Cass., sez. III, sent. 25 giugno 2019 (dep. 16 dicembre 2019), n. 50774, Pres. Izzo, Est. Macrì
1. Con la sentenza che qui si commenta, la Corte di cassazione offre il destro per riflettere su alcune questioni – a dire il vero non nuove – legate al tema della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. La sequenza processuale è quella – tanto nota, quanto delicata – dell’overturning da proscioglimento a condanna[1], la cui disciplina è oggi consacrata nella fattispecie di cui al comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p.[2].
Prima di procedere all’esame dei profili giuridici più rilevanti sollevati dalla pronuncia in esame, conviene soffermarsi brevemente sulla vicenda da cui questa trae origine.
Il reato contestato è quello di violenza sessuale aggravata, nell’ipotesi accusatoria commesso dall’imputato in danno della nipote della moglie (che all’epoca dei fatti aveva sette anni). Nel 2014, all’esito del primo grado di giudizio, celebrato con le forme del rito abbreviato, il Tribunale di Reggio Emilia assolveva l’imputato. La sentenza veniva impugnata dal pubblico ministero, dal procuratore generale e dalla parte civile; il giudizio di secondo grado si concludeva nel 2018 con una pronuncia di condanna da parte della Corte d’Appello di Bologna[3].
L’imputato pertanto ricorreva per cassazione denunciando, per quanto qui rileva, un vizio di motivazione legato alla mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello[4], con riassunzione delle prove dichiarative e, nello specifico, delle dichiarazioni rese dai testimoni dell’accusa.
In particolare, l’imputato lamenta che la Corte territoriale avrebbe «diversamente valutato l’attendibilità dei testi d’accusa, le cui dichiarazioni erano state interpretate in conformità al racconto della minore e utilizzate quale riscontro della tesi accusatoria, quando invece il Tribunale le aveva valutate come prova dell’infondatezza dell’accusa» violando, in questo modo, le regole poste a tutela del rischio di una prima condanna in appello emessa sulla base di una mera rilettura delle carte.
La Corte di cassazione, accogliendo il motivo di ricorso, annulla la sentenza della Corte d’appello affermando, in maniera lapidaria, che in casi del genere, «in definitiva, il giudice d’appello non può pervenire ad una sentenza di condanna senza sentire la vittima, sia pure con tutte le cautele del caso»[5].
2. Occorre rilevare, in via del tutto preliminare, che dal testo della pronuncia in commento non emergono taluni elementi che sarebbero fondamentali al fine di comprendere non solo il caso di specie, ma anche la concreta portata della soluzione interpretativa offerta.
In primo luogo, si deve pensare – ma, appunto, non affiora con chiarezza dal testo della sentenza – che la persona offesa sia stata sentita con le forme dell’incidente probatorio durante la fase delle indagini preliminari[6].
Non è specificato, inoltre, se il primo giudizio sia stato celebrato con il rito abbreviato semplice o se vi siano stati – come sembra – episodi di integrazione probatoria[7].
In ogni caso – e tenuto conto degli elementi a disposizione – la questione principale da affrontare sembra doversi individuare nel rapporto che sussiste tra l’istituto della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello e la disciplina speciale di cui all’art. 190-bis c.p.p.
Sullo sfondo figurano, tuttavia, altre due tematiche, sulle quali si sono di recente pronunciate, rispettivamente, la Corte costituzionale[8] e le Sezioni unite della Corte di cassazione[9], per cui appare opportuno spendere qualche parola. La prima riguarda la compatibilità tra un giudizio celebrato in primo grado con le forme dell’abbreviato e l’istituto della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello; la seconda concerne l’applicazione della legge processuale nel tempo.
3. Volendo prendere le mosse da quest’ultima, sembra opportuno evidenziare come la vicenda processuale che ha dato origine alla pronuncia in commento si collochi a cavallo delle più recenti novità – giurisprudenziali e legislative – in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello.
In particolare, la sentenza di assoluzione risale al 2014, mentre quella di condanna emessa dal giudice di secondo grado è datata 9 maggio 2018. Il comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p. è stato introdotto con la l. 23 giugno 2017, n. 103 (in vigore dal 3 agosto 2017) e, quindi, nelle more del giudizio d’appello.
