1. Il decreto di archiviazione del Tribunale dei Ministri. Con decreto del 21 novembre 2019 il Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma ha disposto l’archiviazione del procedimento penale nei confronti del Ministro dell’Interno pro tempore (carica all’epoca ricoperta dal sen. Matteo Salvini) e del suo Capo di Gabinetto, in relazione ai reati di omissione (rectius rifiuto) di atti d’ufficio (art. 328, comma 1 c.p.), abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e omissione di soccorso in mare (art. 1113 cod. nav.). Le indagini erano state avviate a seguito di esposto presentato alla Procura di Agrigento, nel quale si evidenziava la mancata assegnazione di un porto sicuro alla nave Alan Kurdi della ONG Sea Eye, battente bandiera tedesca, che il 3 aprile 2019 aveva soccorso un gruppo di persone a bordo di un gommone in difficoltà in area SAR libica e subito dopo aveva richiesto (invano) alle autorità marittime italiane il permesso di attraccare in un porto della Penisola.
I giudici del Tribunale dei Ministri (competente rispetto alla posizione di entrambi gli indagati in quanto concorrenti nel reato[1]), hanno concluso nel senso che nella vicenda concreta non fosse ravvisabile in capo agli indagati alcun obbligo di assegnazione di un place of safety, con conseguente impossibilità di ricondurre le loro condotte alle fattispecie di cui agli artt. 323 e 328 c.p., le quali appunto presuppongono, tra l’altro, la violazione di puntuali norme precettive relative all’esercizio della funzione pubblica. Quanto all’omissione di soccorso in mare, gli stessi giudici hanno ricordato che il fatto tipico di cui all’art. 1113 cod. nav. è testualmente circoscritto alla condotta di chi, richiesto dall’autorità competente, ometta di cooperare al soccorso di imbarcazioni e persone in pericolo; situazione evidentemente diversa da quella venuta in oggetto nel caso in esame.
La stessa Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma aveva in effetti chiesto l’archiviazione del procedimento per tutte e tre le fattispecie contestate; ma lo aveva fatto, quanto meno rispetto ai reati di cui agli artt. 323 e 328 c.p., sulla base di un iter argomentativo significativamente diverso da quello seguito dal collegio giudicante. Secondo tale impostazione, in particolare, pur essendo la condotta di mancata assegnazione del POS illegittima, non erano ravvisabili profili di responsabilità penale né in capo agli indagati, per difetto di posizione di garanzia rispetto alla decisione di assegnazione di un POS; né in capo al personale titolare, invece, di tali obblighi giuridici (ossia i membri del Corpo delle Capitanerie di Porto - Guardia costiera), in ragione del difetto di altri elementi oggettivi e soggettivi delle menzionate fattispecie. In particolare, quanto all’omissione di atti d’ufficio, non sussistevano ad avviso della Procura gli estremi dell’indifferibilità dell’atto per “ragioni di igiene e sanità”, come invece richiesto dall’art. 328 c.p.: non erano emersi, infatti, pericoli per la salute dei migranti, ed in ogni caso era stato messo a disposizione un team medico di cui la nave non aveva tuttavia chiesto l’ausilio. Quanto all’abuso d’ufficio, mancava il dolo intenzionale di arrecare a taluno un danno ingiusto, atteso che il fine esclusivo perseguito dalle autorità «[era] stato quello di perseguire il pubblico interesse senza alcuna intenzione di arrecare un danno alle persone recuperate».
Nel prosieguo, dopo avere sinteticamente ricostruito i fatti all’origine della vicenda (n. 2), si passeranno in rassegna le motivazioni del decreto del Tribunale dei Ministri (n. 3), soffermandosi nelle conclusioni su alcuni passaggi che appaiono non privi di profili di criticità (n. 4).
2. La vicenda. Il 3 aprile 2019 il comandante della nave Alan Kurdi, battente bandiera tedesca, comunicava via email alle autorità marittime libiche, italiane, maltesi e tedesche di essere venuto a conoscenza della presenza di un gommone in difficoltà in zona SAR libica. Ricevuta la notizia, il Maritime Rescue Coordination Center di Roma contattava i colleghi di Tripoli, i quali tuttavia inizialmente si dichiaravano all’oscuro dell’evento. Trascorsa più di un’ora, e dopo che MRCC Roma aveva provveduto ad inoltrare nuovamente la email del comandante di Alan Kurdi, la Guardia Costiera libica comunicava di avere intrapreso non meglio specificate iniziative per trovare una soluzione.
