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24 Novembre 2020


Al vaglio della Consulta la legittimità costituzionale dell’imposizione del regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis nei confronti del sottoposto alla misura di sicurezza detentiva

Cass., Sez. I, ord. 10 settembre 2020 (dep. 2 novembre 2020), n. 30408, Pres. Di Tomassi, Rel. Renoldi



1. Con l’ordinanza in epigrafe, la Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis co. 2 e 2-quater ord. penit. nella parte in cui consente l’applicazione del regime penitenziario ivi previsto nei confronti delle persone assoggettate a misura di sicurezza detentiva.

Ancora una volta, dunque, la Corte Costituzionale tornerà ad occuparsi del regime differenziato[1].

Al di là dei numeri esigui dei sottoposti al regime penitenziario descritto nell’art. 41-bis attualmente in esecuzione di una misura di sicurezza detentiva per soggetti imputabili, in particolare della casa di lavoro[2], la questione, non manifestamente infondata, secondo i giudici di legittimità, sulla base di plurimi parametri di riferimento – art. 3, 25, 27, 111 e 117 co. 1 Cost, quest’ultimo in relazione all’art. 7 Cedu e 4 prot. N. 7 Cedu – appare di peculiare significato, concernendo il perimetro soggettivo di applicazione del regime, ampliato, nel modo oggi posto in discussione, nell’ambito delle modifiche operate con l’art. 2 legge 23 dicembre 2002, n. 279, e sul quale non sono mancate negli anni vibrate critiche della dottrina[3].

 

2. Il caso sottoposto all’esame della S.C. – L’occasione dell’importante stimolo alla Corte Costituzionale nasce dal ricorso avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di sorveglianza di Roma che confermava la legittimità del decreto ministeriale di proroga del regime differenziato, formulato alla S.C. dalla difesa di un internato in casa di lavoro.

L’interessato vi era ristretto ormai a far data dal 2016, a seguito della declaratoria di abitualità nel delinquere emessa dal magistrato di sorveglianza di Milano, e dunque con provvedimento successivo alla sentenza di condanna, e della conseguente applicazione ex art. 203 cod. pen. di anni 2 di casa di lavoro, poi prorogati per due volte dal magistrato di sorveglianza di Udine, rispettivamente per due anni e, da ultimo, per un anno.

Il ricorrente, già condannato per gravi delitti di criminalità organizzata, aveva eseguito la sua pena in regime di 41-bis e, anche dopo il passaggio all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva, tale regime era rimasto in vigore.

Il Tribunale di sorveglianza di Roma, competente in via esclusiva a valutare la legittimità del provvedimento ministeriale di imposizione, anche in proroga, del regime differenziato, a dicembre 2019 aveva rigettato il reclamo proposto in favore dell’interessato, poiché valutava ancora sussistente il concreto pericolo che l’internato fosse in grado, ove non limitato dalle restrizioni proprie del 41-bis, di mantenere contatti con il gruppo criminale di riferimento, tenuto conto del suo spessore criminale e dell’operatività del clan sul territorio, dimostrata da varie indagini, pure confluite in ordinanze di custodia cautelare, emesse nei confronti di altri appartenenti al sodalizio mafioso.

Premessa al ricorso avverso tale ultimo provvedimento, è la questione di costituzionalità, poi fatta propria dalla S.C., ed essenzialmente vertente sulla distorsione che l’imposizione del regime determinerebbe sul contenuto della misura di sicurezza detentiva che, a causa delle limitazioni del 41-bis, finisce per essere una seconda pena, deprivata di contenuti risocializzanti, e per altro incerta nella durata, potenzialmente illimitata, poiché al momento dell’obbligatoria attualizzazione, l’interessato continua a vivere una quotidianità penitenziaria limitata al perimetro della propria camera detentiva, senza poter dare alcuna prova di evoluzione, privato della possibilità di lavorare a livello intramurario ed anche di accedere a misure extramurarie, come le licenze, ed esposto quindi alla certezza di una ulteriore inevitabile proroga.