Le questioni relative all’applicazione della norma processuale nel tempo seguono – qualora il legislatore, come nel caso in esame, non intervenga con una specifica disciplina transitoria o intertemporale – il criterio tempus regit actum, in ragione del quale si dovranno applicare le norme in vigore nel momento in cui ogni singolo atto viene compiuto[10].
La nuova disciplina codicistica, pertanto, sembrerebbe pacificamente applicabile al caso di specie.
Dalla lettura della pronuncia in commento, invece, non solo non emergono richieste di rinnovazione istruttoria da parte del pubblico ministero (che ben avrebbero potuto essere avanzate tramite la presentazione di motivi nuovi), ma non si rinviene alcun riferimento al comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p. I giudici della III sezione si limitano a prendere in considerazione le pronunce delle Sezioni unite – e in particolare le motivazioni della sentenza Dasgupta[11] – senza però confrontarsi con il dato normativo in vigore, che impone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in caso di appello del pubblico ministero per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa.
L’assenza di un qualsivoglia richiamo alla nuova disciplina stupisce ancora di più se si ha riguardo a quanto di recente affermato dalle Sezioni Unite Pavan, proprio in tema di applicazione della legge processuale penale nel tempo. Giova qui ricordare che, in quel caso, la questione intertemporale risultava ancor più complessa, poiché la riforma interveniva nelle more del giudizio avanti alla Corte di cassazione. Ciò nonostante, con riferimento alla possibilità di applicare la nuova fattispecie ad un giudizio che aveva ad oggetto fatti anteriori all’entrata in vigore della l. n. 103 del 2017, si affermava che «la nuova regola non può non costituire l’ineludibile punto di riferimento per la soluzione dei casi controversi […] tanto più ove si consideri che era stata “anticipata”, a livello interpretativo, dalle sentenze Dasgupta e Patalano»[12].
Lascia perplessi, pertanto, la totale mancanza di riferimenti alla novella legislativa che, introdotta pendente il giudizio di appello del processo de quo, ben avrebbe potuto giocare un ruolo fondamentale tanto nella gestione del secondo grado di giudizio, quanto nell’esame in punto di diritto da parte della Corte di cassazione.
4. La seconda questione – sulla quale dottrina e giurisprudenza hanno inaugurato, a partire dalle Sezioni Unite Dasgupta, un vivace dibattito – attiene alla compatibilità tra la disciplina di cui all’art. 603 c.p.p. e il rito speciale disciplinato agli artt. 438 ss. c.p.p.
Le lacune sopra evidenziate, infatti, paiono poca cosa non appena si consideri che il giudizio di primo grado è stato celebrato con le forme del rito abbreviato, vale a dire allo stato degli atti, sulla base di elementi formati unilateralmente dalle parti (fatta eccezione per l’incidente probatorio) nella fase delle indagini preliminari.
In questa sede, appare possibile soltanto fissare le coordinate utili a orientare una riflessione su un tema così complesso. Punto di partenza è il quarto comma dell’art. 111 Cost., che detta la regola del contraddittorio nella formazione della prova. Del pari, si devono tenere in considerazione le eccezioni alla stessa previste dal quinto comma. In particolare, assume rilevanza quella relativa al consenso dell’imputato, poiché appare proprio questo il terreno su cui il legislatore ha costruito la disciplina del rito abbreviato, ove l’imputato, appunto, acconsente ad essere giudicato senza contraddittorio nella formazione della prova[13].
La regola di giudizio che il giudice deve applicare per prendere una decisione in ordine alla responsabilità penale dell’imputato risulta sempre la stessa ed è quella di cui all’art. 533 c.p.p.: «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio».
Certamente, il materiale su cui il giudice potrà fondare la propria decisione risulta diverso a seconda del rito con cui viene celebrato il primo grado di giudizio. Il giudizio ordinario, infatti, assicura materiale probatorio di qualità superiore, formato con le garanzie del contraddittorio per come delineato dal quarto comma della Costituzione e dal codice di rito. Viceversa, nel caso di giudizio abbreviato, l’imputato rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova e presta il consenso per essere giudicato sulla base di atti qualitativamente inferiori, poiché formati dalle parti senza contraddittorio in fase di indagine. Fatto sta che, in ogni caso, il giudice potrà emettere una sentenza di condanna solo a condizione che – a prescindere dalla qualità del materiale probatorio – la colpevolezza risulti provata al di là di ogni ragionevole dubbio.