Nel frattempo, la Alan Kurdi inviava una nuova email agli stessi destinatari informando di avere concluso le operazioni di soccorso e chiedendo a Tripoli l’indicazione di un POS. Non ricevendo risposta, la richiesta veniva rivolta alle autorità tunisine. Verso sera le autorità libiche comunicavano a quelle italiane di non avere intenzione di inviare unità navali verso la Alan Kurdi. Quest’ultima, nella notte tra il 3 e il 4 aprile, entrava in SAR maltese, comunicando la nuova posizione alle autorità di La Valletta oltre che a quelle italiane e tedesche.
Nel pomeriggio del 4 aprile, tuttavia, il comandante notificava agli stessi destinatari l’ingresso nella zona SAR italiana, nonché l’intenzione, alla luce delle condizioni meteo in via di peggioramento, di attraccare a Lampedusa, chiedendo a tal fine l’assegnazione di un porto. La richiesta veniva inoltrata al Ministero dell’Interno (ed agli altri Ministeri competenti), che in risposta inviava a MRCC Roma una direttiva ai sensi dell’art. 11 del T.U. imm.[2] con la quale vietava l’ingresso della Alan Kurdi nelle acque territoriali e affermava che lo stato di bandiera, ossia la Germania, avrebbe dovuto assumere il ruolo di controllo e coordinamento delle successive operazioni. Dopo ulteriori richieste di POS rivolte a MRCC Roma, nonché l’avvio di una trattativa volta ad ottenere quanto meno lo sbarco delle persone in condizioni fisiche precarie (tentativo fallito in quanto le autorità italiane erano disponibili a lasciare sbarcare soltanto due bambini con le loro madri, separandoli però dai padri che invece non erano autorizzati allo sbarco), la Alan Kurdi riprendeva la navigazione in direzione di Malta, dove infine sbarcava il 13 aprile.
3. Le statuizioni del Tribunale dei Ministri. Dopo avere agevolmente scartato, sulla scorta delle motivazioni già ricordate, la sussistenza degli estremi del delitto ex art. 1113 cod. nav., il collegio si addentra nell’esame della ben più complessa questione relativa alla configurabilità delle fattispecie ex artt. 328 e 323 c.p.
Sono due i quesiti attorno ai quali ruota il ragionamento dei giudici: i) a quale autorità italiana, a fronte della richiesta del comandante della Alan Kurdi, spettasse il compito di indicare un POS; ii) se, alla luce delle circostanze del caso di specie, l’assegnazione del POS costituisse l’oggetto di un vero e proprio obbligo a carico dell’autorità competente.
Quanto al primo quesito, i giudici ritengono che l’autorità preposta all’assegnazione del place of safety sia in effetti il Ministro dell’Interno. Ciò sulla scorta di quanto previsto dalla direttiva ministeriale SOP 0019\15, adottata in attuazione degli obblighi sovranazionali che prescrivono agli Stati di dotarsi di piani operativi per la conduzione delle operazioni di soccorso[3], recante le procedure per l’individuazione del POS nell’ambito delle “operazioni SAR connesse all’emergenza flussi migratori in mare”. Ai sensi della direttiva, la richiesta di POS deve essere presentata da MRCC Roma al Centro Nazionale di Coordinamento (NCC), il quale poi provvede ad inoltrarla al Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione del Ministero dell’Interno, competente al rilascio del POS secondo le indicazioni provenienti dallo stesso dicastero. Osserva il provvedimento in esame che «nel testo della Direttiva (paragrafo 2. Generalità) viene evidenziato il ruolo fondamentale del Ministero dell’Interno nella procedura di assegnazione del POS, in considerazione della frequenza degli interventi di soccorso, dell’elevato numero di migranti da soccorrere e trasportare in relazione ad ogni singolo evento, della presenza nelle aree interessate di unità private autonomamente gestite da ONG per finalità di soccorso, nonché di vari operatori nazionali ed internazionali con i relativi assetti aeronavali, nonché della necessità di disporre nei luoghi di sbarco un apposito servizio di assistenza (sanitario e di ordine pubblico) che la normativa affida al Ministero dell’Interno e che viene organizzato a cura delle locali Prefetture». Tale dato normativo – osserva coerentemente il decreto di archiviazione – collima con quanto accaduto nel caso di specie, ossia l’inoltro delle richieste di POS avanzate dalla Alan Kurdi al Ministero dell’Interno e la successiva emanazione, da parte di quest’ultimo, di una direttiva che «non lasciava ad MRCC Italia alcuno spazio di autonomia decisionale rispetto a tali richieste».
