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06 Maggio 2020


La (imperfetta) sovrapponibilità della giurisdizione per le persone fisiche e per gli enti stranieri: riflessioni a margine di una sentenza della Cassazione sull'art. 4 d.lgs. 231/2001

Cass., Sez. VI, sent. 7 aprile 2020 (dep. 7 aprile 2020), n. 11626, Pres. Calvanese, Est. Bassi



1. Introduzione. – La recente sentenza della Cassazione Penale, sezione VI, 7 aprile 2020 n. 11626 offre l'occasione di svolgere alcune riflessioni sul tema dell'applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 a società ed enti di diritto straniero.

 

La sentenza citata merita attenzione sotto un duplice profilo: assume una posizione netta su un aspetto sul quale il testo del d.lgs. n. 231/2001 rimane silente ed, al contempo, sembrerebbe sdoganare una lettura (forse eccessivamente) estensiva di quanto testualmente disposto dal decreto stesso.  

 

Infatti, in primo luogo ed in modo esplicito, la Suprema Corte con la sentenza in commento avalla l'orientamento emerso fra le corti di merito e conferma – nel silenzio del d.lgs. n. 231/2001 – l'applicabilità della normativa de qua agli enti di diritto straniero, in caso di reato presupposto commesso in territorio italiano. In secondo luogo, l'iter argomentativo seguito e le scelte lessicali adottate dai Giudici della VI sezione parrebbero volersi spingere oltre, quasi ad enunciare un principio di portata generale capace di ricomprendere anche le ipotesi di reato  presupposto commesso all'estero, ma comunque attratto dalla giurisdizione italiana, di cui all'art. 4 d.lgs. n. 231/2001.

Per cogliere le potenziali implicazioni dell'ultimo arresto della Cassazione occorre analiticamente esaminarne il percorso argomentativo, ponendolo in rapporto con la già esistente, e per vero assai scarna, giurisprudenza in materia.

 

2. Sull'applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 in caso di reato presupposto commesso in Italia. – Come noto, gli enti ricorrenti, fra cui la società di diritto olandese Boskalis International BV, erano imputati, ai sensi dell'art. 25 d.lgs. n. 231/2001, per fatti corruttivi commessi in Roma, tra il settembre del 2001 ed i primi mesi del 2004, da parte di soggetti che rivestivano al tempo funzioni di rappresentanza all'interno delle società.

Con specifico motivo di ricorso, veniva lamentato l'erroneo riconoscimento della giurisdizione dell'Autorità Giudiziaria italiana, trattandosi di condotte commesse in Italia da parte di società aventi sede principale all'estero. A sostegno della propria doglianza, i ricorrenti argomentavano che non fosse possibile "muovere un rimprovero all'ente derivante da una "colpa di organizzazione" se non nel luogo ove esso abbia il suo centro decisionale"[1], con la conseguenza che – non avendo gli enti imputati una effettiva operatività sul territorio italiano, dove svolgevano unicamente un'attività prettamente formale – la giurisdizione per l'accertamento dovesse essere radicata all'estero, ove si era verificata la lacuna organizzativa.

I Giudici di legittimità respingevano il motivo di ricorso, ritenendolo manifestamente infondato, sulla base di una interpretazione sistematica delle norme del decreto sulla responsabilità da reato degli enti.

Due sono gli elementi posti dalla Corte alla base del proprio ragionamento. Innanzitutto, viene premesso che l'art. 1, co. 2, d.lgs. n. 231/2001 definisce l'ambito applicativo delle norme del decreto senza delineare alcuna distinzione fra enti eventi sede in Italia e enti aventi sede all'estero. In secondo luogo, viene precisato che le disposizioni del decreto in parola danno luogo ad una forma di responsabilità che è sì autonoma, ma pure "derivata dal reato, di tal che la giurisdizione va apprezzata rispetto al reato-presupposto"[2].

Tale ultimo assunto trova inoltre conferma, secondo la Suprema Corte, nel disposto dell'art. 4 d.lgs. n. 231/2001 che, come noto, assoggetta alla disciplina de qua gli enti aventi la sede principale in Italia in relazione ai reati commessi all'estero per i quali sussista giurisdizione italiana, e sempre che non proceda già lo Stato nel cui territorio è stato commesso il fatto. La sentenza dedica poche battute all'art. 4, sebbene proprio di tale norma, come si avrà modo di approfondire infra, la pronuncia in commento pare implicitamente dare una lettura in qualche modo rivoluzionaria.