Questo significa che il sistema tollera la possibilità che il dubbio ragionevole venga meno anche qualora difetti ogni episodio di contraddittorio. Affermare il contrario significherebbe inevitabilmente sostenere che il giudizio abbreviato non può concludersi con una sentenza di condanna.
A questo punto, però, sorge una domanda cui non sembra facile dare risposta. Sappiamo, perché le Sezioni unite ce lo ricordano da qualche anno, che di regola il giudice d’appello non può condannare l’imputato già prosciolto sulla base di una diversa valutazione dello stesso compendio probatorio che ha condotto il giudice di prime cure a pronunciare una sentenza di proscioglimento. Questo perché – sempre secondo quanto stabilito dalla Sezioni unite – è solo il contraddittorio, quale metodo per la formazione della prova, a costituire condizione per la legittimità di una sentenza di condanna: per oltrepassare il limite imposto dall’art. 533 c.p.p. è necessario che vi sia un contatto diretto tra il giudice (dell’appello) e la prova.
Ma allora, perché lo stesso problema non si pone con riferimento al primo grado di giudizio? Perché una sentenza di condanna emessa dal giudice dell’abbreviato può considerarsi legittima? Certo, la domanda è evidentemente provocatoria. La risposta sta – ed è scontato – nel quinto comma dell’art. 111 Cost., ossia nell’eccezione alla regola del contraddittorio prevista dalla Costituzione. Tuttavia, formulata in questi termini, delinea chiaramente l’esistenza di un conflitto tra l’interpretazione offerta dai giudici di Strasburgo (poi recepita dalla giurisprudenza e dal legislatore interni) e il sistema processuale, che ammette la possibilità di pronunciare una condanna in assenza di contraddittorio nella formazione della prova qualora vi sia il consenso dell’imputato[14].
I giudici della III Sezione – richiamando sul punto un orientamento che ormai potrebbe definirsi granitico – affermano che «mentre il ribaltamento della decisione in senso assolutorio, senza la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, è perfettamente in linea con la presunzione di innocenza dell'imputato, diversamente è a dirsi nell'ipotesi inversa, perché nell'ordinamento giuridico il giudice d'appello non ha un'autorevolezza maggiore del giudice di primo grado e può ribaltare la sua decisione di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento delle fonti dichiarative, solo a condizione che nel giudizio di appello si ripercorrano le medesime cadenze di acquisizione della prova del primo grado»[15]. Ma se il primo grado si è svolto, per consenso dell’imputato, con le forme del rito abbreviato? Le «cadenze di acquisizione della prova del primo grado» potrebbero anche imporre la rinnovazione solo nei limiti disegnanti dall’art. 441 comma 5 c.p.p., che trova il suo “omologo” in appello nella previsione di cui al terzo comma dell’art. 603 c.p.p.[16].
5. Si impone, ora, una riflessione con riferimento alla qualità del dichiarante.
Come anticipato, la questione che i giudici della III sezione vogliono affrontare concerne il rapporto tra la disciplina di cui all’art. 190-bis c.p.p. e l’istituto della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello. Da un lato, quindi, l’esigenza di limitare il diritto alla prova per evitare di sottoporre la persona offesa al rischio della c.d. vittimizzazione secondaria; dall’altro, la necessità di ripristinare le garanzie del contraddittorio per legittimare una pronuncia di condanna in appello nei confronti di un imputato già assolto in primo grado.
Occorre procedere con ordine.
La norma collocata nel Libro III, come noto, nasce con l’intento di limitare il diritto alla prova delle parti in tutti quei casi in cui, secondo una valutazione compiuta ex ante dal legislatore, è possibile per l’ordinamento rinunciare all’esame incrociato del testimone avanti al giudice chiamato a decidere, potendo quest’ultimo fondare il proprio convincimento sulla base delle dichiarazioni già rese in situazioni in cui il contraddittorio – seppur in maniera limitata – è garantito[17].
Per quanto qui di specifico interesse, quindi, l’esame della persona offesa minore degli anni sedici che ha già reso dichiarazioni in sede di incedente probatorio dovrebbe risultare ammissibile solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni, oppure qualora il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze.