Passando al secondo quesito, i giudici prendono le mosse dalla normativa sovranazionale e nazionale rilevante, che in questa sede ci limitiamo a ricordare brevemente:
i) Le convenzioni internazionali in materia di soccorsi in mare (CNUDM 1982, Conv. SOLAS 1974, Conv. SAR 1979), tutte ratificate dall’Italia, prevedono obblighi in materia di soccorso in mare sia in capo agli Stati di bandiera delle navi sia per gli stati costieri; tali obblighi sono in particolare dettagliati nella Convenzione SAR che prevede, tra l’altro, che gli Stati si ripartiscano le zone di ricerca e soccorso (Search and Rescue, SAR) e istituiscano adeguati centri di organizzazione e di coordinamento delle relative operazioni (Rescue Coordination Centre, RCC);
ii) le autorità che abbiano avuto notizia della presenza di persone in pericolo in mare devono attivare tempestivamente le operazioni di soccorso senza tenere conto della nazionalità o della condizione giuridica dei naufraghi; devono fornire loro le prime cure mediche; devono trasferirli in un luogo sicuro (Annesso Conv. SAR, cap. 1.3.2. e 2.1.10);
iii) a fronte delle resistenze talvolta emerse nella prassi da parte di taluni Stati a concedere un POS, nel 2004 con le Risoluzioni MSC 153(78) e 155(78) il Maritime Safety Committee ha emendato rispettivamente le Convenzioni SOLAS e SAR al fine di definire con maggiore precisione l’obbligo di tutti gli Stati coinvolti di cooperare per garantire lo sbarco delle persone il più presto possibile, sollevando così in tempi ragionevoli i comandanti intervenuti dai relativi obblighi di prestare assistenza ai naufraghi; ai sensi di entrambe le Convenzioni la responsabilità principale di tale coordinamento volto all’identificazione del luogo di sbarco cade sullo Stato competente per la zona SAR in cui è stata data assistenza (par. 1-1, Reg. 33, Cap. V, della Convenzione SOLAS, cap. 3.1.9 Allegato Conv. SAR;
iv) al fine di dare attuazione a tali principi, il Maritime Safety Committee ha integrato gli emendamenti con le Linee Guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (risoluzione MSC 167(78)), espressamente richiamate in Italia dal piano operativo di cui alla direttiva SOP 009\15, che definiscono più precisamente il contenuto dei rispettivi obblighi e ribadiscono la responsabilità principale dello Stato nella cui regione SAR si sono svolti i soccorsi;
v) le stesse linee guida raccomandano agli Stati di assumere il coordinamento delle operazioni mediante i propri centri nazionali di coordinamento e soccorso anche quando, pur essendo l’operazione avvenuta al di fuori dell’area SAR di competenza, “abbiano per primi ricevuto notizia di persone in pericolo in mare” e prevedono che tale centro resti responsabile “fino a quando il RCC competente per l’area non abbia formalmente assunto tale responsabilità”.
Alla luce di tale quadro normativo, ad avviso del collegio sussiste in capo allo Stato l’obbligo di indicare un POS nei casi in cui esso «effettui direttamente un intervento di soccorso nella propria zona SAR o in zona SAR di altri Stati con mezzi propri o comunque assuma il coordinamento di tali operazioni».
Nessuna di tali ipotesi è tuttavia integrata – prosegue il decreto di archiviazione – in presenza di operazioni di ricerca e salvataggio «effettuate in autonomia da navi appartenenti ad organizzazioni umanitarie presenti nei tratti di mare notoriamente percorsi da imbarcazioni di migranti»; tali imbarcazioni, infatti, continua il collegio, «una volta effettuato il salvataggio, scelgono in autonomia la rotta da percorrere ed il paese cui rivolgersi per l’indicazione di un POS», al di fuori cioè di qualsivoglia coordinamento da parte del paese SAR in cui è avvenuto il salvataggio o dei paesi di zone SAR limitrofe.
Sostiene allora il collegio che, «seguendo alla lettera il dettato della convenzione», in questi casi lo Stato di “primo contatto” (come tale competente per il coordinamento e l’assegnazione del POS) coinciderebbe necessariamente con lo stato di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio. Laddove peraltro quest’ultimo si trovi, come nel caso di specie, a grande distanza dal luogo dell’evento, la disciplina appare lacunosa, «essendo evidente che rimettere l’indicazione di un POS ad uno Stato molto distante dal luogo SAR non consente una tutela efficace delle persone che, dopo aver rischiato la vita in mare, avrebbero diritto di raggiungere un luogo sicuro nel più breve tempo possibile». Detto altrimenti, secondo il Tribunale dei Ministri l’ipotesi oggetto di scrutinio è «priva di idonea regolamentazione»; un vizio riconducibile alla circostanza che la normativa in materia è stata «costruita su un modello diverso da quello che si verifica nella prassi, basato sull’intervento diretto, con proprie navi, degli Stati costieri limitrofi ai luoghi in cui si verificano gli eventi SAR».