Per quanto attiene al percorso argomentativo che si sta ricostruendo, in ogni caso, il citato art. 4 è richiamato al fine di dimostrare come, al pari delle persone fisiche, anche gli enti possano andare soggetti alla giurisdizione italiana in caso di reati commessi all'estero, salvo il limite del bis in idem internazionale.

Il principio di eguaglianza ed il conseguente divieto di ingiustificate disparità di trattamento fra situazioni comparabili è, infatti, il passaggio conclusivo dell'argomentazione motivata in sentenza. Riprendendo un passaggio della sentenza impugnata, la Suprema Corte ritiene che non vi sia "ragione alcuna per ritenere che le persone giuridiche siano soggette ad una disciplina speciale rispetto a quella vigente per le persone fisiche sì da sfuggire ai principi di obbligatorietà e di territorialità della legge penale"[3]. Come, infatti, l'art. 3 c.p. dispone che la legge penale italiana obbliga tutti coloro che si trovino nel territorio italiano, a prescindere dalla loro nazionalità, e fatte salve le eccezioni del diritto pubblico e del diritto internazionale, e l'art. 6, co. 1, c.p. dispone che il reato commesso nel territorio italiano è punito secondo la legge italiana, allo stesso modo un ente collettivo – abbia esso la propria sede principale in Italia o all'estero – deve andare soggetto alla normativa italiana – nel caso di specie il d.lgs. n. 231/2001 – nel caso in cui il reato presupposto sia commesso in territorio italiano.

Parallelamente, il principio di eguaglianza viene in rilievo anche con riferimento alla libertà di stabilimento di cui agli artt. 43 e 48 Trattato CE (oggi, rispettivamente, artt. 49 e 54 TFUE). Ribaltando la linea difensiva proposta dai ricorrenti, che avevano, al contrario, prospettato una violazione delle norme comunitarie nell'ipotesi di applicazione della normativa italiana alle imprese straniere, la Suprema Corte rileva che proprio l'inapplicabilità alle imprese straniere della disciplina della responsabilità da reato degli enti realizzerebbe una situazione di indebita alterazione della libera concorrenza rispetto alle società di diritto italiano.

A conclusione, quindi, del percorso logico-argomentativo sintetizzato, la Corte di Cassazione esprime il principio di diritto in termini estremamente ampi, richiamandosi espressamente, da ultimo, alla pronuncia del Tribunale di Lucca relativo alla vicenda dell'incidente ferroviario di Viareggio[4]: "la persona giuridica è chiamata a rispondere dell'illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale (…), in quanto l'ente è soggetto all'obbligo di osservare la legge italiana e, in particolare, quella penale, a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall'esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplinino in modo analogo la medesima materia"[5].

 

3. Sull'applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 agli enti stranieri in caso di reato presupposto commesso all'estero per il quale sussiste la giurisdizione italiana. – Come descritto, con la suddetta recente sentenza, la Suprema Corte pare confermare l'indirizzo, che già vantava qualche precedente nella giurisprudenza di merito[6], per il quale d.lgs. n. 231/2001 sarebbe applicabile agli enti stranieri in caso di commissione del reato presupposto in territorio italiano.

Allo stesso tempo, però, tra le righe delle argomentazioni poc'anzi richiamate, sembrerebbe potersi rintracciare una risposta dei Giudici di legittimità anche al quesito circa l'assoggettabilità degli enti stranieri alla disciplina italiana in caso di reato presupposto commesso all'estero e per il quale vi sia, però, giurisdizione dell'Autorità Giudiziaria italiana.

Come già accennato, l'ipotesi del reato presupposto commesso all'estero è espressamente disciplinata dall'art. 4 d.lgs. n. 231/2001, che richiama a sua volta i casi e le condizioni di cui agli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p. L'art. 4, tuttavia, non sembrerebbe disegnare un semplice parallelismo fra le norme che regolano la giurisdizione per le persone fisiche e quelle relative agli enti. Ai sensi della norma citata, infatti, solo gli enti aventi nel territorio dello Stato la propria sede principale sarebbero soggetti al regime di responsabilità amministrativa discendente da reato presupposto commesso all'estero. La ragione di tale scelta operata dal Legislatore è di tutta evidenza: nelle ipotesi di reato consumate interamente all'estero, sarebbe, infatti, non esigibile, da un punto di vista logico prima ancora che giuridico, che una società priva di qualsivoglia legame con il territorio italiano – ossia sprovvista sia di una sede in Italia, sia di una pur minima operatività nel Paese – si adegui alla normativa italiana sulla responsabilità da reato e ponga in essere gli adempimenti di compliance richiesti in conformità al d.lgs. n. 231/2001.