Gli argomenti addotti dalla difesa non erano stati in grado di convincere il Tribunale di sorveglianza di Roma, che aveva giudicato la questione manifestamente infondata, poiché non gli apparivano evidenziati elementi realmente comprovanti una assoluta trasformazione della misura di sicurezza in pena, visto che risultava in concreto che l’internato aveva potuto svolgere l’attività lavorativa di ortolano presso la serra dell’istituto in un primo momento e lavori di pulizia nell’attualità.

 

3. Un percorso di lettura delle motivazioni dell’ordinanza di rimessione. – Mediante una ricostruzione che, pur sinteticamente, consente di ripercorrere l’evoluzione del doppio binario sanzionatorio nel nostro sistema penale, la S.C. si interroga sul complesso rapporto tra pene e misure di sicurezza, specialmente a fronte di uno statuto costituzionale della pena in cui la funzione rieducativa, rispetto a quelle di prevenzione generale e retributiva, ha acquisito saldamente un ruolo centrale ed indefettibile. Alla misura di sicurezza si continua invece ad assegnare una funzione specialpreventiva, tutta rivolta a contenere la pericolosità sociale attuale della persona, in rapporto al reato che ha commesso.

In entrambi i casi oggi dunque la risocializzazione, miglior antidoto alla recidiva nel delinquere, è al centro della scena, ma la struttura degli istituti fotografa le diverse modalità con le quali se ne persegue l’obbiettivo, con una convergenza di scopi che non si fa inutile doppione ma, ove necessaria, perspicua integrazione degli strumenti.

La misura di sicurezza della casa di lavoro, prevista per i soggetti imputabili, quindi, si sostanzia di interventi rieducativi intramurari, stimolati da varie figure professionali che operano nelle case di lavoro, a questo scopo per previsione normativa distinte dagli stabilimenti penitenziari in cui si eseguono le pene detentive, nonché di interventi di sostegno da parte dell’Ufficio di esecuzione penale esterna sul contesto familiare e socio-lavorativo, e ancora di sperimentazioni di reingresso nel contesto sociale, mediante le licenze finali di esperimento e una semilibertà che, a differenza che in rapporto all’esecuzione delle pene, può essere disposta in ogni tempo, e non solo dopo l’espiazione di una certa quota delle stesse.

Quando però la casa di lavoro è vissuta con la perdurante sottoposizione al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit., secondo la Cassazione, la fortissima compressione delle regole trattamentali plasma radicalmente, e perverte, la struttura della misura di sicurezza, imponendo la prosecuzione dell’identico regime già vissuto durante l’esecuzione penale (per altro, dopo la novella del 2009, l’art. 4-bis co. 2-quater impone che il regime sia costituito da un tessuto, assai denso, di restrizioni, che non ha margini di discrezionalità applicativa).

Ne deriva un dubbio di costituzionalità con riferimento agli art. 3 e 25 Cost., nonché 117 Cost in relazione all’art. 7 Cedu, ed infatti una misura di sicurezza così conformata finisce per ridursi alla sua sola componente afflittiva e per essere perciò, sostanzialmente, una pena, secondo i parametri che hanno già indotto la Corte Europea a censurare l’assimilabile istituto tedesco della Sicherungsverwahrung, poiché misura che, senza esserlo formalmente, finiva per avere contenuti del tutto sovrapponibili ad una pena[4].

La misura di sicurezza detentiva applicabile ai soggetti imputabili già segue l’esecuzione, in correlazione con il medesimo reato commesso, di una pena ed è perciò, ad avviso della S.C., non manifestamente infondata la questione, con riferimento anche agli art. 27 e 111 Cost. e art. 4 co. 1 Protocollo n. 7 CEDU, perché l’applicazione del regime differenziato in costanza di sottoposizione alla casa di lavoro comporta che la stessa perda la radicale differenza di modalità esecutive che sola le consentirebbe, “nello spazio giuridico europeo” di non incorrere in un bis in idem, come tale vietato, rispetto all’esecuzione della pena.