Fermo restando – chiosa per inciso il decreto – che anche quando i migranti vengono soccorsi in zona SAR libica con il coordinamento delle autorità di tale paese si pone l’ulteriore problema relativo alla possibilità di ritenere la Libia un “porto sicuro”, «in considerazione del trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione così come ampiamente documentato da relazioni dell’UNHCR, l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati».
Giungiamo così al cuore del decisum, che conviene riportare testualmente: «l’evento SAR oggetto del presente procedimento rientra nei casi in cui, da un lato, lo Stato SAR competente ha rifiutato di intervenire nelle operazioni di soccorso e non ha risposto alla richiesta di POS; dall’altro gli Stati delle zone SAR limitrofe (Tunisia, Malta, Italia) sono stati contemporaneamente destinatari, solo per conoscenza, delle comunicazioni inizialmente inviate dal comandante della nave unicamente alla Libia per competenza e non sono in alcun modo intervenuti nelle operazioni, né hanno coordinato i soccorsi nella fase successiva al recupero dei naufraghi». Tutto ciò che è avvenuto in questa fase – prosegue la motivazione – è stato il frutto di decisioni autonomamente prese dal comandante, che dapprima ha fatto rotta verso la Tunisia, quindi è entrato in acque SAR maltesi e infine in acque SAR italiane: sicché «anche volendo ritenere che la Libia non potesse essere ritenuto un “porto sicuro” seguendo le indicazioni dell’UNHCR, non è possibile configurare in capo all’Italia, ultimo dei tre Stati diversi dalla Libia ad essere stato chiamato in causa dalla nave, un obbligo di indicazione del POS».
Da quanto illustrato – conclude il collegio – consegue la conclusione sopra anticipata: «l’assenza di norme di portata precettiva chiara applicabili alla vicenda che ci occupa non consente di individuare, con riferimento all’ipotizzato, indebito rifiuto di indicazione del POS, precisi obblighi di legge violati dagli indagati e, di conseguenza, di ricondurre i loro comportamenti a fattispecie di penale rilevanza sotto il paradigma dei delitti p. e p. dagli artt. 323 e 328 c.p.».
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4. Qualche osservazione critica sulle motivazioni della pronuncia. La ricostruzione condotta ha messo in luce come i profili di responsabilità penale in capo agli indagati siano stati esclusi dal Tribunale dei Ministri sulla scorta di valutazioni effettuate alla luce della rilevante disciplina di diritto internazionale sui soccorsi in mare (nonché delle relative norme di attuazione italiane), ossia delle disposizioni che regolano le operazioni di salvataggio dal momento della segnalazione di una situazione di distress fino allo sbarco dei naufraghi in un place of safety. Tale disciplina, infatti, filtra nelle fattispecie penali di cui agli artt. 328 e 323 c.p. attraverso elementi normativi quali, rispettivamente, il carattere “indebito” del rifiuto dell’atto d’ufficio e la “violazione di norme di legge o di regolamento” dell’abuso d’ufficio; sicché l’assenza nel caso concreto di tali profili di illeceità speciale si riflette automaticamente sull’insussistenza del fatto tipico.
Ebbene, alcuni passaggi delle argomentazioni formulate dal Tribunale dei Ministri relativamente ai presupposti ed all’estensione degli obblighi degli Stati di offrire un POS prestano il fianco a rilievi critici che ci sembra indispensabile sollevare. Ciò non significa – pare importante sottolinearlo fin d’ora – che una diversa e più precisa ricostruzione del diritto internazionale applicabile avrebbe necessariamente condotto il Tribunale dei Ministri ad opposte conclusioni in punto di responsabilità penale degli indagati. È di tutta evidenza, infatti, che alla responsabilità dello Stato per violazione del diritto internazionale non corrisponde automaticamente la responsabilità penale dell’organo che abbia adottato il comportamento lesivo, quest’ultima dipendendo dalla sussistenza dei presupposti stabiliti da una fattispecie incriminatrice. Sul punto, con particolare riguardo all’eventuale sussistenza del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, si tornerà brevemente nel prosieguo.