Ci si pone, però, il problema di comprendere come declinare le limitazioni di cui all’art. 190-bis c.p.p. nell’ambito del giudizio di secondo grado, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa.
I giudici della III Sezione ricercano una soluzione nelle motivazioni della sentenza Dasgupta che, sul punto, ha affermato che in tema di rinnovazione non rileva la qualità soggettiva del dichiarante, che ben potrebbe essere chiamato a rendere dichiarazioni anche nell’ambito del secondo grado di giudizio. Nel caso in cui le dichiarazioni siano state rese da persona vulnerabile – precisa la stessa pronuncia – spetterà al giudice la valutazione in ordine alla necessità di sottoporla ad un ulteriore stress al fine di verificare l’attendibilità delle dichiarazioni già rese precedentemente[18].
La soluzione doveva però essere cercata nel dato normativo. Risulta difficile comprendere, come già evidenziato, la totale assenza di riferimenti al nuovo comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p. La questione, infatti, andava impostata diversamente, sulla base della normativa vigente.
Di conseguenza, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello deve ritenersi ancorata ai presupposti per essa previsti dall’art. 603 c.p.p., e i requisiti di ammissibilità della prova saranno plasmati sulla base di quanto stabilito all’art. 190-bis c.p.p. Ciò significa che, in casi analoghi a quello di specie, sarà il pubblico ministero a dover richiedere la rinnovazione nell’atto di appello, enunciando nei motivi le ragioni per cui ritiene che la dichiarazione vada valutata diversamente e – per superare il vaglio di ammissibilità imposto dall’art. 190-bis c.p.p. – quali siano le specifiche esigenze che la rendono necessaria.
Non è possibile affermare apoditticamente – come è stato fatto nella sentenza in commento – che il giudice dell’appello non può condannare un imputato già prosciolto senza risentire la vittima[19]. Ci sono, infatti, una serie di elementi di cui il giudice dovrà tenere conto per assumere una decisione in ordine alla rinnovazione. La stessa Corte di cassazione accoglie questa interpretazione nel momento in cui afferma che «la mancata rinnovazione nel giudizio di appello dell'esame testimoniale della vittima minorenne di reati sessuali, ascoltata dal giudice per le indagini preliminari nel corso di incidente probatorio, non contrasta con l'art. 6 della Convenzione EDU, in quanto tale norma, così come interpretata dalla Corte EDU, non riconosce all'accusato il diritto assoluto ad ottenere la comparizione dei testimoni davanti al tribunale, dovendo, invece, detto diritto essere limitato nel caso in cui occorra apprestare misure a protezione della vittima del reato, purché sia garantito il diritto di difesa attraverso la possibilità di contestare la testimonianza»[20].
6. Da ultimo, un breve riferimento al caso di specie. Pare che la questione di diritto sia stata costruita ad hoc, al fine di ricordare – quasi ce ne fosse bisogno – che la giurisprudenza della Corte di legittimità in tema di rinnovazione è granitica: risulta sempre necessario riassumere la fonte di prova dichiarativa nel caso di overturning da proscioglimento a condanna. Probabilmente, però, il vero nocciolo della vicenda risiede altrove.
La Corte territoriale, infatti, con riferimento alla necessità di riassumere le dichiarazioni della fonte vulnerabile, ha specificato che «non è apparso opportuno riascoltare la minore, sia perché il nuovo esame si sarebbe rivelato verosimilmente inutile, trattandosi di rievocare fatti ormai lontani nel tempo e sperabilmente rimossi, sia per tutelare il benessere psicofisico della minore che sarebbe stata costretta a riportare alla memoria ricordi spiacevoli, su temi imbarazzanti, sui quali, peraltro, aveva, a suo tempo, e in diverse occasioni e sedi, riferito».