L’argomento si arricchisce, per altro, di considerazioni dirimenti circa gli effetti assai diversi che il regime di 41-bis comporta sulla pena e sulla misura di sicurezza.

La prima è determinata dalla sentenza definitiva, in ossequio al principio di proporzione in concreto, tenendo dunque conto del disvalore del fatto e della colpevolezza. La sottoposizione al regime differenziato in peius non può incidere sotto questo profilo in senso deteriore[5] e, se si determina fattualmente un effetto impediente rispetto alla eventuale concessione di benefici penitenziari extramurari, tenuto conto delle valutazioni sottese al decreto ministeriale impositivo del 41-bis, tuttavia residua il meccanismo di concessione della liberazione anticipata, che preserva all’autodeterminazione della persona e all’approntamento di un trattamento rieducativo intramurario un significato che non oblitera completamente l’art. 27 Cost.

Al contrario, ove il regime sia applicato a chi esegue una misura di sicurezza, ciò ha dirimenti conseguenze sul meccanismo di periodica verifica della persistenza della pericolosità sociale dell’internato, di modo che la proroga dell’uno determina la proroga dell’altro “secondo una relazione di reciproca interferenza”. In questo contesto, infatti, l’impossibilità fattuale di accedere a misure extramurarie, inibisce ogni significativo spazio residuo di sperimentazione dei comportamenti dell’internato, e contribuisce piuttosto a determinarne l’inevitabile reiterazione della proroga.

D’altra parte la Cassazione avvisa pure che questo meccanismo, contrario perciò agli art. 3 e 27 Cost., travalica il principio di proporzione, poiché la misura di sicurezza detentiva, nel caso specifico della casa di lavoro, finisce per dover essere prorogata ad libitum e, seppur soccorre l’insegnamento della Corte Costituzionale a mente del quale si ritiene di considerare ormai pacifico che tutte le misure di sicurezza detentive debbano trovare un limite massimo di durata, ove prorogate per il riconosciuto perdurare della pericolosità sociale dell’interessato[6], comunque ciò accade nel massimo edittale previsto in relazione al reato per il quale la misura è concessa e, in caso di dichiarazione di delinquenza abituale, secondo un meccanismo che proprio la giurisprudenza di legittimità, nel silenzio del legislatore, ha contribuito ad elaborare[7], nel massimo edittale per il più grave dei reati, pertanto almeno con una duplicazione del tempo di esecuzione della pena e, nella generalità dei casi, addirittura con una durata massima della misura di sicurezza superiore a quella della pena irrogata in concreto.

 

4. Una misura di sicurezza da restituire alla sua funzione. – La disamina densa di spunti che la Cassazione offre alla valutazione della Corte Costituzionale potrebbe dunque condurre i giudici della Consulta, nella prospettiva auspicata dal rimettente, ad una declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis nella parte in cui tale regime si ritiene applicabile anche a chi, terminata la pena, debba eseguire una misura di sicurezza di tipo detentivo.

Al di là di ogni riflessione, che comunque esula dai limitati scopi del presente spunto, sulla natura e l’attualità delle misure di sicurezza detentive nei confronti dei soggetti imputabili, rispetto alle quali, anche in un recente passato, il dibattito e i tentativi di riforma non sono mancati[8], con la questione di costituzionalità non viene posta in discussione la necessità di immaginare, ove si appalesino indici di pericolosità sociale attuale nei confronti di un condannato per gravissimi reati, quali certamente sono quelli presupposti all’applicazione del 41-bis, la sottoposizione, al termine della pena, ad una misura di sicurezza, sia pure detentiva. Viene invece stigmatizzato, con una consonanza di accenti significativa con quanto posto nitidamente in rilievo dal Garante Nazionale all’esito di una visita accurata dei luoghi di internamento in regime differenziato[9], l’effetto di distorsione sulla misura di sicurezza che il regime del 41-bis determina, privandola di quella funzione di sperimentazione progressiva verso la risocializzazione, che è peculiarmente connessa alla finalità specialpreventiva che la informa.

