Cass., Sez. III, ord. 4 ottobre 2019 (dep. 24 gennaio 2020), n. 2888, Pres. Izzo, Rel. Andronio
1. Con l’ordinanza in oggetto è stata rimessa alle Sezioni unite la seguente questione: «se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all'art. 609-bis c.p., comma 1, presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali».
Oggetto del quesito, dunque, è la definizione del concetto di “abuso di autorità” che costituisce, unitamente alla “violenza” o alla “minaccia”, una delle modalità di consumazione del reato di violenza sessuale previsto dall’art. 609-bis, comma 1, c.p.
Si chiede alla Suprema Corte di stabilire se la locuzione “abuso di autorità” vada confinata alle ipotesi di abuso di una formale posizione di potere pubblicistico, come quella del pubblico ufficiale nei confronti di un comune cittadino, oppure possa comprendere anche poteri di supremazia di natura privata, come ad esempio quella di un insegnante privato nei confronti dei propri alunni.
Qualora la vittima sia un soggetto minore, inoltre, la questione può diventare rilevante per delimitare i confini applicativi tra il reato di «violenza sessuale» (art. 609-bis c.p.) e il reato di «atti sessuali con minorenne» (art. 609-quater c.p.).
2. Il caso di specie riguarda proprio la condotta di un insegnante di inglese che impartiva lezioni private in un garage, imputato di aver compiuto, abusando della propria autorità, atti sessuali con due alunne di età minore degli anni quattordici.
In primo grado il fatto è stato qualificato come reato di “atti sessuali con minorenne” ai sensi dell’art. 609-quater c.p.
La Corte d’appello ha riqualificato i fatti come “violenza sessuale” ai sensi dell’art. 609-bis c.p., peraltro aggravata ai sensi dell’art. 609-ter c.p., n. 1), disposizione che nella formulazione allora vigente riguardava i fatti compiti nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici.
La difesa dell’imputato, nel ricorso in Cassazione, lamenta l’erronea applicazione di legge, sostenendo che la corretta qualificazione del fatto sia quella operata dal giudice di prime cure, ossia quella come reato di atti sessuali con minorenne ex art. 609-quater c.p.
3. La Corte di Cassazione ha rimesso la questione interpretativa alle Sezioni unite, rinvenendo sul punto un contrasto giurisprudenziale fra due orientamenti.
3.1. La “tesi pubblicistica” (restrittiva). Un primo indirizzo[1], avallato incidentalmente anche nella pronuncia delle Sezioni unite n. 13/2000[2], afferma che l'abuso di autorità presuppone necessariamente nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico.
Servirebbe pertanto un rapporto formale autoritativo tra autore e vittima, tale da ingenerare un affidamento del soggetto passivo in ragione del pubblico ufficio ricoperto dall’autore del reato; affidamento che l’agente pubblico sfrutta per costringere il privato al compimento degli atti sessuali.
A sostegno di questa tesi viene richiamato il dato storico per cui la fattispecie di cui all’art. 609-bis, comma 1, c.p. ha sostituito quella prevista dall’abrogato art. 520 c.p., ove si faceva espresso riferimento al “pubblico ufficiale”.
3.2. La “tesi privatistica” (estensiva). Un secondo e più recente orientamento[3], invece, estende il concetto di “abuso di autorità” di cui all’art. 609-bis c.p. ad ogni potere di supremazia, anche di natura privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.
Senza che occorra alcuna particolare connotazione formale, sarebbe sufficiente che l’agente eserciti una forma di influenza o suggestione sul soggetto passivo al fine di coartarne la volontà o condizionarne il comportamento.
Il principale argomento posto a sostegno di tale diversa interpretazione è di carattere sistematico e si basa sul confronto, da un lato, con l’art. art. 61, n. 11) c.p. e, dall’altro con l’art. 608 c.p.