Se il problema è – come si desume dalle motivazioni della sentenza in esame[21] – la diversa valutazione che il giudice di secondo grado offre delle dichiarazioni rese dagli altri testimoni d’accusa (nel caso di specie, i familiari della vittima vulnerabile), in rapporto alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, allora non si tratta di comprendere quale sia il rapporto tra l’art. 190-bis c.p.p. e l’art. 603 c.p.p, che così si risolve in un problema apparente. Al contrario, occorreva decidere – ed è un tema diverso – se in appello andasse, o meno, disposta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale con riferimento alle fonti di prova diverse dalla vittima. Queste, a ben vedere, non rientrano nelle categorie elencate all’art. 190-bis c.p.p. e, pertanto, il giudice dell’appello avrebbe potuto – e dovuto – disporre la rinnovazione ai sensi di quanto stabilito dall’art. 603 c.p.p.
[1] All’interno di una già vastissima bibliografia e per una puntuale ricostruzione della materia cfr. in particolare H. Belluta – L. Lupària, La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale fra leggi e giurisprudenza: punti fermi…e non, in G. Canzio-R. Bricchetti, Le impugnazioni penali, Giuffrè, 2019, p. 345 ss.; H. Belluta – L. Lupária, La parabola ascendente dell’istruttoria in appello nell’esegesi “formante” delle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., 3/2017, p. 160; M. Bargis, Le impugnazioni, in G. Conso - V. Grevi - M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, CEDAM, 2018, p. 930 ss. Una lettura in senso critico della novella legislativa è offerta da A. Capone, Appello del pubblico ministero e rinnovazione istruttoria, in M. Bargis – H. Belluta (a cura di), La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, Giappichelli, 2018, p. 53 ss.; V. Aiuti, Obbligo di rinnovazione e prova dichiarativa, in A. Marandola – T. Bene, La riforma della giustizia penale, Giuffrè, 2017, p. 243 ss.
[2] La ratio della novella – delineata dai giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo e poi sviluppata dalla giurisprudenza di legittimità – sembra riassumibile nei termini che seguono: per condannare in appello un imputato prosciolto in primo grado è preferibile ripristinare le garanzie derivanti dal metodo del contraddittorio nella formazione della prova, consentendo al giudice di avere con questa un contatto diretto, poiché solo in tal modo è possibile rispettare la regola dettata dall’art. 533 c.p.p., per cui il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. Quel che si vuole evitare è, in buona sostanza, che possa essere emessa una prima condanna in secondo grado sulla base di una diversa valutazione delle prove dichiarative, prove con cui il giudice dell’appello, tuttavia, non ha avuto alcun contatto diretto, essendosi basato esclusivamente sulla lettura dei verbali del grado precedente. Sul complesso iter che ha condotto all’introduzione del comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p. si veda, in particolare, M. Bargis, Primi rilievi sulle proposte di modifica in materia di impugnazioni nel recente d.d.l. governativo, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., 2015, 1, p. 4; Ead., I ritocchi alle modifiche in tema di impugnazioni nel testo del d.d.l. n. 2798 approvato dalla Camera dei Deputati, in Dir. pen. cont. (web), 19 ottobre 2015.
[3] L’indicazione degli anni rileva al fine di individuare correttamente la disciplina applicabile, soprattutto in relazione a quanto da ultimo stabilito dalle Sezioni Unite Pavan; v. infra § 3.
[4] Pur non rilevando ai fini della presente analisi, si rinvia alla parte in fatto della sentenza per l’indicazione degli ulteriori motivi per cui è presentato ricorso. In estrema sintesi, l’imputato lamenta, in primo luogo, un vizio riconducibile alla lett. e) dell’art. 606 c.p.p., affermando che il ragionamento del giudice di secondo grado sia «contraddittorio, illogico, in talune parti carente», in ogni caso inidoneo a sostenere l’«accertamento di responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio», nonché la violazione delle norme processuali. Il secondo motivo di ricorso, invece, concerne la violazione delle norme processuali relative alle modalità di ascolto della minore (a cui sarebbero state rivolte domande «caotiche» idonee, secondo la difesa dell’imputato a mettere «in difficoltà anche un adulto»), nonché un ulteriore vizio di motivazione dovuto all’omesso esame delle argomentazioni svolte dalla difesa in sede di enunciazione dei motivi di appello.
[5] Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 50774, § 3.4 del considerato in diritto.