In questo quadro è appena il caso di ricordare come lo stesso art. 218 co. 2 cod. pen., laddove prevede che il giudice stabilisca se la misura di sicurezza debba essere eseguita in una colonia agricola o in una casa di lavoro, tenuto conto delle condizioni e attitudini della persona a cui il provvedimento si riferisce, rende esplicito ciò che già il nome evoca e cioè che tali misure vedono nella prestazione lavorativa il loro proprium e l’elemento essenziale necessario al giudice al fine di emettere un giudizio di diminuita o cessata pericolosità sociale, con conseguente trasformazione della misura in libertà vigilata oppure con la sua revoca[10].

Il regime differenziato, invece, decisamente incompatibile con la misura della colonia agricola, per sua natura tutta orientata al fuori le mura, almeno della propria camera detentiva, finisce per privare del suo significato anche la casa di lavoro, dove quest’ultimo è ridotto ad un simulacro che non può in ogni caso esorbitare l’esiguo tempo fuori stanza che è imposto dalle limitazioni del 41-bis e che è comunque pensato in termini assolutamente lontani da una prospettiva di utilità al reinserimento (meri lavori domestici o di cura, non continuativa, di un orto).

Se dunque non risulta a chi scrive che vi siano colonie agricole dove un internato in regime differenziato possa eseguire quella misura di sicurezza, eventualmente disposta in condanna nei suoi confronti, la casa di lavoro dove si concentrano i pochi che debbano eseguirla con le limitazioni del 41-bis è stata in passato oggetto di ampie critiche anche del Garante Nazionale[11], e sembra per altro caratterizzata ancora oggi, per gli esigui numeri di chi vi è ristretto, per un isolamento ancora più drammatico di quanto non accada nell’esecuzione della pena in tale regime. Com’è noto infatti il 41-bis prevede l’inserimento in gruppi di socialità composti al massimo da quattro persone, provenienti da aree geografiche diverse e collegate ad organizzazioni criminali distinte e non contrapposte, ma nella situazione attuale deve immaginarsi che i due piccoli gruppi esistenti nella casa di lavoro si attestino invece sulle due o al massimo tre unità ciascuna.

A fronte di una simile prosciugata quotidianità, neppure il meccanismo della liberazione anticipata consente di accorciare il tempo della privazione della libertà a fronte di un comportamento partecipativo rispetto al trattamento, perché la struttura della misura di sicurezza non prevede riduzioni di durata come accade per la pena determinata con la condanna definitiva, mentre i percorsi logico-motivazionali sottesi all’ordinanza di eventuale proroga o revoca della misura di sicurezza e al decreto ministeriale di proroga o revoca del regime differenziato corrono il rischio di ridursi ad argomenti che si rafforzano vicendevolmente, pur senza fondarsi necessariamente su elementi di novità, e dunque la necessità di prorogare il regime differenziato venga desunta dalla pericolosità sociale attuale ancora una volta dichiarata dal magistrato di sorveglianza, o sia colta la necessità di proseguire nell’esecuzione della misura di sicurezza, perché il decreto ministeriale ha prorogato ancora una volta il regime differenziato.

D’altra parte la fissità delle limitazioni oggi imposte dal disposto normativo del 41-bis, pur opportunamente varie volte emendate dalla Corte Costituzionale di quelle manifestamente non congrue agli scopi perseguiti dal regime[12], non consente, neppure al Ministro, alcuna modulazione che possa adattarsi alle differenti esigenze proprie dell’esecuzione penale e della misura di sicurezza, mentre sarebbe senz’altro necessario immaginare che quest’ultima fosse opportunamente restituita alla sua funzione di accompagnamento progressivo verso la risocializzazione, invece che spinta alla duplicazione della risposta sanzionatoria, come autorevolmente ricordato in dottrina, e oggi ribadito dalla Cassazione, ben al di là del principio di proporzione[13].

