Cass., Sez. 6, sent. 6 maggio 2021 (dep. 10 maggio 2021), n. 18124, Pres. Bricchetti, est. De Amicis
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, co. 2, l. 22 aprile 2005, n. 69, come modificato dall’art. 15 d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, in relazione agli artt. 3 e 27, co. 3, Cost., nella parte in cui esclude dal beneficio del rifiuto facoltativo della consegna i cittadini di altro Stato membro dell’Unione Europea che non abbiano maturato una permanenza sul territorio italiano di almeno cinque anni, in quanto tale scelta non appare irrazionale, né lesiva del principio di eguaglianza, né contraria alle finalità di reinserimento sociale del condannato, come osservato dalla Corte di giustizia della Unione europea nella sentenza 6 ottobre 2009, Wolzenburg, C 123/08.
1. Con la decisione in rassegna, resa nell’ambito di una procedura concernente un mandato d’arresto europeo cd. esecutivo emesso dalla Romania nei confronti di un cittadino rumeno residente in Italia, la Corte di cassazione affronta tre problematiche – due delle quali prospettate sub specie di questioni di legittimità costituzionale – che scaturiscono dalle modifiche apportate dal decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10, alla legge 22 aprile 2005, n. 69[1].
La prima riguarda la disciplina transitoria e, in particolare, l’art. 28 del decreto secondo cui le nuove norme (talora meno favorevoli, come subito si dirà) non si applicano unicamente ai procedimenti nei quali, alla data dell’entrata in vigore (20 febbraio 2021), la corte di appello abbia già ricevuto il mandato d’arresto europeo o la persona richiesta in consegna sia stata già arrestata di iniziativa dalla polizia giudiziaria. Ciò significa a contrario che, allorquando non ricorra né l’una né l’altra di tali circostanze, le previsioni del decreto si applicano anche ai MAE “pregressi” e, quindi, ovviamente, anche ai fatti-reato consumati prima dell’entrata in vigore della riforma.
La seconda, di maggiore interesse, attiene invece al motivo di rifiuto facoltativo di cui all’art. 18-bis della legge, opponibile nei casi in cui la persona richiesta in consegna per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza detentiva sia un cittadino di altro Stato membro residente o dimorante in Italia, purché tale condizione risulti “legittima” ed “effettiva” e, secondo la nuova norma, perduri altresì “da almeno cinque anni”. Fermo restando che della pena o della misura di sicurezza occorre ancor oggi che sia possibile disporre l’esecuzione in Italia conformemente al diritto interno, si tratta – com’è evidente – di un requisito aggiuntivo e, dunque, come si accennava, d’una previsione di minor favore, che restringe l’ambito di tutela riconosciuto ai cittadini UE “radicati” sul nostro territorio.
L’ultimo profilo esaminato dalla Corte si ricollega, infine, al divieto di trattamenti disumani o degradanti, in relazione alla verifica di adeguatezza delle condizioni di detenzione assicurate nei penitenziari dello Stato di emissione. Il rischio della sottoposizione del ricercato a detti trattamenti era in precedenza espressamente previsto come motivo di rifiuto obbligatorio dalla lett. h) dell’art. 18 della legge n. 69, ma non viene ora riproposto nel nuovo testo della norma introdotto dall’art. 14 del decreto legislativo n. 10.
2. Sia la prima sia la terza questione risultano entrambe già affrontate in altra recentissima decisione, relativa a fattispecie analoga, oggetto di ampi richiami nella motivazione di quella in esame[2].
Quanto alla problematica relativa alla disciplina transitoria, deve anzi notarsi come, nella precedente pronuncia, essa venisse articolata in termini più ampi, dal momento che il ricorrente ne denunciava il contrasto, oltre che con l’art. 3 Cost. (sotto il profilo della cd. irragionevolezza intrinseca), anche con gli artt. 24 e 25 Cost. e 6 e 7 della Convenzione EDU.