[6] La sentenza in commento parla in modo generico di interrogatorio, ma è da escludere che la persona offesa possa esservi stata sottoposta. L’alternativa all’incidente probatorio potrebbero essere le sommarie informazioni assunte dal p.m. con l’ausilio di un esperto ai sensi dell’art. 362 c.p.p., ma anche questa opzione sembra potersi escludere perché, se così fosse, non si porrebbe un problema con riferimento all’art. 190-bis c.p.p. che disciplina – per quanto qui di rilievo – l’esame del minore degli anni diciotto o della persona offesa in condizioni di particolare vulnerabilità nel caso in cui costoro abbiano «già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti a norma dell’articolo 238».
[7] Si parla, in particolare, di una perizia; cfr. Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 50774, § 2 del ritenuto in fatto.
[8] Il riferimento è a Corte cost., sent. 20 marzo 2019, n. 124. Per un commento alla decisione della Consulta v. H. Belluta, Tra legge e giudice: la Corte costituzionale “approva” la nuova fisionomia della rinnovazione probatoria in appello, come interpretata dalle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont. (web), 17 giugno 2019. Sulle ragioni poste a fondamento della questione di legittimità cfr. S. Tesoriero, Il sindacato costituzionale sulla (ir)ragionevole estensione dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. al giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2018, p. 3374 ss.
[9] Cass., Sez. un., 28 gennaio 2019, n. 14426, Pavan, in Cass. pen., 2019, p. 3859 ss.
[10] Sul punto v., da ultimo, M. Daniele, La norma processuale penale, in Aa.Vv., Fondamenti di Procedura penale, CEDAM, 2019, p. 78 ss.
[11] Cass., Sez. Un., 28 aprile 2016, Dasgupta, in Cass. pen., 2016, p. 3203 ss.; nonché Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2017, Patalano, in Cass. pen., 2017, p. 2672 ss.; Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2017, P.G. in proc. Troise, in Dir. pen. cont. (web), 4 maggio 2018, e, da ultimo, Cass., Sez. un., 28 gennaio 2019, Pavan, cit.
[12] Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2019, Pavan, cit., § 2.6 del considerato in diritto. Sul punto cfr. G. Gaeta, Una declinazione esemplare della legalità europea in prospettiva intertemporale, in Arch. pen. (web), 1, 2019; G. Galluccio Mezio, La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello alla luce delle più recenti evoluzioni: un rimedio peggiore del male?, in Cass. pen., 2019, p. 1415 ss.
[13] G. Giostra, voce Contraddittorio (principio del) – II) Dir. proc. pen., in Enc. giur. Treccani, vol. VIII, agg. 2001, p. 1 ss.; O. Mazza, Contraddittorio (principio del), in Enc. dir., Annali, vol. VII, 2014, p. 270; D. Negri, La disciplina costituzionale, in Aa.Vv., Fondamenti di Procedura penale, cit., p. 140 ss
[14] Le Sezioni Unite hanno specificato che il contraddittorio in appello nel caso di overturning da proscioglimento a condanna – anche nel caso in cui il primo grado di giudizio sia stato celebrato con il rito abbreviato – costituisce una garanzia per l’imputato già prosciolto. Facendo perno sulla necessità di oltrepassare il limite dettato dall’art. 533 c.p.p., si afferma infatti che la presunzione di innocenza dell’imputato risulterebbe rafforzata dalla pronuncia di proscioglimento. Questo – sempre secondo le Sezioni Unite – costituirebbe elemento idoneo ad instillare nella mente del giudice un dubbio ragionevole, che potrà essere sciolto solo dall’esame diretto della fonte di prova. Cfr., in particolare, Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2017, Patalano, cit. Detto altrimenti, il consenso dell’imputato ad essere giudicato allo stato degli atti perde valore di fronte alla possibilità di una prima condanna in appello perché la presunzione di innocenza risulta in qualche misura avvalorata dal primo proscioglimento. La tesi, a prima vista convincente, sembra però cedere di fronte all’impossibilità di ritenere che la presunzione di innocenza possa essere toccata – in qualsiasi modo – da una pronuncia non definitiva. Così intesa, la garanzia costituzionale perderebbe la sua cifra normativa, che ne fa una tutela per l’imputato operante integralmente fino alla sentenza (di condanna) definitiva. Sul significato da attribuire alla presunzione di innocenza cfr., in particolare, G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Zanichelli, 1979, p. 20 ss.; R. Orlandi, Provvisoria esecuzione delle sentenze e presunzione di non colpevolezza, in Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Atti del Convegno di Foggia-Mattinata, 25-27 settembre 1998, Giuffrè, 2000, p. 123 ss. Sull’intangibilità della presunzione di innocenza e sulla impossibilità che essa venga in qualsiasi modo scalfita o modulata nel corso del procedimento penale v. F. Morelli, Le formule di proscioglimento, Giappichelli, 2014, p. 429 ss.