 

 

[1] Per una disamina sistematica degli interventi del Giudice delle leggi sul regime differenziato di cui all’art. 41-bis co. 2 ss. a far data dalla sua introduzione, vd. A. Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffré, 2016; per gli interventi più recenti e le questioni aperte vd. anche Dentro il 41-bis: riflessioni costituzionalmente orientate sul regime differenziato, fascicolo 2020, 1-bis, in Giur. Pen. Web.

[2] Nel Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (2016 – 2018) del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, pubblicato il 7 gennaio 2019, si parla di cinque internati, prima ristretti presso una sezione della Casa Circondariale di L’Aquila, poi trasferiti nei più adeguati spazi della Casa Circondariale di Tolmezzo, in entrambi i casi in sezioni apposite, ma all’interno di istituti penitenziari destinati ad ospitare detenuti in regime differenziato, e non in sistemazioni autonome e pensate per l’esecuzione di quelle misure, per come significativamente imposto dall’art. 2 della circolare del Dipartimento amministrazione penitenziaria in data 2 ottobre 2017, avente ad oggetto: “organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall'art.4l-bis O.P.”

[3] Cfr., sul punto, L. Cesaris, Art. 41-bis, in F. Della Casa – G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, 2019, p. 546, che evidenzia come le valutazioni concernenti l’esecuzione o la proroga della misura di sicurezza finiscano per motivare l’imposizione o la proroga del regime differenziato e viceversa. Vd. anche, nella medesima direzione, C. Fiorio, La stabilizzazione delle “caerceri-fortezza”: modifiche in materia di ordinamento penitenziario, in O. Mazza – F. Viganò (a cura di), Il “pacchetto sicurezza” 2009, 2009, p. 406.

[4] Cfr. CEDU sent. M. c. Germania, 17 dicembre 2009, che stigmatizza, tra l’altro, come la custodia di sicurezza tedesca, non si sostanzi di contenuti sensibilmente differenti da una pena e come il trattamento previsto per chi vi è sottoposto non sia in concreto volto a ridurne la pericolosità sociale, come invece dovrebbe.

[5] Cfr. Corte Cost. sent. 24 giugno - 28 luglio 1993 n. 349, che espressamente individua un limite ai contenuti del regime differenziato, che l’amministrazione poteva imporre allora con maggior discrezionalità, rispetto all’attuale formulazione del 41-bis, relativamente a misure incidenti sulla quantità e sulla qualità della pena, poiché le stesse “devono uniformarsi anche ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, cui l'esecuzione deve essere improntata; principi, questi ultimi, che a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo comma, e 3 della Costituzione (…) nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono (cfr. sentt. n. 299 del 1992 e n. 306 del 1993) - ed implicano anch'essi l'esercizio di una funzione esclusivamente propria dell'ordine giudiziario.”

[6] Cfr. Corte Cost. sent. 7 marzo – 13 aprile 2017, n. 83, in Dir. pen. cont. con commento di A. Della Bella, La Corte Costituzionale si pronuncia nuovamente sull’art. 35 ter o.p.: anche gli internati, oltre agli ergastolani, hanno diritto ai rimedi risarcitori in caso di detenzione inumana, 2 maggio 2017. La Consulta deduce il citato assunto dal fatto che l’art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81, ha disposto che “Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva [massima] prevista per il reato commesso”, derivandone quindi la possibilità per l’internato di ottenere il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord.penit. nella forma della riduzione della durata della misura. Nella stessa pronuncia per altro si afferma che “(è) però vero che mentre la durata della detenzione è predeterminata, e quindi è agevole fin dall’inizio ridurla in ragione dei giorni trascorsi dal detenuto in condizioni disumane, lo stesso non può dirsi per la misura di sicurezza, perché la sua durata non è predeterminata, ma dipende dal perdurare della pericolosità dell’internato. Il limite massimo stabilito dall’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014 infatti è meramente eventuale, dato che, per la cessazione della pericolosità, la misura di sicurezza generalmente viene revocata prima.” Un dato, quest’ultimo, che con notevole difficoltà può riscontrarsi quando alla casa di lavoro si giustapponga il regime differenziato.