In via preliminare, giova sgombrare il campo da un equivoco che potrebbe essere indotto da una lettura superficiale del provvedimento in esame; un equivoco nel quale è incorsa una parte della stampa italiana che ha diffuso la notizia dell’archiviazione e che potrebbe un domani risultare foriero di decisioni errate, tanto da parte dell’amministrazione quanto della magistratura, a fronte di episodi analoghi a quello in esame. Il Tribunale dei Ministri non ha affermato che lo Stato competente per l’assegnazione del POS sarebbe stata la Germania, trattandosi di nave battente bandiera tedesca. La posizione assunta dal collegio risulta, invero, più articolata. Come visto, infatti, i giudici romani hanno affermato che l’attribuzione allo Stato di bandiera della responsabilità di indicare il porto di sbarco, benché astrattamente in linea con il tenore testuale della Convenzione SAR, non appare sostenibile allorquando – come appunto nel caso di specie – lo Stato di bandiera si trovi a grande distanza rispetto al luogo dell’evento e non sia pertanto in grado di offrire una soluzione compatibile con la necessità di un (ragionevolmente) celere sbarco. Muovendo da tale considerazione, i giudici hanno affermato che la normativa vigente appare lacunosa, perché non offre soluzioni univoche rispetto alle situazioni in cui tutti gli Stati costieri coinvolti si rifiutano di concedere un porto sicuro; e come tale è da considerarsi inidonea a fondare obblighi sufficientemente precisi al metro dei quali sindacare la legittimità dell’operato delle autorità competenti.
Tali considerazioni consentono peraltro di rivolgere l’attenzione ai primi profili di maggiore criticità ravvisabili nella motivazione del provvedimento in esame. Invero, nella Convenzione SAR non è ravvisabile alcuna indicazione testuale dalla quale si possa evincere che lo Stato di primo contatto sia necessariamente, e nemmeno normalmente, lo stato di bandiera della nave, né una responsabilità principale di questo Stato per l’indicazione del porto di sbarco. Se è vero che generalmente i comandanti delle navi che vengono a conoscenza di una situazione di pericolo in mare e si apprestano ad intervenire lo comunicano anche al loro Stato di bandiera, e che pertanto esso vada incluso tra gli Stati coinvolti nella gestione dell’evento, l’intero sistema dei soccorsi in mare privilegia chiaramente il coordinamento e la predisposizione di misure idonee a garantire l’effettività dei soccorsi da parte degli Stati costieri, e ciò – come invece correttamente il Tribunale rileva – non limitatamente allo Stato nella cui zona SAR di competenza ha avuto luogo l’evento (art. 98 par. 2 CNUDM). Peraltro, a questo chiaro orientamento normativo corrispondono anche, in termini fattuali, i sistemi automatici di notifica via onde radio e satellitari delle comunicazioni di distress che sono ricevute dai centri di coordinamento dei soccorsi in ragione della distanza dall’evento, non prioritariamente quindi dallo Stato di bandiera.
L’erroneo presupposto per cui lo stato di primo contatto, responsabile del coordinamento dei soccorsi e dell’indicazione del luogo di sbarco, dovrebbe essere lo Stato di bandiera, porta il Tribunale a conclusioni erronee anche con riferimento alla responsabilità degli altri Stati coinvolti, che appaiono secondo la ricostruzione proposta dal collegio esenti da obblighi in ragione della lacunosità del dettato normativo. Ora, il sistema convenzionale è molto meno lacunoso di quanto il Tribunale sembri credere, e non è affatto vero che nel caso in cui «il soccorso sia attuato in autonomia dal comandante senza alcun coordinamento con i centri di soccorso di Stati limitrofi […] la fase successiva di completamento della fase di soccorso (ovvero il raggiungimento del POS) resterà priva di idonea regolamentazione». Innanzitutto, va rilevato che il meccanismo di cooperazione istituito con la Convenzione SAR si fonda sul presupposto che i comandanti delle navi (che hanno l’obbligo di prestare immediatamente soccorso in mare indipendentemente dal modo in cui siano venuti a conoscenza della situazione di pericolo e quindi anche senza che una richiesta di intervento sia avanzata da un MRCC: Ch. V, Reg. 33 par. 1 Conv. SOLAS; art. 98 par. 1 CNUDM) trovino sempre l’assistenza delle autorità statali competenti, le quali “appena ricevuta l’informazione che una persona è, o sembra essere, in pericolo in mare prendono misure urgenti per assicurare che l’assistenza necessaria sia fornita” (Allegato Conv. SAR, Ch. 2.1.1). A conferma e precisazione del fatto che tale disposizione si applica indistintamente a tutti gli Stati coinvolti, le già citate Linee guida adottate dal Maritime Safety Committee richiedono agli Stati di prevedere piani operativi anche per incidenti accaduti al di fuori delle zone SAR di competenza (MSC Res. 167(78) par. 6.5) e prevedono che le autorità inizialmente contattate mantengano il coordinamento dei soccorsi fino a quando l’MRCC competente, o un’altra autorità, non abbia assunto la responsabilità. Sarebbe assurdo pensare che la violazione dell’obbligo di assistenza da parte dello Stato che abbia ricevuto comunicazione della situazione di pericolo comporti automaticamente anche l’elusione dell’obbligo di cooperazione per la determinazione del porto di sbarco. Sia la Convenzione SAR sia la Convenzione SOLAS prevedono, infatti, in capo a tutti gli Stati coinvolti un autonomo obbligo di cooperazione per la determinazione del luogo di sbarco, affinché il comandante della nave sia liberato dalla propria responsabilità con la minor deviazione dalla propria rotta e nel più breve tempo ragionevolmente possibile (Allegato Conv. SAR Ch. 3.1.9; Conv. SOLAS Ch. V Reg. 33 par. 1-1). Sebbene tale obbligo di cooperazione sia qualificabile come obbligo di mezzi e non di risultato, e non sia possibile dedurre dalle norme citate lo specifico obbligo per un determinato Stato di indicare un porto di sbarco sul proprio territorio, ogni Stato coinvolto è destinatario dell’obbligo di operare in buona fede in vista del raggiungimento del risultato desiderato[4].
