Cass. Sez. VI, 31. 01. 2019 (dep. 7. 06. 2019), n. 25390, Pres. Paoloni, Rel. De Amicis, ric. Gorbunova
1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte di Cassazione affronta funditus un tema classico della parte generale del diritto penale: la compatibilità dell’art. 117 c.p. con il principio costituzionale di colpevolezza (art. 27 Cost.). La sentenza si segnala in quanto la S.C., aderendo alle posizioni della dottrina e della giurisprudenza costituzionale, richiede, ai fini della modifica del titolo di reato, che la qualifica soggettiva dell’intaneus sia per l’extraneus in concreto conoscibile.
2. Come è noto, la disposizione codicistica prevede, nel caso di mutamento del titolo di reato a causa delle qualità personali dell’autore o del rapporto di questi con la persona offesa, che tale mutamento si verifichi anche rispetto al concorrente che ignori l’altrui qualifica soggettiva. La disposizione, configurata dai redattori del codice come un’ipotesi di responsabilità oggettiva, discendente dall’agire in un contesto illecito e giustificata sulla base della teoria della unitarietà del titolo di reato in capo a tutti i compartecipi, pone seri problemi di legittimità costituzionale in rapporto al principio di colpevolezza. La giurisprudenza di legittimità non ha avuto occasione di pronunciarsi, in anni recenti, sulla disciplina del concorso dell’estraneo nel reato proprio; il tema ha invece impegnato la dottrina e la giurisprudenza costituzionale, che sono da tempo favorevoli a una lettura ampia del principio di colpevolezza, e richiedono che tutti gli elementi del reato – ivi incluse le qualità personali del concorrente – siano ricollegabili all’autore da un nesso di natura psichica, rinvenibile nel dolo o nella colpa. Nella sentenza qui annotata, la Corte di cassazione annulla la decisione impugnata richiedendo al giudice del rinvio di accertare che le qualità personali dell’extraneus fossero, se non conosciute dall’agente, almeno conoscibili usando l’ordinaria diligenza, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.
3. Per cominciare, il fatto. Tizio, amministratore di sostegno di Caia, corrispondeva alla ricorrente, Sempronia, la somma di circa 20.000 euro, proveniente dal patrimonio di Caia, a titolo di retribuzione di un rapporto fittizio di lavoro domestico. Nel giudizio di merito, la Corte d’Appello di Genova, richiamandosi a una pacifica giurisprudenza, riconosceva nell’amministratore di sostegno un pubblico ufficiale, ritenendo quindi integrato il reato di peculato in capo a Tizio, appropriatosi di somme di denaro giacenti sul conto corrente della persona sottoposta ad amministrazione. Risultando provato che Sempronia aveva agito con la consapevolezza di appropriarsi di somme di denaro provenienti dal patrimonio di Caia, a lei corrisposte da Tizio, il quale di tali somme aveva la disponibilità, la Corte d’Appello di Genova ravvisava ex art. 117 c.p. un concorso nel delitto di peculato – e non già il meno grave reato di appropriazione indebita.
4. La ricorrente deduceva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 117 c.p. per contrasto con gli art. 3, 25 c.1 e 27 c.1 e c.3, sul presupposto che l’extraneus non sarebbe soggetto a una responsabilità personale, bensì di tipo oggettivo, dipendente dal solo fatto di essersi posto in una situazione di illiceità iniziale; invocava inoltre la mancata prova della colpa, in capo alla ricorrente, non essendo dimostrato che esistessero indici dai quali una persona diligente avrebbe potuto dedurre, in capo a Tizio, la qualifica di pubblico ufficiale; lamentava, infine, la carenza di motivazione circa la impossibilità di riqualificare il fatto come truffa o come appropriazione indebita.