[7] Cass. 13 giugno 2019, n. 41230 in CED n. 27750.

[9] Cfr. il Rapporto tematico, p. 6 – 8, che evidenzia lo stupore del Garante Nazionale circa la stessa esistenza di internati sottoposti al regime differenziato, per altro in alcuni casi, come quello che occupa l’ordinanza della cassazione, sulla base di una declaratoria di delinquenza abituale emessa successivamente alla sentenza di condanna, e dunque con frizioni, pure segnalate dalla S.C., con la giurisprudenza CEDU sul punto. Si aggiunge inoltre come, in alcuni casi “la pericolosità qualificata pronunciata nel corso dell’esecuzione di una condanna in tale regime ha avuto incidenza diretta sul prolungamento del regime stesso senza che né la misura né la sua modalità esecutiva inerissero al reato che aveva determinato la condanna e la sua speciale modalità esecutiva. Inoltre le reiterate proroghe della misura di sicurezza estendono illogicamente un determinato regime che di fatto allontana il ritorno al contesto sociale in condizioni di sicurezza”.

[10] Cfr. Mag. sorv. Udine ordinanza 23 maggio 2019, inedita, che ricostruisce in questi termini l’indefettibilità del lavoro per l’internato, in particolare quando contemporaneamente sottoposto al regime differenziato, tenuto conto delle ulteriori drastiche compressioni trattamentali, che ne fanno “l’unica opportunità per l’internato per offrire prova dei propri progressi nell’ambito del necessario percorso rieducativo”.

[11] Cfr., ancora, il Rapporto tematico cit., p. 6 circa la collocazione a L’Aquila e p. 7 circa la Casa di lavoro di Tolmezzo, in cui la possibilità di lavoro per la serra allora in funzione (non si hanno notizie circa l’attuale perdurante operatività di questo spazio, tenuto conto che l’ordinanza Magistrato di sorveglianza di Udine 23.05.2019, cit., già dava atto della avvenuta chiusura della serra, a lungo protrattasi per carenza di fondi per il ripristino, con un impegno dell’amministrazione a risolvere nel futuro l’inconveniente) si concretizzava per ciascun internato in tre ore a giorni alterni.

[12] Ci si riferisce in particolare alle sentenze Corte Cost. 20 giugno 2013, n. 143, in relazione ai limiti quantitativi ai colloqui e alle telefonate con i difensori, Corte Cost. 26 settembre 218, n. 186 sul divieto di cucinare cibi e Corte Cost. 5 maggio 2020, n. 97, in materia di divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità. Si tratta in tutti i casi di pronunce originate da questioni postesi nell’ambito di procedimenti, da ultimo svolti con le forme dell’art. 35-bis ord. penit., ai sensi dell’art. 69 co. 6 lett. b) ord. penit., dinanzi ai magistrati di sorveglianza competenti per territorio, e concernenti diritti asseritamente lesi dalle limitazioni imposte; compito rimesso ai magistrati di sorveglianza di particolare importanza, dopo la scomparsa della valutazione sulla congruità delle singole restrizioni del regime, intervenuta con la riforma del 2009, e in precedenza svolta, in sede di eventuale reclamo dell’interessato, dal Tribunale di sorveglianza (cfr. Corte Cost. 26 maggio 2010, n. 190).

[13] Cfr. sul punto l’ampia analisi di M. Pelissero, Il controllo dell’autore imputabile pericoloso nella prospettiva comparata. La rinascita delle misure di sicurezza custodiali, in Dir. pen. cont. 26 luglio 2011, che ravvisa il rischio che “il doppio binario si traduc(a) in uno strumento di aggravamento della risposta sanzionatoria al di là dei limiti della colpevolezza, in funzione di controllo della pericolosità sociale, senza che il principio di proporzione riesca a costituire un argine alle istanze preventive (…)”.