quest'ultima, verosimilmente non priva di impatto sulle trattative che ArcelorMittal e gli amministratori straordinari stanno conducendo proprio in questi giorni, a margine della causa civile per lo scioglimento del contratto di cessione d’azienda avviata lo scorso 4 novembre dal ramo italiano della multinazionale. Secondo quest’ultimo, infatti, lo spegnimento dell’altoforno in ragione dell’inadempimento delle prescrizioni da parte degli stessi amministratori straordinari determinerebbe un calo della capacità produttiva dello stabilimento che non potrebbe non ripercuotersi, tra l’altro, sulla sua capienza occupazionale e dunque sul numero degli esuberi.

La delicatezza e la continua mutevolezza dell’attuale contesto suggeriscono dunque estrema cautela nel formulare valutazioni sul merito della vicenda, la cui posta in gioco richiede soluzioni che siano il frutto di un’autentica ponderazione di tutti gli interessi coinvolti, tenuto conto delle drammatiche ripercussioni che ogni minimo spostamento dell’asticella a favore dell’uno o dell’altro è destinata a produrre tanto sui singoli quanto sul sistema complessivamente considerato.

Pare nondimeno opportuno soffermarsi brevemente su alcune importanti differenze di fondo che intercorrono tra la vicenda in esame e quella, parallela, relativa all’inquinamento provocato dall’Ilva ed allo “scudo penale” per reati ambientali recentemente abolito. La somiglianza per certi aspetti “genetica” dei due filoni (entrambi scaturiti da un sequestro preventivo senza facoltà d’uso, seguito da un’autorizzazione ex lege a proseguire la produzione per un certo periodo, nonché da una serie di proroghe concesse per portare a compimento le prescrizioni impartite) non deve infatti oscurare i ben più importanti profili di eterogeneità che li attraversano ed alla luce dei quali – crediamo – alcuni interrogativi che circondano la questione dell’Altoforno n. 2 possano essere quanto meno messi meglio a fuoco.  

Il riferimento non è soltanto agli esiti opposti (ed entrambi condivisibili) dei giudizi di legittimità costituzionale che hanno riguardato i decreti “salva-Ilva” intervenuti nel 2012 (filone ambientale) e nel 2015 (filone sicurezza sul lavoro)[2]; bensì, e forse più in radice, ai connotati di fondo del rischio inerente alla prosecuzione dell’attività produttiva che in ciascuno dei due filoni viene in rilievo.

A noi pare, infatti, che altro sia autorizzare la prosecuzione di un’attività d’impresa che, per quanto certamente inquinante e non priva di un significativo impatto sanitario sulla popolazione, produce tali esternalità negative principalmente per via di accumulo, cioè attraverso dinamiche causali protratte nel tempo, la cui intensità è suscettibile di essere progressivamente attenuata attraverso l’esecuzione delle misure previste dal piano ambientale (come stabilito dalla normativa “salva-Ilva” attualmente vigente); altro, invece, è consentire che i lavoratori della stessa fabbrica continuino ad operare in un ambiente, come quello dell’Altoforno n. 2, dove – stando al provvedimento in esame – esiste un rischio elevato di eventi lesivi contrassegnati da una dinamica causale acuta, suscettibile di produrre effetti letali e soprattutto troppo rapida per essere efficacemente contrastata da misure diverse rispetto all’automazione del processo, accompagnata dall’interdizione agli operatori dell’accesso alle zone a rischio.

Questa differenza di fondo non può, a nostro avviso, non incidere sulle valutazioni che le autorità – si tratti del legislatore in sede di decretazione d’urgenza o del giudice in sede di concessione della facoltà d’uso – sono chiamate a compiere nel definire l’area del c.d. rischio consentito: perché se è chiaro che, nell’attuale stagione della società industriale, una certa dose di impatto ambientale (e dunque necessariamente anche sanitario), può a certe condizioni essere tollerata (basti pensare ai valori-limite di emissioni industriali stabiliti a livello europeo sulla base della procedura prevista dalla direttiva 2010/75/UE, ben lontani dal “rischio zero” per le risorse naturali e le stesse persone); altrettanto chiaro deve essere che non esistono interessi prevalenti rispetto all’esigenza di scongiurare un rischio elevato di verificazione di morte per incendio, come quella occorsa nel giugno 2015 (ossia a poco più di un anno di distanza – non pare un fuor d’opera ricordarlo – dalla pronuncia delle Sezioni Unite sul caso del rogo del ThyssenKrupp).