Infine, se è vero che la normativa appena citata non risolve in modo univoco, o in termini generali e astratti, la questione della competenza per l’assegnazione del porto di sbarco, è possibile che un preciso obbligo in tal senso sia l’effetto delle circostanze del caso o sia determinato dall’applicazione di trattati sui diritti dell’uomo. Nel caso ad origine della pronuncia in commento, il comandante della nave, lasciato ad una autonoma gestione dell’evento in assenza di indicazioni da parte di tutte le autorità idealmente competenti, si era diretto verso Lampedusa, giudicando l’isola italiana il luogo maggiormente idoneo allo sbarco. È lecito chiedersi se, una volta a ridosso del mare territoriale italiano, e destinataria di un provvedimento interdittivo adottato nei sui confronti da organi dello Stato, la nave Alan Kurdi non dovesse essere considerata come sottoposta alla giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con il conseguente sorgere in capo all’Italia di obblighi positivi di protezione per la vita e la sicurezza delle persone a bordo. Una tale ipotesi troverebbe peraltro conferma nella disponibilità manifestata dal Governo italiano per lo sbarco delle persone più vulnerabili (i due bambini con le loro madri).
Una volta chiarito che la normativa internazionale pertinente, non lascia “privi di regolamentazione” i soccorsi attuati senza il coordinamento o l’assunzione formale di responsabilità ab inizio di un MRCC, sembra criticabile anche l’affermazione secondo cui la disciplina vigente sarebbe inadeguata in ragione del suo essere «costruita su un modello diverso da quello che si verifica nella prassi, basato sull’intervento diretto, con proprie navi, degli Stati costieri limitrofi ai luoghi in cui si verificano gli eventi SAR». Se infatti è vero che il modello dei soccorsi direttamente operati dagli Stati membri sarebbe quello privilegiato dal sistema istituito dalla Convenzione SAR (e sarebbe anche quello maggiormente auspicabile ed efficace come l’esperienza dell’Operazione Mare Nostrum ha dimostrato), è altrettanto vero che l’intervento di navi private è da sempre considerato indispensabile per garantire la sicurezza della vita umana in mare[5].
Altrettanto infondata è l’ipotesi, sottesa al ragionamento del Tribunale, secondo cui le Convenzioni SAR e SOLAS sarebbero inidonee a regolare i soccorsi di migranti in mare in un’epoca di flusso massiccio di persone. Invero, gli emendamenti introdotti nel 2004 alle due convenzioni sono stati negoziati all’indomani del noto caso Tampa del 2001 – che presentava moltissimi degli ingredienti oggi riscontrabili nella casistica qui in esame[6] – al precipuo scopo di evitare situazioni di stallo dovute all’inerzia (o alla mancanza di volontà politica) degli Stati di assicurare il compimento dei soccorsi e lo sbarco in porti sicuri anche nel caso in cui i naufraghi siano migranti o rifugiati. E proprio al fine di evitare interpretazioni restrittive rationae personae degli obblighi di soccorso si è convenuto di emendare le Convenzioni precisando che l’obbligo di prestare assistenza vige “indipendentemente dalla cittadinanza o dallo status della persona e dalle circostanze nelle quali è trovata” (Annesso Conv. SAR Ch. 2.1.10; Conv. SOLAS Ch. V Reg. 33.1). L’intervento non ha sciolto qualunque dubbio in merito alle precise responsabilità dei singoli Stati coinvolti, ma ha chiarito che sussiste un obbligo di cooperazione da parte di tutti gli Stati limitrofi che abbiano avuto notizia dell’evento, e che nessuno di essi si libera di tale obbligo fintantoché una soluzione non sia stata trovata[7].