5. In un'ampia e articolata motivazione, la sentenza in esame confronta anzitutto gli art. 117 e 110 c.p. sotto il profilo dell’elemento soggettivo: l’art. 110 c.p. prevede, nel caso di concorso di un estraneo in un reato proprio, il dolo del partecipe, ovvero la consapevolezza e volontà in capo allo stesso di commettere il fatto costitutivo del reato proprio, e quindi esige che il partecipe conosca la qualità soggettiva dell’autore del reato o i rapporti che questi abbia con la vittima. La S.C. ricorda come tale lettura, peraltro pacifica alla luce della disciplina generale in tema di concorso di persone nel reato, trovi conferma nell’art. 1081 cod. nav., in base al quale “fuori del caso regolato nell’art. 117 del codice penale, quando per l’esistenza di un reato previsto dal presente codice è richiesta una qualità personale, coloro che, senza rivestire tale qualità, sono concorsi nel reato, ne rispondono se hanno avuto conoscenza della qualità personale inerente al colpevole”. Come esplicitato dall’incipit dell’art. 1081 cod. nav., l’art. 117 c.p. rappresenta un'eccezione rispetto all'art. 110 c.p.: in deroga ai principi della partecipazione criminosa e della imputazione dolosa, e in ossequio al diverso principio codicistico della unicità del titolo di responsabilità per tutti i compartecipi, l’art. 117 c.p. consente di riferire il titolo di reato proprio in capo all’extraneus che vi concorra, anche qualora questi ignori la qualifica soggettiva in capo all’autore principale. Si tratta di un’ipotesi di responsabilità oggettiva, corollario del principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu condiviso all’epoca della redazione del codice Rocco, che notoriamente pone oggi seri problemi di compatibilità con il principio di colpevolezza. Il delitto di peculato, oggetto della sentenza in esame, rappresenta un esempio “di scuola” del meccanismo previsto dall’art. 117 c.p.: l’extraneus che concorra con l’autore di peculato non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, risponderà di peculato – e non del meno grave reato di appropriazione indebita – ex art. 110 c.p. qualora conosca la qualifica soggettiva dell’intraneus, ma anche – per effetto dell’art. 117 c.p. - qualora ignori tale qualità. La Corte puntualizza che il mutamento del titolo di reato in capo all’extraneus si verifica solo qualora, accanto alla figura di reato proprio, esista una corrispondente figura di reato comune (è il caso, appunto, del peculato e della appropriazione indebita); il meccanismo previsto dall’art. 117 c.p. non vale, invece, a rendere penalmente rilevanti fatti che sarebbero altrimenti leciti.
6. La S.C. riconosce che difficilmente si potrebbe negare che l’art. 117 c.p. sia incompatibile con il principio di colpevolezza: alla luce di tale principio, l’ignoranza incolpevole della qualità soggettiva dell’intraneus escluderebbe il mutamento del titolo di reato derivante dall’esistenza di tale qualità, in quanto l’inquadramento di un medesimo fatto all’interno di una fattispecie di reato più grave dipende proprio dal possesso di una condizione personale, che attribuisce a quel fatto maggiore disvalore. L’orientamento consolidato della Corte costituzionale (inaugurato con le storiche sentenze 364 e 1085 del 1988) attribuisce infatti al principio di colpevolezza una finalità comune a quelli di legalità e irretroattività della legge penale: l’espressione “responsabilità personale” prevista dall’art. 27 Cost. esprime la necessità di consentire ai cittadini libere scelte d’azione, sulla base di una valutazione anticipata (“calcolabilità”) delle conseguenze giuridico-penali delle proprie condotte, e di garantire agli stessi che non saranno chiamati a rispondere penalmente di comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze giuridicamente vietate. Tale lettura è imposta anche dal principio rieducativo della pena: non ha senso rieducare chi non versi nemmeno in colpa rispetto al fatto realizzato. Il principio di legalità, riletto attraverso la lente della colpevolezza, pone un limite al legislatore ordinario, il quale non può prevedere norme che attribuiscano la responsabilità penale per fatti rispetto ai quali l’agente non versi almeno in colpa; al medesimo criterio dovrà ispirarsi il giudice nella lettura e nell’applicazione delle disposizioni vigenti. Dopo le storiche sentenze del 1988, anche la dottrina si è assestata su posizioni favorevoli a rimodellare l’art. 117 alla luce del principio di colpevolezza, richiedendo che l’ignoranza del concorrente estraneo circa le condizioni personali dell’intraneus sia colpevole [1]. Aderendo alle conclusioni formulate dalla Corte costituzionale e dalla manualistica, nel caso qui in esame la Cassazione conclude che ogni elemento del reato deve essere soggettivamente collegabile all’agente, ovvero investito dal dolo o dalla colpa; non fanno eccezione le qualità personali dell’autore di reato proprio, le quali dovranno essere almeno conoscibili per l’estraneo che abbia concorso nel reato proprio.