Particolarmente pregnante, in questa prospettiva, la posizione assunta dal provvedimento in esame in punto di radicale estraneità, dal sistema vigente di tutela della sicurezza sul lavoro, di valutazioni inerenti all’«accettabilità del rischio [di eventi gravemente lesivi della salute, se non addirittura della vita]». Una posizione che si lascia apprezzare per la sua ragionevolezza laddove non nega aprioristicamente che «orizzonti temporali ben delimitati» possano giustificare, nella prospettiva della proporzionalità, un controllato allentamento del vincolo reale; ma che al contempo dimostra esemplare lucidità laddove cala in un provvedimento giudiziario l’elementare principio secondo cui, quando ci sono vite umane in imminente pericolo, le macchine devono fermarsi per il tempo necessario a rimuoverlo. «Il costo economico esigibile – insegnava Giorgio Marinucci a proposito degli obblighi di diligenza gravanti sui titolari di posizioni di garanzia nelle imprese – può essere talora costituito non dal mero costo necessario per l’impiego di questa o quella misura di sicurezza, bensì, addirittura, dalla rinuncia alla stessa attività pericolosa, quando la rinuncia è il solo mezzo capace di sventare o anche solo minimizzare i pericoli»[3]. Nel caso in esame, a ben vedere, la sospensione dell’attività sarebbe stata evitabile attraverso la tempestiva predisposizione di meccanismi di automazione, per la quale gli amministratori straordinari hanno avuto anni di tempo a loro disposizione; a fronte tuttavia dell’ostinato perdurare di quella che lo stesso Tribunale del riesame ha definito una colpevole inerzia, la misura ablatoria è divenuta l’extrema ratio di cui l’ordinamento oggi dispone per impedire che l’esercizio dell’attività di impresa avvenga con sacrificio dei beni ai quali riconosce il rango più elevato.  

 

 

[1] Si tratta della pronuncia con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle norme citate, ritenendo che le stesse privilegiassero in modo eccessivo la prosecuzione della produzione, senza cioè operare un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra l’interesse all’esercizio dell’attività di impresa (art. 41, co. 2 Cost.), da un lato, e quelli alla vita ed alla salute (artt. 2 e 32 Cost.), nonché al lavoro in un ambiente sicuro (artt. 4 e 35 Cost.), dall’altro lato. Cfr. Pulitanò D., Una nuova “sentenza Ilva”: continuità o svolta?, in Giur. cost., 2018, p. 604 ss.

[2] Dal confronto tra le sentenze nn. 85/2013 e 58/2018 non emerge, infatti, un revirement della Corte, bensì un distinguishing fondato sulle diverse caratteristiche dei due decreti salva-Ilva rispettivamente sottoposti a scrutinio, e segnatamente sulla circostanza che soltanto nel caso del d.l. n. 207/2012 (ritenuto legittimo) le misure imposte al gestore erano quelle stabilite dalla PA (attraverso il riesame dell’AIA); mentre nel caso del d.l. n. 92/2015 e della l. n. 132/2015 (ritenuti illegittimi), il legislatore aveva affidato alla stessa impresa la predisposizione unilaterale del piano di misure in materia di sicurezza: sul punto sia concesso rinviare, anche per ulteriori riferimenti, Zirulia S., Sequestro preventivo e sicurezza sul lavoro: illegittimo il decreto “salva-Ilva n. 92 del 2015, in Riv. it. dir. proc. pen., p. 947 ss.

[3] Marinucci G., Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento alle regole di diligenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, p. 46.