La stessa Procura, invero, aveva adottato tale posizione nel passaggio della richiesta di archiviazione in cui aveva rilevato che «in assenza […] di un’assunzione formale di responsabilità da parte di uno degli RCC contattati, rimane in capo a tutti coloro che hanno avuto notizia dell’evento la responsabilità di porre in essere tutte le misure necessarie e, quindi, tutte le attività di ricerca e soccorso, e, nell’ambito di quest’ultimo, delle sottofasi di recupero e trasferimento in luogo sicuro». Sulla scorta di tali rilievi, la Procura aveva ritenuto che, a fronte delle reiterate richieste provenute dalla Alan Kurdi, prima ancora che il Ministro dell’Interno emanasse la direttiva recante il divieto di sbarco, il Corpo delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera italiana avrebbe dovuto fornire un POS alla nave umanitaria. Sebbene quest’ultimo passaggio della richiesta di archiviazione presenti a ben vedere un salto logico dall’obbligo (di mezzi) di cooperazione a quello (di risultato) di offrire un porto sicuro; nondimeno appare apprezzabile lo sforzo di ricostruzione della normativa internazionale nella prospettiva di valorizzarne la ratio di fondo, da ravvisarsi per l’appunto nell’impedire agli Stati di sottrarsi i propri doveri di garanti della vita in mare, laddove abbiano avuto notizia di situazioni di distress.
Il tema della notizia dell’evento consente di confrontarsi con l’ultimo profilo critico del decreto di archiviazione, ravvisabile nel passaggio in cui si afferma che l’Italia non poteva definirsi “Stato di primo contatto” in quanto, a differenza della Libia, non era tra i destinatari delle email inizialmente inviate dal comandante di Alan Kurdi, bensì soltanto “in copia” alle stesse. L’argomento appare fondato su un’interpretazione del concetto di “informazione” (cioè del presupposto che fa scattare l’obbligo di assistenza ai sensi del Ch. 2.1.1 dell’Allegato alla Convenzione SAR) del tutto avulsa dai canoni di corretta esegesi delle disposizioni giuridiche: letterale, posto che il concetto di informazione è in grado di abbracciare tutte le modalità attraverso le quali una notizia viene veicolata; sistematico, poiché in tutte le occasioni in cui le convenzioni di diritto del mare fanno riferimento alla notizia del pericolo precisano che il dovere di soccorso o di assistenza sorge in qualsiasi modo il destinatario dell’obbligo sia venuto a conoscenza della situazione; teleologico, essendo evidente che la finalità di tutela della vita in mare impone agli Stati di prendere provvedimenti sulla base del contenuto e non certo della forma dell’informazione ricevuta.
Ci si potrebbe allora chiedere, alla luce di quanto rilevato, se un rifiuto di atti d’ufficio fosse ravvisabile non tanto nel non avere concesso un POS, bensì nel non avere fattivamente cooperato con gli altri Stati coinvolti al raggiungimento di una soluzione in tempi rapidi. Fermo restando che questo tipo di conclusione richiederebbe ulteriori approfondimenti, anche in punto di fatto, all’evidenza estranei dallo scopo del presente contributo, ciò che emerge dagli atti della Procura e del Tribunale è che la condotta delle autorità italiane si è esaurita, in sostanza, nel respingere le richieste della Alan Kurdi, senza al contempo adoperarsi per individuare, di concerto con gli altri Stati costieri coinvolti, una soluzione improntata all’efficacia dei soccorsi. Vero è che, secondo la Procura, la sussistenza del delitto di cui all’art. 328 c.p. sarebbe stata in ogni caso da escludere in ragione dell’assenza di imminenti pericoli per la salute e l’integrità fisica dei naufraghi, e dunque del difetto del requisito di indifferibilità dell’atto per “ragioni igiene e sanità”. Tuttavia – anche prescindendo dalla questione, tutt’altro che pacifica in giurisprudenza, se davvero l’esistenza di un’oggettiva situazione di pericolo per i beni giuridici “finali” indicati dalla norma incriminatrice (tra cui appunto “igiene e sanità”) costituisca presupposto indefettibile della condotta tipica, oppure se quest’ultima si risolva in un’offesa al corretto svolgimento della funzione pubblica (ancorché limitatamente ai settori indicati ed agli atti indifferibili)[8] – le argomentazioni addotte dalla Procura per negare la sussistenza di tale pericolo non appaiono convincenti: la circostanza che il comandante non avesse chiesto l’ausilio del team medico messo a disposizione dalle autorità dimostra forse che non era già in atto un’emergenza sanitaria, non che non vi fosse il pericolo di sviluppi in tal senso; la circostanza che «nemmeno successivamente [fosse] emersa alcuna situazione di particolare allarme sanitario» è evidentemente priva di rilievo nella prospettiva di un giudizio ex ante, quale appunto quello relativo al pericolo; ancora, la circostanza che le madri dei bambini in difficoltà avessero rinunciato a scendere perché il permesso non era stato esteso anche ai padri, semmai dimostra che il pericolo esisteva e che avrebbe dovuto essere fronteggiato con misure diverse (tenendo conto, tra l’altro, della rilevanza dei legami famigliari ex art. 8 Cedu). Senza contare che, in considerazione della vulnerabilità delle persone coinvolte, trattandosi di reduci da un naufragio oltre che dalle sofferenze psico-fisiche che notoriamente accompagnano le migrazioni dal continente africano, il pericolo in questione poteva considerarsi già sufficientemente dimostrato, senza necessità di attendere ulteriori manifestazioni sintomatiche della sua esistenza.