L’art. art. 61, n. 11) c.p. configura, come elemento di aggravamento comune, la condotta di chi commette un reato “con abuso di autorità” o “di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d'ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione o di ospitalità”, ossia strumentalizzando situazioni coinvolgenti rapporti di diritto privato. In questo caso, come all’art. 609-bis c.p., non si fa riferimento ad alcuna situazione autoritativa di tipo pubblicistico, laddove invece altrove il legislatore ha tenuto a precisare la necessità di una tale qualifica: così avviene, ad esempio, nel caso dell’art. 608 c.p. Questa seconda norma è dunque chiamata in causa come argomento a contrario: infatti la norma, avente ad oggetto l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, rinvia espressamente, quanto ai possibili soggetti attivi del reato, alla figura del pubblico ufficiale.
Seguendo questo orientamento, sono state ritenute rilevanti situazioni quali la convivenza dell'imputato con la madre del minore persona offesa (Cass. n. 2119 del 2008); il potere di soggezione dell'imputato sulla cognata minore destinataria degli atti sessuali (Cass. n. 19419 del 2012); la qualità di istruttore di arti marziali esercitata dall'imputato nei confronti dei suoi allievi minorenni (Cass. n. 37135 del 2013); la qualità di datore di lavoro (Cass. n. 36704 del 2014 e Cass. n. 49990 del 2014); la qualità di insegnante nei confronti di una ex alunna (Cass. n. 33042 2016); la posizione di cappellano del carcere nei confronti dei detenuti (Cass. n. 33049 del 2016).
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4. La questione interpretativa che le Sezioni unite sono chiamate a dirimere riguarda – in via immediata – l’estensione del terreno applicativo della fattispecie di violenza sessuale mediante abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p. e potrebbe coinvolgere – in via mediata – l’ambito di intervento del diverso reato di atti sessuali con minore di cui all’art. 609-quater, c.p.
Il problema si gioca intorno alla definizione del concetto di “abuso di autorità” o, ancor più precisamente, della sola nozione di “autorità” impiegata dall’art. 609-bis c.p. È tale solo quella formale e pubblicistica o vi rientrano anche posizioni privatistiche?
A nostro sommesso avviso, buone ragioni sembrano militare a favore della tesi “privatistica”.
In primo luogo essa ci sembra compatibile con il tenore letterale della disposizione. Non v’è dubbio che l’accezione di “autorità” più comune in ambito giuridico, e soprattutto nel diritto amministrativo, sia quella pubblicistica, riferita al potere esercitato dalla pubblica amministrazione nei confronti dei privati; ma è altrettanto indubbio che il significato letterale dell’espressione comprenda al proprio interno anche qualunque «azione determinante che la volontà di una persona esercita (per forza propria, per consenso comune, per tradizione, ecc.) sulla volontà e sullo spirito di altre persone»[4]. La soluzione, dunque, si presenta quale mera interpretazione estensiva della norma di legge, non preclusa dal divieto di analogia in malam partem.
È caso mai l’opposta tesi “pubblicistica” che – richiedendo il non espresso requisito del carattere pubblicistico dell’autorità esercitata – sembra effettuare un’operazione di riduzione teleologica della fattispecie; operazione non certo astrattamente preclusa al giudice, in quanto in bonam partem, ma che può concretamente giustificarsi solo qualora sia sorretta da convincenti criteri interpretativi. Il criterio impiegato, qui, è principalmente quello storico del raffronto con le abrogate fattispecie di cui agli artt. 519 ss. c.p., fattispecie che l’art. 609-bis c.p. è stato chiamato a sostituire e nelle quali si faceva espresso riferimento al “pubblico ufficiale”.
Questo argomento storico, tuttavia, non ci sembra irresistibile, giacché proprio il mancato richiamo espresso alla qualifica di “pubblico ufficiale”, che compariva nelle abrogate disposizioni e non più nella nuova, potrebbe all’opposto far concludere che il legislatore abbia consapevolmente omesso tale riferimento, intendendo estendere sotto questo profilo l’ambito applicativo della fattispecie incriminata.
Infatti, nell’attuale formulazione nessun dato testuale allude al carattere pubblicistico dell’autorità di cui l’autore del reato abusa[5].