La Corte aggiunge, d'altra parte, che la configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva per il caso di incolpevole ignoranza della qualità personali dell’intraneus sarebbe incoerente col regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti previsto dall’art. 59 c.p., in base al quale tali circostanze possono essere applicate al reo solo se conosciute o ignorate per colpa. Anche per questa considerazione la S.C. sembra aver tenuto presenti le osservazioni di quella parte della dottrina che sosteneva che la modifica dell’art. 59 c.p. ad opera della L. n. 19/1990 comportasse la necessità di una rilettura dell’art. 117, come se richiedesse che la qualifica soggettiva dell’intraneus fosse conosciuta, ignorata per colpa o ritenuta inesistente per errore determinato da colpa [2]. Proprio l’art. 59 c.p. offre alla Corte un sicuro appiglio per superare le critiche relative alla divaricazione tra gli elementi che compongono il fatto di reato: in base alla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 117 c.p., il giudice sarebbe chiamato a ricercare la colpa per quanto riguarda la qualifica soggettiva dell’intraneus, e il dolo per tutti gli altri elementi del reato; tale procedimento non è nuovo, in quanto anche relativamente alle aggravanti il giudice è tenuto a dimostrare il dolo per gli elementi del reato base e la colpa rispetto alla circostanza.
7. Concludendo nel merito, la Corte non mette in dubbio che la condotta dell’amministratore di sostegno, pacificamente qualificato come pubblico ufficiale, il quale si appropri di somme giacenti sul conto corrente della persona amministrata, integri il reato di peculato. Altrettanto incontestata è la prova che la ricorrente fosse consapevole della provenienza del denaro dal patrimonio di Caia, e della disponibilità dello stesso in capo a Tizio. Indubbia, quindi, la realizzazione di una condotta di appropriazione indebita da parte della ricorrente, oggetto della presente decisione è l’applicabilità dell’art. 117 c.p., con la conseguente modifica del titolo di reato – da appropriazione indebita a peculato. Come precedentemente esposto, si tratta qui di accertare che esistessero indici attraverso i quali una persona diligente, al posto della ricorrente, avrebbe riconosciuto l'esistenza della qualifica di pubblico ufficiale in capo al concorrente. I giudici di merito avevano escluso la presenza di elementi sufficienti per ritenere che l’imputata fosse sicuramente a conoscenza della qualifica pubblicistica, di conseguenza estromettendo l’art. 110 c.p.; avevano invece ritenuto applicabile l’art. 117 c.p., e quindi integrato in capo alla ricorrente il reato di peculato; nel fare ciò hanno però omesso – rileva la Cassazione – di accertare se, in base alle circostanze del caso concreto, la qualifica di pubblico ufficiale in capo al ricorrente fosse dall’imputata concretamente conoscibile. La Corte ha così annullato con rinvio la decisione della Corte d’Appello, mostrando di fare sul serio con il principio di colpevolezza.
[1] Si vedano, tra gli altri, M. Pelissero, Il concorso nel reato proprio, Milano, 2004, p. 60 ss., G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2019, p. 536 e G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, p. 549.
[2] F. Ramacci, Corso di diritto penale, Torino, 2017, p. 525 sostiene che le condizioni personali dell’autore principale possano essere considerate, per l’estraneo, come aggravanti del reato non-proprio che, in loro assenza, sarebbe stato commesso.