ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
27 Aprile 2021


Caso Palamara: l’ordinanza del G.u.p. di Perugia sui rapporti tra corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e corruzione propria (art. 319 c.p.) del componente del CSM e sui riflessi rispetto all’eccepita genericità e indeterminatezza del capo d’imputazione

G.u.p. Perugia, ord. 9 aprile 2021, giud. Frabotta



1. Segnaliamo ai lettori, per l’interesse, l’allegata ordinanza del Giudice dell’Udienza preliminare del Tribunale di Perugia emessa nel noto procedimento penale per reati di corruzione in corso nei confronti di Luca Palamara, già magistrato e consigliere del CSM. L’ordinanza è stata pronunciata in relazione ad alcune eccezioni preliminarmente sollevate dalla difesa dell’imputato, relative a profili processuali, alcuni dei quali, coinvolgendo il capo d’imputazione, presentano peraltro rilevanti riflessi di diritto sostanziale, il cui interesse va oltre la nota vicenda giudiziaria.

 

1.1. Una prima questione, che ha avuto eco nei media, riguarda l’eccepita incompetenza funzionale ex art. 11 c.p.p. del Tribunale di Perugia, che il Gup ha tuttavia rigettato, confermando l’incardinamento del processo presso il Tribunale umbro (p. 2 ss.).

 

1.2. Una seconda questione si incentra poi sul capo d’imputazione e, in particolare, sulla distinzione tra fatto nuovo e fatto diverso ai fini delle contestazioni ulteriori in sede di udienza preliminare. La difesa di Palamara ha infatti lamentato, in relazione all’art. 423, co. 2 c.p.p., la genericità,  indeterminatezza e novità dell’imputazione di corruzione ex art. 318 c.p. (corruzione per l’esercizio della funzione), nonché di quelle di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) e di corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.), così come integrate e modificate dal p.m. nel corso delle precedenti udienze (p. 5 ss.).

 

1.3. Una terza e ultima questione, infine, riguarda la legittimazione alla costituzione di parte civile del Ministero della Giustizia, in relazione alle imputazioni per corruzione, nei confronti di magistrati fuori ruolo componenti del Csm. L’ordinanza ritiene sussistente tale legittimazione, individuando i profili di danno – patrimoniale, d’immagine e alle sue attribuzioni costituzionali – che il mercimonio della funzione consiliare determina nei confronti del Ministero della Giustizia. (p. 19 ss.).

 

2. Nell’affrontare le questioni relative al capo d’imputazione, l’ordinanza annotata si sofferma in particolare sui  rapporti tra le fattispecie di corruzione funzionale (art. 318 c.p.) e di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), ponendosi in linea di continuità con quanto di recente ha affermato la Sesta Sezione della Corte di cassazione nella sentenza sul caso ‘mafia capitale’[1]. Dalle riflessioni sulla struttura di tali fattispecie delittuose discende – ed è questo a nostro avviso il profilo di maggior interesse dell’ordinanza annotata – un’importante implicazione in materia di correttezza della formulazione del capo d’imputazione e di rispetto del diritto di difesa, quando la contestazione del pubblico ministero coinvolge, appunto, i delitti di corruzione.

 

3. Ma partiamo, come di consueto, dalla ricostruzione dei fatti dai quali ha avuto origine il procedimento. Secondo la prima delle prospettazioni accusatorie, Palamara – nella sua qualità, prima, di sostituto procuratore presso la Procura di Roma ed esponente di spicco dell’ANM, successivamente di membro del CSM – avrebbe stretto un’intesa corruttiva con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, asservendo le sue funzioni agli interessi di quest’ultimo, integrando così gli estremi della fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.). A fronte di tale asservimento, Centofanti avrebbe corrisposto a Palamara indebite utilità consistite, tra l’altro, nel pagamento di diversi soggiorni di vacanza e di lavori di ristrutturazione presso l’abitazione di un’amica di Palamara. In altre parole, la Procura di Perugia ha contestato a Palamara di essersi innanzitutto stabilmente asservito agli interessi privati di Centofanti, o meglio, di essersi messo a disposizione di quest’ultimo, prendendone in carico gli interessi personali, dietro la corresponsione di varie utilità, ma a prescindere dal compimento di uno o più atti specifici contrari ai doveri d’ufficio.

Sono poi mosse nei confronti di Palamara altre due contestazioni accusatorie, per i delitti di cui agli artt. 319 (corruzione per un atto contrario ai doveri dell’ufficio) e 319 ter (corruzione in atti giudiziari), per aver – in qualità di consigliere del Csm – acquisito, rivelato e divulgato a Fabrizio Centofanti, e per suo tramite agli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, informazioni riservate su procedimenti penali di Roma e Messina nei quali gli stessi erano indagati, al fine di favorirli.