In particolare, la violazione del principio di legalità veniva ravvisata nel fatto che, per come formulato, l’art. 28 del decreto «fa[cesse] discendere l’applicazione di una disciplina di minor favore da fattori occasionali e imprevedibili», quali – come visto – l’avvenuto arresto del ricercato o la ricezione del MAE ad opera della corte d’appello. La medesima considerazione, e cioè «la sostanziale imprevedibilità delle circostanze di fatto che determinano il momento in cui il m.a.e. viene eseguito o ricevuto dalla corte di appello», veniva posta a fondamento della questione sollevata con riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost.
In proposito, nel ricordare incidentalmente che – salvi i casi di manifesta irragionevolezza – è insindacabile la scelta discrezionale del legislatore sul «se introdurre una disciplina transitoria e come modularla», in entrambe le sentenze la Corte di cassazione ha osservato che «una diversità di trattamento tra fatti coevi […] rappresenta la fisiologica conseguenza del susseguirsi di normative diverse» e non è, dunque, in sé sufficiente a predicare la sussistenza d’una violazione dei princìpi di ragionevolezza e di parità di trattamento. Parimenti del tutto infondata risultava la censura basata sugli artt. 25 Cost. e 7 Convenzione EDU, incidendo le modifiche su norme di indubbia natura processuale (ovvero sulla disciplina dei presupposti e delle modalità della consegna), il cui avvicendarsi è, in linea generale, regolato dal principio del tempus regit actum senza che alcun problema di “legalità” abbia ragione di porsi[3].
In merito al rischio di sottoposizione della persona richiesta in consegna a trattamenti disumani o degradanti, in conseguenza delle condizioni di degrado in cui versano le carceri rumene, come già avvenuto nella sentenza Zlotea, come detto, è stata riconosciuta la «piena continuità normativa» tra il “vecchio” motivo di rifiuto previsto dall’art. 18, lett. h), e il “nuovo” art. 2 della legge n. 69, intitolato al Rispetto dei diritti fondamentali e garanzie costituzionali[4].
Perfettamente identica, nelle due decisioni, è infine l’affermazione secondo cui, pur a fronte dell’avvenuto “irrigidimento” – per effetto della riforma – delle scansioni temporali del procedimento di consegna[5], «deve ritenersi consentito il differimento della decisione e l’invio di richieste integrative volte ad accertare le specifiche condizioni di detenzione cui il consegnando verrebbe sottoposto»: ciò, naturalmente, in vista dell’attivazione del percorso interlocutorio tra autorità di emissione e autorità di esecuzione, ormai noto come test Aranyosi[6].
3. Venendo al profilo di maggior rilievo della pronuncia in esame, senz’altro da individuarsi in quello concernente il motivo di rifiuto di cui al novellato art. 18-bis, co. 2, della legge n. 69, deve subito premettersi che neanche in questo caso si è in presenza d’una novità “assoluta”, traendo la disposizione nazionale in realtà origine da una norma già da tempo adottata in altro ordinamento e, per quel che qui interessa, già vagliata dalla Corte di giustizia UE e, in un certo senso, anche dalla nostra Costituzionale.
In ogni caso, prima di approfondirne i contenuti, è utile ricostruirne brevemente il percorso evolutivo della disposizione e i tratti caratterizzanti.
3.1. La ratio della disposizione è quella di agevolare la persona che sia stata condannata ad una pena o misura restrittiva della libertà personale dalla giurisdizione di uno Stato membro nel mantenimento degli interessi affettivi, familiari, economici, lavorativi, culturali (o di altra natura) eventualmente intrattenuti in altro Stato membro, sì da favorirne il reinserimento sociale durante e dopo l’espiazione della pena.
In vista del raggiungimento di tale finalità, l’art. 4, punto 6 della decisione quadro 2002/584/GAI sul MAE legittimava il rifiuto del mandato di arresto europeo cd. esecutivo allorquando «la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso [la] pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno».
In ragione di quanto si dirà nel prosieguo, va ricordato come al medesimo fine mirasse anche un’altra previsione della decisione quadro, contenuta nell’art. 5, intitolato alle Garanzie che lo Stato emittente deve fornire in casi particolari, e riferibile all’ipotesi di mandato di arresto cd. processuale, emesso cioè «ai fini di un’azione penale».