[1] Ai sensi dell’art. 11 della Legge Costituzionale n. 1 del 1989, nei casi di concorso di persone nel reato la competenza del collegio previsto dall’art. 7 della stessa legge si estende anche ai soggetti che non rivestono la qualifica di Ministro o Presidente del Consiglio dei Ministri.
[2] Nella versione antecedente al c.d. decreto sicurezza-bis (entrato in vigore il 15 giugno 2019), l’art. 11 T.U. imm. si limitava a prevedere, per quanto rileva ai presenti fini, la facoltà del Ministro di emanare “le misure necessarie per il coordinamento unificato dei controlli alla frontiera marittima” (comma 1-bis).
[3] In base alle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate con risoluzione MSC 167(78) del 20 maggio 2004 dal Maritime Safety Committee (organo tecnico principale dell’International Maritime Organisation, composto da tutti gli Stati membri e competente ad esaminare tutte le questioni rientranti nella competenza dell’Organizzazione e ad adottare misure operative, ai sensi dell’art. 27 IMO Convention), ogni Stato deve dotarsi di piani operativi che disciplinino le attività dei Centri di coordinamento del soccorso marittimo (Maritime Rescue Coordination Centre, istituti in base alla Convenzione SAR) e il loro coordinamento con tutte le amministrazioni interessate, nazionali e internazionali.
[4] Per un approfondimento sulla questione della ripartizione delle responsabilità in relazione ai soccorsi si veda F. De Vittor e M. Starita, Distributing Responsibility between Shipmasters and the Different States Involved in SAR Disasters,
in Italian Yearbook of International Law, Volume XXVIII (2018), pp. 77-96.
[5] Tale carattere indispensabile è espressamente riconosciuto dal Maritime Safety Committee al par. 5.1 della Ris. 167(78). Va inoltre ricordato che l’obbligo dei comandanti di tutte le navi, di stato e private, di prestare soccorso in mare ha origini più antiche ed è stato formalizzato in convenzioni internazionali precedentemente all’obbligo degli
Stati costieri. Per un approfondimento si veda M. Starita, Il dovere di soccorso in mare e il diritto di obbedire al diritto (internazionale) del comandante della nave privata, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 1/2019, pp. 5-46.
[6] In quel caso le autorità australiane avevano per otto giorni rifiutato lo sbarco ad una nave portacontainer norvegese che aveva tratto in salvo centinaia di richiedenti asilo, principalmente Hazara afghani in fuga dai talebani, successivamente dirottati verso Nuova Zelanda e Nauru (sulla vicenda si veda C. Bailliet, The Tampa Case and its Impact on Burden Sharing at Sea, in Human Rights Quarterly, 25/2003, pp. 741-774; per un ulteriore approfondimento, S. Trevisanut, The Principle of Non-Refoulement at Sea and the Effectiveness of Asylum Protection, in Max Planck Yearbook of United Nations Law, 12/2008, pp. 205-246).
[7] Per una più ampia ricostruzione del quadro normativo, v. le recenti Raccomandazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa. Per una sintesi delle raccomandazioni, volendo, cfr. S. Zirulia, Soccorsi in mare e porti sicuri: pubblicate le raccomandazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in Dir. pen. cont., 20.6.2019.
[8] Per l’orientamento restrittivo, che considera l’atto d’ufficio “indifferibile” soltanto a fronte di un accertato pericolo concreto per uno degli interessi indicati dalla norma incriminatrice, cfr. Cass. 3.12.2009, n. 46512; Cass. 29.9.2005, n. 35035, CED 232226 (entrambe in materia di “igiene e sanità”); per l’orientamento estensivo, che invece prescinde dall’accertamento di tale pericolo, sottolineando che l’interesse tutelato dalla norma è quello al corretto svolgimento della funzione pubblica (ancorché limitatamente ai settori specificamente indicati), cfr. Cass. 30.3.2017, n. 21631, CED 269955; Cass. 20.5.2008, n. 20056 (sempre in materia di “igiene e sanità”).