Ciò che sembra emergere dalla lettura delle norme è, quindi, una non perfetta sovrapponibilità delle condizioni in presenza delle quali sussiste giurisdizione dell'Autorità Giudiziaria italiana per le persone fisiche e per gli enti.

La perfetta sovrapponibilità dei due ambiti giurisdizionali, al contrario, sembra proprio ciò che è dato desumere dalla lettura della sentenza della Corte di Cassazione depositata lo scorso 7 aprile. La Suprema Corte, infatti, esprimendosi in modo lievemente differente dai precedenti di merito che pure richiama, costruisce il principio di applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 agli enti di diritto straniero non tanto in base al locus commissi delicti, ma in base alla sussistenza – in senso generale – della giurisdizione dell'Autorità Giudiziaria italiana, quindi, come detto, a prescindere dal luogo di consumazione del reato presupposto (nel territorio dello Stato od all'estero), nonché dal luogo ove l'ente (straniero) possa avere la propria sede principale.

È eloquente, a questo proposito, la sentenza in commento laddove stabilisce doversi ritenere "che l'ente risponda, al pari di "chiunque" – cioè di una qualunque persona fisica –, degli effetti della propria "condotta", a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove si trova la sua sede principale o esplica in via preminente la propria operatività, qualora il reato-presupposto sia stato commesso sul territorio nazionale (o debba comunque ritenersi commesso in Italia o si versi in talune delle ipotesi nelle quali sussiste la giurisdizione nazionale anche in caso di reato commesso all'estero), all'ovvia condizione che siano integrati gli ulteriori criteri di imputazione della responsabilità ex artt. 5 e seguenti d.lgs. n. 231/2001"[7].

Tale lettura non può non destare sorpresa, risultando de facto obliterato il requisito della sede principale dell'ente nel territorio dello Stato espresso testualmente dall'art. 4, ed evidentemente non ricompreso fra quegli ulteriori criteri di imputazione della responsabilità di cui agli artt. 5 e seguenti richiamati dalla sentenza. D'altra parte, assumendo la descritta posizione, la Suprema Corte sembra porsi in rapporto dialettico con i rari precedenti giurisprudenziali che si rintracciano sul tema.

In primo luogo è interessante analizzare come il Tribunale di Lucca, prima, e la Corte di Appello di Firenze, poi, abbiano affrontato la problematica con riferimento alla nota vicenda dell'incidente ferroviario di Viareggio. Come emerge dalla lettura delle pronunce richiamate, tuttavia, in entrambi i casi i giudici si esprimevano in termini strettamente aderenti alla fattispecie concreta posta alla loro attenzione, in cui il reato presupposto risultava pacificamente commesso nel territorio italiano, senza aprire a possibili interpretazioni di più ampia portata del principio di diritto da essi stabilito.

Il Tribunale di Lucca, in particolare, riteneva che la circostanza che un ente fosse costituito secondo norme di diritto straniero non limitasse in via di principio la giurisdizione del giudice italiano, "la quale ultima trova barriera nel solo fatto che l'ente non abbia operato in Italia ed il reato non sia, pertanto, perseguibile in Italia"[8]. Ancora più precisamente, la Corte di Appello di Firenze, nell'argomentare come l'ambito di applicazione del d.lgs. n. 231/2001 sia dato dal luogo di consumazione del reato presupposto e non dal luogo in cui si trova la sede della persona giuridica imputata, precisava che "quando il legislatore ha voluto escludere la sua applicabilità lo ha indicato chiaramente, nel comma 3 dello stesso art. 1 del decreto (…). Similmente l'art. 4 del decreto, che come detto disciplina i reati commessi all'estero, in tal caso limita l'applicabilità della responsabilità ad enti che abbiano nel territorio dello Stato la sede principale"[9].