 

4. Come anticipavamo poco sopra, il profilo di maggior interesse dell’ordinanza qui segnalata attiene alle considerazioni del Giudice dell’Udienza preliminare circa la correlazione tra la struttura delle diverse fattispecie di corruzione e la corretta formulazione del capo d’imputazione. Sollecitato dai difensori dell’imputato a pronunciarsi sulla presunta genericità e indeterminatezza, ai sensi dell’art. 423, co. 2 c.p.p., in particolare della contestazione relativa alla presunta corruzione funzionale (art. 318 c.p.), il Gup ritiene infatti necessario soffermarsi in primis sulla struttura di quest’ultima fattispecie e sul suo confine con l’attigua ipotesi di corruzione propria (art. 319 c.p.), così come ricostruiti dalla recente giurisprudenza di legittimità[2]. L’ordinanza in esame ribadisce che «ciò che accomuna le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p. è il divieto di “presa in carico” d’interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario, dunque con un atto specifico; nella corruzione per l’esercizio della funzione, invece, la “presa in carico” realizza un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi in futuro, in modo non preventivo e non preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo». La corruzione funzionale ha dunque natura di reato di pericolo, che sanziona la «la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli». In altre parole, tale norma incrimina l’intesa programmatica tra il pubblico ufficiale e il privato, intesa che – secondo quanto affermato dalla citata sentenza della Cassazione[3] – può anche essere «muta» dal punto di vista probatorio. Al momento della contestazione della fattispecie di cui all’art. 318 c.p. può quindi anche non essere «individuabile nessuno specifico atto che il pubblico ufficiale si sia impegnato a compiere», ovvero «è possibile che a fronte della dazione di denaro da parte del privato corruttore – anche con scadenze temporali fisse (es. una determinata somma al mese) – il pubblico ufficiale assuma solo l’impegno “di sorvegliare”, di “vigilare” che gli interessi del privato, presi indebitamente “in carico”, non siano danneggiati nel corso del procedimento amministrativo».

Nell’ambito di una contestazione per il delitto di cui all’art. 318 c.p. – così come appena ricostruito – deve quindi ritenersi del tutto fisiologica l’evenienza in cui non sia accertato il contenuto del patto corruttivo. Viceversa la prospettazione della più grave fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri dell’ufficio (art. 319 c.p.) richiede la rigorosa determinazione del contenuto delle obbligazioni assunte dal pubblico ufficiale.

 

5. Da queste considerazioni discende allora, quale inevitabile conseguenza, che non vi è alcun difetto dell’imputazione e conseguente ipotetica lesione del diritto di difesa allorquando, in sede di contestazione ex art. 318 c.p., non venga descritto l’oggetto dell’accordo corruttivo, rientrando tale evenienza, fisiologicamente, nel perimetro del fatto tipico della corruzione per l’esercizio della funzione. Secondo l’ordinanza in esame, affermare la genericità della prospettazione accusatoria – a causa dell’indeterminatezza dell’accordo corruttivo – equivarrebbe infatti a sostenere che la stessa norma incriminatrice sarebbe carente in punto di tassatività.

Tali affermazioni valgono allora ad escludere nel caso concreto l’eccezione di genericità, indeterminatezza e oscurità del capo d’imputazione. Secondo il Gup, infatti, vista la struttura del delitto di corruzione funzionale (art. 318 c.p.) così come appena ricostruita, non integra una violazione del diritto di difesa il generico riferimento nel capo d’imputazione all’asservimento della funzione del pubblico agente, senza individuazione degli specifici atti che Palamara si sarebbe impegnato a compiere.  

 

* * *

 

6. Si tratta di conclusioni che potrebbero apparire scontate ma che, evidentemente, non lo sono, nonostante lo sforzo della recente giurisprudenza della Corte di cassazione di delineare con chiarezza i confini e la struttura delle fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p. Un intento di chiarificazione perseguito anche dall’ordinanza in esame, che ha altresì il merito di trasferirne i risultati anche sul terreno della corretta formulazione dei capi d’imputazione, nelle ipotesi in cui vengano in rilievo i delitti di corruzione.

 

 

[1] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125, Buzzi e Altri, in Dejure. Per un approfondimento sui temi trattati in questa sentenza si v. G. Fidelbo, La corruzione funzionale e il contrastato rapporto con la corruzione propria, in Giustizia insieme, 14 maggio 2020. Per un commento alla decisione della Cassazione cfr., volendo, M.C. Ubiali, Sul confine tra corruzione propria e corruzione funzionale: note a margine della sentenza della Corte di cassazione sul caso ‘mafia capitale’, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, fasc. 2, p. 662 ss.

[2] Ci riferiamo sempre a Cass. pen., Sez. VI, sent. 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125, cit.

[3] Ibidem.