La fattispecie sembra oggi totalmente ritagliata sul piano oggettivo e non già sul piano soggettivo. È infatti la modalità della condotta a svolgere una funzione di selezione tipizzante, a prescindere dalla qualifica pubblicistica o meno del soggetto agente. Tant’è che un atto sessuale commesso da un pubblico ufficiale con una persona sottoposta alla sua autorità, che sarebbe stato punibile ai sensi dell’abrogato art. 520 c.p., non potrebbe oggi essere punito ai sensi dell’art. 609-bis c.p. laddove il privato non sia stato a ciò costretto o indotto abusivamente ma, ad esempio, abbia anzi lui stesso sedotto l’ufficiale.
Inoltre, vari argomenti sistematici sembrerebbero proprio confermare come il termine “autorità”, non ulteriormente qualificato, alluda a situazioni non necessariamente colorate in senso pubblicistico. Oltre al già sopra richiamato art. 61 n. 11) c.p.[6], potrebbero altresì menzionarsi gli artt. 571 (abuso dei mezzi di correzione e disciplina) e 572 (maltrattamenti) c.p. ove parimenti si fa riferimento ad un rapporto di autorità che generalmente si ritiene non dover essere necessariamente pubblicistico[7]; o ancora l’art. 600-octies, comma 1, c.p. (impiego di minori nell’accattonaggio), ove ci si riferisce a minori sottoposti all’altrui autorità; o l’art. 601 c.p. (tratta di persone), in cui la cessione di autorità sulla persona sembra presa in considerazione in termini non certo giuspubblicistici.
Peraltro, la soluzione estensiva si presenta in linea con la ratio della norma incriminatrice, che è quella di tutelare la sfera di libertà sessuale della vittima rispetto a intrusioni da chiunque poste in essere con le specifiche modalità descritte.
Il nucleo di disvalore della condotta – e insieme il suo tratto distintivo rispetto alla fattispecie di atti sessuali con minori di cui all’art. 609-quater c.p. – viene posto sul dato della “costrizione” della vittima, dato che peraltro dev’essere ulteriormente connotato dalla modalità violenta o abusiva con cui il costringimento viene esercitato.
Negare che la condotta abusiva debba necessariamente avere ad oggetto poteri pubblicistici, pertanto, non significa consentire l’incriminazione a titolo di violenza sessuale di ogni atto sessuale commesso con qualsiasi abuso di potere, poiché occorre comunque accertare che l’abuso sia stato strumentale a costringere la vittima a compiere o subire quell’atto sessuale.
La condotta tipica costrittiva vale peraltro a differenziare questa ipotesi di violenza sessuale da quella prevista dal secondo comma del medesimo art. 609-bis c.p. Anche quest’ultima può consistere in una condotta di “abuso”, ma si differenzia in quanto si estrinseca in una “induzione” e non in una “costrizione” e in quanto ha ad oggetto non lo sfruttamento dell’autorità dell’agente, ma l’approfittamento delle condizioni di inferiorità della vittima[8].
Inoltre, il medesimo requisito della “costrizione” permette di distinguere il reato di violenza sessuale da quello di atti sessuali con minorenne di cui all’art. 609-quater c.p.
Da questo punto di vista, non sembra dunque potersi affermare che tanto più si estende il concetto di “abuso di autorità” rilevante ai fini dell’art. 609-bis c.p., ricomprendendovi anche l’autorità privatistica esercitata dai soggetti agenti cui fa riferimento l’art. 609-quater, tanto più il campo di applicazione di questo secondo reato per ciò solo si restringe. L’applicazione di questa seconda fattispecie, infatti, è e rimane confinata a quelle ipotesi in cui il particolare rapporto intercorrente tra l’agente e la vittima non sia scaturito in una condizione di “costrizione” del minore all’atto sessuale. Occorre cioè che l’atto del minore sia esplicitamente o implicitamente consenziente, sebbene quel consenso venga presunto invalido dall’ordinamento, in ragione della minore età del soggetto che lo presta. Invece, il consenso della vittima all’atto sessuale, ancorché violento, fa venire meno la tipicità del fatto di cui all’art. 609-bis, comma 1, c.p., giacché il costringimento sottende per definizione un’assenza di volontà.