In tal caso, quando la persona attinta dal MAE fosse cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione, la consegna poteva essere (non rifiutata, ma) «subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro emittente»[7].
3.2. In ambito nazionale, le due previsioni della decisione quadro trovavano implementazione negli artt. 18, lett. r), e, rispettivamente, 19, lett. c), della legge n. 69 del 2005.
La prima norma disponeva che la corte di appello dovesse rifiutare la consegna «se il mandato d'arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno»; la seconda che «se la persona oggetto del mandato d'arresto europeo ai fini di un'azione penale è cittadino o residente dello Stato italiano, la consegna è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione».
Il raffronto con le corrispondenti previsioni eurounitarie lasciava emergere con chiarezza due profili di difformità della disciplina domestica che, per un verso, configurava come obbligatori sia il rifiuto della consegna sia l’apposizione della «condizione di rientro», per altro verso circoscriveva la “protezione” unicamente ai MAE (esecutivi) emessi nei confronti dei cittadini italiani, escludendo per converso i cittadini di altri Stati membri o degli Stati terzi.
Come se non bastasse, la tutela prevista per i MAE processuali veniva riconosciuta nella massima estensione prevista dalla decisione quadro, e quindi a prescindere dalla nazionalità del ricercato: con il risultato, davvero curioso prim’ancora che pericolosamente asimmetrico sotto il profilo giuridico, che il non-cittadino “radicato” da lungo tempo in Italia era destinato a essere tout court consegnato allo Stato di emissione che l’avesse condannato, mentre, laddove fosse attinto da una misura cautelare, subiva uno “sradicamento” solo temporaneo, godendo comunque – all’esito del processo – del diritto di espiare nel nostro paese la pena eventualmente irrogatagli dalle autorità giudiziarie dello Stato di consegna.
3.3. Il descritto assetto normativo subiva un’importante evoluzione nel 2010, a seguito di un intervento additivo della Corte costituzionale, che dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, lett. r), «nella parte in cui non prevede[va] il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente a[vesse] residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno»[8].
Secondo la Corte, infatti, era fuori discussione che l’Italia, così come gli altri Stati membri, potesse liberamente determinarsi circa l’implementazione o meno del motivo di rifiuto in questione, trattandosi infatti di motivo solo facoltativo. Tuttavia, nell’avvalersi della prima opzione, avrebbe dovuto rispettare il divieto di discriminazione in base alla nazionalità sancito dall’art. 12 del TCE (ora art. 18 del TFUE), e dunque includere tra i beneficiari della norma, oltre ai cittadini italiani, anche quelli degli altri Stati membri legittimamente stabilitisi sul proprio territorio[9].
Non è evidentemente possibile, in questa sede, diffondersi sui molteplici ulteriori profili di interesse che la pronuncia del Giudice delle leggi presenta, a taluni dei quali si farà comunque brevemente cenno nel prosieguo.
Sia qui per il momento sufficiente notare come la Corte poté ripianare solo il secondo dei due problemi di compliance di cui s’è detto sopra, e – tra l’altro – solo in parte, dal momento che l’estensione di tutela risultante dalla sentenza interessava unicamente i cittadini degli altri Stati UE, e non anche quelli dei Paesi terzi[10].
3.4. Totalmente estraneo all’orizzonte della decisione della Corte rimaneva, altresì, il primo profilo critico, attinente – come notato – alla natura obbligatoria, anziché facoltativa, attribuita dalla norma interna tanto al motivo di rifiuto quanto alla «condizione di rientro» previsti a tutela del vasto ed eterogeneo fascio di interessi facenti capo al non-cittadino “radicato” in Italia.
Su tale aspetto è di recente intervenuto, a più riprese, il legislatore nazionale.
Alla fine del 2019, con la legge di delegazione europea per il 2018, la previsione dell’art. 18, lett. r), così come modificata dalla sentenza della Corte costituzionale, è stata “trasferita” alla lett. c) del nuovo art. 18-bis, intitolato ai motivi di rifiuto facoltativo della consegna[11].