[15] Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 50774, § 3 del considerato in diritto, che richiama Cass., Sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, cit., § 8.1 del considerato in diritto.
[16] Sul punto, per un’ampia e puntuale riflessione, cfr. S. Tesoriero, Il sindacato costituzionale sulla (ir)ragionevole estensione dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. al giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2018, p. 3396 ss.
[17] L’art. 190-bis c.p.p. è stato introdotto nell’ordinamento ad opera della l. n. 306 del 1992 – e poi modificato più volte – con l’obiettivo di circoscrivere il diritto alla prova nell’ambito dei procedimenti per i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. In particolare, si stabilisce che per l’esame dei testimoni o degli imputati ex art. 210 c.p.p. nell’ambito di procedimenti di criminalità organizzata sono previsti criteri di ammissibilità più restrittivi rispetto a quelli ordinari. Il presupposto per l’applicazione di tale fattispecie è che tali soggetti abbiano già reso dichiarazioni a) in sede di incidente probatorio; b) in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, ovvero c) dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti a norma dell’art. 238 c.p.p. Il d.lgs. n. 212 del 2015 introduce nella fattispecie di cui all’art. 190-bis c.p.p. il nuovo comma 1-bis con cui si stabilisce che la stessa disciplina si applica anche nei procedimenti relativi a taluni delitti contro la persona, tra qui quelli di violenza sessuale, qualora l’esame richiesto riguardi un testimone minore degli anni sedici o, in ogni caso, una persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità. Sul punto cfr. A. Camon, Le prove, in Aa.Vv., Fondamenti di Procedura penale, cit., p. 287 ss.
[18] Nello specifico, Cass., Sez. Un., 28 aprile 2016, Dasgupta, cit., § 8.6 del considerato in diritto, ove si afferma che «anche per quanto riguarda, in particolare, la figura del soggetto vulnerabile (come per i minori, soprattutto se vittime di reati) non sussistono valide ragioni per ritenere inapplicabile la preclusione di un ribaltamento ex actis del giudizio assolutorio. Peraltro, in questa speciale situazione è rimessa al giudice la valutazione circa l'indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele, a un ulteriore stress al fine di saggiare la fondatezza dell'impugnazione proposta avverso la sentenza assolutoria». Con riferimento a questo specifico aspetto v. H. Belluta – L. Lupària, La parabola ascendente dell’istruttoria in appello nell’esegesi “formante” delle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., 3/2017, p. 161.
[19] Un’interpretazione di questo tenore è contraria non solo alle disposizioni codicistiche, ma anche ai principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite Dasgupta per come sopra richiamati, che affidano al giudice la valutazione in ordine all’opportunità, o meno, di disporre la rinnovazione.
[20] Cass., sez. III, 4 dicembre 2018, Salzano, in C.e.d. 275788. In questo senso, cfr. anche Cass., sez. III, 16 luglio 2018, n. 45556, in Cass. pen., 2019, p. 1172 ss., con nota di M.C. Amoroso, L'utilizzabilità delle dichiarazioni del minore vittima di abusi sessuali rese in sede di incidente probatorio in caso di ribaltamento in appello della sentenza assolutoria di primo grado; nonché Cass., sez. III, 14 giugno 2018, n. 47702, Tocci.
[21] Sul punto, la Corte territoriale osservava che «il ragionamento seguito dal primo giudice per pervenire alla pronuncia assolutoria presenta profili di assoluta criticità, con riguardo alla omessa/parziale valutazione di tutte le fonti di prova, talune delle quali totalmente ignorate, altre solo parzialmente considerate, al travisamento dei contenuti di talune di esse, alla mancanza di una puntuale disamina dell'attendibilità della minore alla luce delle conclusioni peritali e dei vari consulenti».