I giudici toscani sembrano, quindi, aver sciolto il nodo circa l'applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 agli enti aventi sede principale all'estero adottando una prospettiva innovativa ma, al contempo, aderente a quei cenni di disciplina espressamente contenuti nel corpo del decreto. Se infatti giungono, con argomentazioni logico-sistematiche, ad affermare che gli enti stranieri sono assoggettabili alla disciplina nazionale qualora operino in Italia – aspetto sul quale il dibattito dottrinale era acceso – nondimeno essi mostrano di tenere fermo il limite della commissione, almeno in parte, del reato presupposto sul territorio italiano.

Nello stesso senso si era espresso, anni prima, il Giudice per le indagini preliminari di Milano pronunciandosi in materia cautelare. Infatti, in un obiter dictum del decreto motivato con il quale disponeva la misura del sequestro preventivo, il Giudice meneghino si pronunciava sull'applicabilità delle disposizioni del d.lgs. n. 231/2001 nei confronti delle persone giuridiche aventi sede all'estero, facendo notare che "l'art. 36 attribuisce la competenza a decidere sulla responsabilità amministrativa dell'ente all'A.G. del luogo ove viene commesso il reato presupposto, indipendentemente dal luogo ove ha sede l'ente, sia esso in Italia che all'estero. Differentemente, l'art. 4 prevede in caso di reato commesso all'estero l'applicabilità della normativa esclusivamente all'ente avente la sede principale in Italia"[10].

A fungere da contraltare dialettico degli arresti richiamati vi sono, tuttavia, due pronunce del Tribunale di Trani che, nell'ambito della stessa vicenda processuale, era stato chiamato ad esprimersi sulla specifica eccezione di carenza di giurisdizione sollevata dalle difese. La lettura che, in questo caso, veniva data alle norme del d.lgs. n. 231/2001 si distanzia da quella fornita dalle altre corti di merito e, se vista dalla prospettiva della soluzione raggiunta, sembra in qualche modo anticipare quella offerta dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 11626/2020.

Osservava, in primo luogo, il Giudice dell'Udienza Preliminare di Trani che "l'art. 1 D.L.vo 231/2001 prevede la responsabilità in capo agli enti senza distinzione di nazionalità. (…) Dall'art. 4 decreto citato emerge invece il principio per cui non è ammissibile la competenza del giudice italiano nei confronti degli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale (e a maggiore ragione della società con sede all'estero) per reati commessi all'estero "purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto"; quindi l'unica condizione di esclusione della competenza dell'A.G. italiana è che per i reati commessi all'estero sia già pendente un processo per gli stessi fatti"[11].

Nella lettura data dal GUP di Trani, quindi, versandosi nei casi di cui agli artt. 7 – 10 c.p., ogni ente – a prescindere dal luogo ove esso abbia stabilito la propria sede principale – sarebbe soggetto alla giurisdizione italiana, fatta salva unicamente l'eccezione della litispendenza internazionale.

Sorvolando sulla assai dubbia condivisibilità del percorso interpretativo seguito dal GUP, secondo cui il requisito della sede dell'ente nel territorio italiano sarebbe un mero elemento "accidentale" della fattispecie ex art. 4, potendosi ritenere a fortiori confermata la giurisdizione italiana anche nei casi in cui l'ente abbia la propria sede all'estero, in fase dibattimentale il Tribunale di Trani in composizione collegiale perveniva al medesimo approdo, seppur attraverso argomenti di tutt'altra natura.

Premessi ampi cenni in merito alla natura della responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001 e sui criteri di imputazione dell'illecito agli enti, il Tribunale, pur riconoscendo che, in caso di reato presupposto commesso all'estero, dovesse trovare applicazione l'art. 4, con esclusivo riferimento agli enti aventi la sede principale in Italia, assumeva, tuttavia, che il medesimo art. 4 non troverebbe applicazione nei casi di riserva incondizionata di giurisdizione da parte dello Stato, come nell'ipotesi di manipolazione del mercato, caso di specie sottoposto all'esame dei Giudici[12].