In questo senso, l’individuazione del confine tra le fattispecie di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p. e di atti sessuali con minorenne di cui all’art. 609-quater c.p. ci sembra richiedere un rigoroso accertamento del requisito oggettivo della costrizione della vittima e della forma vincolata della condotta, ancor più e ancor prima che una selezione sul piano del tipo di autorità (pubblicistica o privatistica) esercitata dall’agente.
[1] Cass., sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 6982; Cass, sez. III, 19 giugno 2002, n. 32513; Cass., sez. III, 11 ottobre 2011 (dep. 2012), n. 2681.
[2] Cass., Sez. Un., 31 maggio 2000, n. 13.
[3] Cass., sez. III, 3 dicembre 2008 (dep. 2009), n. 2119; Cass., sez. III, n. 19419; Cass., sez. III, 10 aprile 2013, n. 37135; Cass., sez. III, 27 marzo 2014, n. 36704; Cass., sez. III, 30 aprile 2014, n. 49990; Cass., sez. III, 8 marzo 2016, n. 33042; Cass., sez. III, 17 maggio 2016, n. 33049.
[4] Definizione tratta dal vocabolario Treccani.
[5] Per un riferimento ai lavori preparatori che hanno condotto all’attuale formulazione della norma si rinvia a A. Cadoppi, Commento all’art. 609-bis, in Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, A. Cadoppi (a cura di), Cedam, 2016, p. 504 ss.
[6] Sul punto si segnala anche la recente sentenza Cass., sez. III, 24 gennaio 2019, n. 23463, secondo cui l’elemento dell’abuso di autorità derivante dal ruolo sacerdotale accompagna la commissione del reato di cui all’art. 609-bis c.p. e lo aggrava, ma non può certamente ritenersi da esso assorbito, trattandosi di un quid pluris, dotato del carattere della specialità, rispetto alla generale categoria dell’abuso di autorità, cui si riferisce l’art. 609-bis.
[7] Il fatto che all’art. 571 e all’art. 572 c.p. il concetto sottoposizione all’autorità si aggiunga a (e quindi si distingua da) quello di affidamento “per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte” potrebbe ritenersi argomento militante anche a favore dell’opposta tesi (“pubblicistica”), che vuole espungere dal concetto di autorità quelle situazioni di rapporto educativo tra insegnante e studente, come quella che viene in rilievo nel caso in esame. Eppure tale rilievo non ci pare sufficiente a suffragare la tesi “pubblicistica”. In primo luogo, infatti, è pressoché pacifico, ad esempio, che la norma voglia riferirsi anche e soprattutto ai casi di soggetto sottoposto all’autorità di un parente o comunque a una persona collocata nel contesto familiare privatistico. Inoltre, può rammentarsi come autorevole dottrina metta in luce che l’abuso di autorità cui fa riferimento l’art. 609-bis c.p. ha comunque un significato più ampio di quello attribuitogli dall’art. 571 c.p. e comprende la costrizione dei soggetti affidati per ragioni di educazione, cura, vigilanza, custodia, professione ed arte (in questo senso: F. Antolisei, Manuale di diritto penale – Parte speciale, I, 2016, p. 228).
[8] Esorbita invece dalla questione in esame il pur persistente problema dell’esatto discrimine tra costrizione mediante abuso di autorità e costrizione mediante violenza o minaccia: distinzione apparentemente agevole in astratto, ma in concreto ben più sfumata, anche in ragione dell’interpretazione assai estensiva che i concetti di minaccia e violenza assumono nella casistica giurisprudenziale in tema di violenza sessuale. Del resto in dottrina è stato osservato come la costrizione mediante abuso di autorità altro non sia che una forma di violenza morale: in questo senso l’espresso richiamo della legge accanto alla violenza e alla minaccia sarebbe stato inserito dal legislatore ad abundantiam, per eliminare possibili dubbi (così F. Antolisei, Manuale, cit., p. 228).