L'ordinanza del Tribunale di Trani, richiamando anche alcuni passaggi della Relazione ministeriale al d.lgs. n. 231/2001 a testimonianza dell'orientamento della normativa in esame alla "sempre maggiore affermazione del principio di universalità"[13], concludeva pertanto che l'art. 4 d.lgs. n. 231/2001 "non può trovare applicazione nel caso di specie in cui ricorre una ipotesi di giurisdizione incondizionata ex artt. 7 n. 5 e 182 TUIF (secondo la regola fissata dal legislatore comunitario), in deroga al principio di territorialità (…) di talché in tutti i casi in cui sussiste giurisdizione dello Stato Italiano per il reato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente straniero dai soggetti indicati nell'art. 5 stesso D.lgs., lo Stato ha giurisdizione anche nei confronti dell'ente straniero per la sua autonoma responsabilità amministrativa"[14].      

Il Tribunale di Trani giustificava, quindi, il riconoscimento della giurisdizione italiana nei confronti dell'ente con sede all'estero attraverso una interessante e nuova linea argomentativa. Tuttavia, anche a tacere dei dubbi che potrebbero sorgere rispetto all'assunto secondo cui l'art. 182 TUF – concepito con riguardo al reato commesso da una persona fisica – possa radicare la giurisdizione italiana anche nel procedimento ex d.lgs. 231/2001, l'ordinanza citata sembra scontrarsi con l'ineludibile dato testuale. Non pare, infatti, convincente sostenere che l'art. 4 d.lgs. n. 231/2001 non possa trovare applicazione nei casi di giurisdizione incondizionata ex art. 7 c.p. e 182 TUF, dal momento che lo stesso articolo 4 circoscrive il proprio ambito applicativo a condizione – giova ricordarlo – che gli enti abbiano sede principale in Italia "nei casi e alle condizioni previste dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del codice penale"[15].

Ecco quindi che le due pronunce del Tribunale di Trani sembrano tratteggiare una perfetta sovrapponibilità della portata della giurisdizione dell'Autorità italiana nel processo nei confronti della persona fisica ed in quello de societate, – sovrapponibilità sempre operante nella visione offerta dal Giudice dell'Udienza Preliminare, limitata invece ai casi di giurisdizione incondizionata ex art. 7, n. 5) c.p. secondo l'interpretazione del Tribunale in composizione collegiale.

A una simile conclusione, con una totale parificazione del trattamento giuridico riservato a persone fisiche ed enti, sembra giungere – seppur implicitamente ed attraverso un percorso argomentativo ancora in tutto diverso – la sopra richiamata sentenza n. 11626 della Corte di Cassazione.

 

4. Conclusione. – Con la sentenza n. 11626 del 7 aprile 2020, la Corte di Cassazione ha avuto per la prima volta l'occasione di esprimersi sul delicato tema dell'applicabilità delle disposizioni del d.lgs. n. 231/2001 agli enti aventi sede all'estero.

Può, quindi, oggi dirsi consolidato l'orientamento, che già aveva preso piede nelle corti di merito, secondo cui la commissione del reato presupposto in territorio italiano radica la giurisdizione dell'Autorità Giudiziaria italiana non solo con riferimento alla persona fisica autrice del reato, ma anche con riferimento all'ente nel cui interesse o a vantaggio del quale tale reato è stato commesso, a nulla rilevando il fatto che quest'ultimo avesse la propria sede principale in un altro Paese, né che la legge di tale Paese non preveda oneri di carattere organizzativo-preventivo analoghi a quelli ex d.lgs. n. 231/2001.

Come visto, tuttavia, la sentenza della Suprema Corte apre anche a riflessioni relative all'applicabilità della normativa italiana agli enti di diritto straniero nei casi in cui il reato presupposto sia commesso all'estero. Ipotesi, questa, la cui rilevanza pratica è, a ben vedere, di non poca importanza. Basti pensare, ad esempio, alle diverse fattispecie criminose rilevanti ex d.lgs. n. 231/2001 che soddisfano il requisito edittale ex art. 9, co. 1, c.p., od anche – e soprattutto – ai reati di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato, che il Testo Unico della Finanza rende espressamente punibili anche se commessi all'estero, qualora attengano a strumenti finanziari negoziati in un mercato regolamentato italiano.

Sul punto, tanto l'art. 4 d.lgs. n. 231/2001, quanto le pronunce del Tribunale di Milano, del Tribunale di Lucca e della Corte di Appello di Firenze, paiono esprimersi in senso negativo, ritenendo soggetti alla disciplina nazionale, nei casi di cui agli artt. 7-10 c.p., solo gli enti aventi sede principale in Italia.

Di segno opposto è, invece, la posizione assunta dal Tribunale di Trani – unico, peraltro, fra quelli citati, a pronunciarsi in un caso in cui il reato presupposto veniva ritenuto come commesso interamente all'estero.

Nel detto panorama giurisprudenziale, la Suprema Corte, pur sempre adita in un caso in cui il reato presupposto era pacificamente stato commesso in territorio italiano, sembrerebbe implicitamente confermare quell'orientamento che vuole persone fisiche e persone giuridiche soggette ad un trattamento giuridico parificato, anche in punto di determinazione della giurisdizione.     

Non si può, in ogni caso, non notare che la dubbia compatibilità fra il tenore testuale dell'art. 4 d.lgs. 231/2001 ed il principio desumibile dalla sentenza della Corte di Cassazione e dalle pronunce di Trani faccia sorgere interrogativi che richiedono, oggi, un ulteriore intervento chiarificatore: nelle ipotesi di reato consumate interamente all'estero può davvero esigersi che una società priva di qualsivoglia legame con il territorio italiano si adegui alla normativa italiana sulla responsabilità da reato e ponga in essere gli adempimenti di compliance richiesti in conformità al d.lgs. n. 231/2001?

L'auspicio è che la Suprema Corte possa intervenire esplicitamente, ove una prossima vicenda processuale sottoposta al Suo giudizio lo consenta, gettando luce sull'interpretazione dell'art. 4 d.lgs. n. 231/2001 e sulla rilevanza o meno del luogo ove l'ente abbia situato la propria sede principale in ipotesi di reato consumato all'estero.

 

[1] Cass. pen. sez. VI, sent. 7 aprile 2020, n. 11626, pag. 6.

[2] Ibidem, pag. 14. A riprova del carattere di responsabilità "derivata" dal reato, la sentenza richiama l'art. 36 d.lgs. n. 231/2001, che come noto affida la competenza per gli illeciti amministrativi al giudice penale competente per i reati da cui essi derivano, nonché l'art. 38 dello stesso decreto, che esprime chiaramente un favor per la riunione dei due procedimenti.

[3] Ibidem, pag. 14, 15.

[4] Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222. 

[5] Cass. pen. sez. VI, sent. 7 aprile 2020, n. 11626, pag. 17.

[6] Trib. Milano, sez. GIP, ord. 27 aprile 2004; Trib. Milano, sez. GIP, ord. 13 giugno 2007; Trib. Milano, sez. IV penale, sentenza 4 febbraio 2013.

[7] Cass. pen. sez. VI, sent. 7 aprile 2020, n. 11626, pag. 15.

[8] Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222, pag. 979. 

[9] Corte app. Firenze, III sez. penale, sent. 16 dicembre 2019, n. 3733, pag. 804.

[10] Trib. Milano, sez. GIP, 23 aprile 2009, pag. 29.

[11] Tribunale di Trani, uff. GIP – GUP, ord. 22 maggio 2014, pag. 4, 5.

[12] D.lgs. n. 58/1998, art. 182, co. 1: "I reati e gli illeciti previsti dal presente titolo sono puniti secondo la legge italiana anche se commessi all'estero, qualora attengano a strumenti finanziari ammessi o per i quali è stata presentata una richiesta di ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o in un sistema multilaterale di negoziazione italiano, o a strumenti finanziari negoziati su un sistema organizzato di negoziazione italiano".

[13] Trib. Trani, sez. unica penale, ord. 24 settembre 2015, pag. 21, ove richiama la Relazione ministeriale al d.lgs. n. 231/2001 che, relativamente alle ipotesi di reato presupposto commesso all'estero, ex art. 4 decreto cit., recita: "Si è ritenuto che l'ipotesi, assai diffusa dal punto di vista criminologico, meritasse comunque l'affermazione della sanzionabilità dell'ente, al fine di evitare facili elusioni della normativa interna: e ciò anche al di fuori delle circoscritte ipotesi in cui la responsabilità dell'ente consegua alla commissione di reati per i quali l'art. 7 del codice penale prevede la punibilità incondizionata. L'opzione è oltretutto conforme al progressivo abbandono, nella legislazione internazionale, del principio di territorialità ed alla correlativa, sempre maggiore affermazione del principio di universalità (prova ne siano gli stessi atti ratificati nella legge 300/2000)".

[14] Ibidem, pag. 22.

[15] D.lgs. n. 231/2001, art. 4, co. 1.