Circa un anno e mezzo più tardi, con il decreto legislativo n. 10, emanato in attuazione della delega conferita dalla medesima legge, la disposizione è stata “ricollocata” al co. 2 dell’art. 18-bis, avendo il legislatore fatto confluire al co. 1 i motivi di rifiuto (anch’essi facoltativi) opponibili in caso di MAE processuale[12].
È in tale circostanza che al testo della norma viene apportata anche la modifica esaminata dalla Corte di cassazione nella pronuncia in esame, richiedendosi – come detto – che, ai fini dell’opponibilità del rifiuto, la condizione di «residente» o di «dimorante» del cittadino UE attinto dal MAE esecutivo, oltre che risultare legittima ed effettiva, si protragga «da almeno cinque anni».
4. Il giudice di legittimità ha ritenuto l’interpolazione del nuovo requisito immune dai vizi denunciati dal ricorrente, ricordando che – come segnalato nella Relazione illustrativa al decreto di riforma – «la modifica trae spunto da una previsione contemplata da tempo nella legislazione dei Paesi Bassi già positivamente vagliata dalla Corte di giustizia», essenzialmente volta a porre argine (per usare le parole impiegate dalla difesa governativa nel giudizio) alla «grande inventiva [dimostrata dagli interessati] al fine di provare l’esistenza di un collegamento con la società olandese».
Ed infatti nella pronuncia Wolzenburg del 2009, a suo tempo ampiamente tenuta presente anche dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 227 del 2010, la Grande camera aveva escluso che la norma in questione potesse essere considerata lesiva del principio di eguaglianza o contraria alla finalità di reinserimento sociale del condannato.
In proposito, s’era innanzitutto rilevato che, in linea di principio, per quanto «il motivo di non esecuzione facoltativa stabilito all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584, al pari dell’art. 5, punto 3, della stessa, mir[i] segnatamente a permettere di accordare una particolare importanza alla possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta scontata la pena cui essa è stata condannata […]», purtuttavia «tale scopo, anche se importante, non può escludere che gli Stati membri, nell’attuazione di detta decisione quadro, limitino, nel senso indicato dal principio fondamentale enunciato al suo art. 1, n. 2, le situazioni in cui dovrebbe essere possibile rifiutare di consegnare una persona rientrante nella sfera di applicazione di detto art. 4, punto 6»[13].
Nel merito della previsione, come in particolare sottolineato sempre nella Relazione illustrativa al decreto, il Giudice di Lussemburgo aveva anzi osservato come la scelta del legislatore olandese volta a circoscrivere l’opponibilità del motivo di rifiuto «rafforza[ss]e il sistema di consegna istituito da[lla] detta decisione quadro a favore di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia», poiché «agevola[va] la consegna delle persone ricercate, conformemente al principio del reciproco riconoscimento sancito dall’art. 1, n. 2, della decisione quadro 2002/584, il quale costituisce il principio fondamentale istituito da quest’ultima».
Era stato altresì espressamente escluso un possibile contrasto della norma con il principio di non discriminazione tra cittadini UE, e ciò in quanto, una volta individuata la ratio dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro – come detto – nell’accrescimento delle opportunità di reinserimento sociale del condannato, doveva considerarsi consentito allo Stato membro di esecuzione «perseguire siffatto obiettivo soltanto nei confronti delle persone che abbiano dimostrato un sicuro grado di inserimento nella società di detto Stato membro»: essendo, invece, del tutto chiaro che «un cittadino comunitario che non ha la cittadinanza dello Stato membro di esecuzione e non è risieduto ininterrottamente in detto Stato per un determinato periodo di tempo presenta, in genere, più collegamenti con il proprio Stato membro di origine che con la società dello Stato membro di esecuzione».
Validata la conclusione anche attraverso il consueto test di proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore nazionale, la Corte aveva condiviso anche due ulteriori interessanti rilievi articolati dal governo dei Paesi Bassi (e da quello austriaco, intervenuto nel giudizio), fondati l’uno sulla direttiva 2004/38 in tema di libera circolazione, l’altro sulla decisione quadro 2008/909 in materia di trasferimento dei condannati, strumenti che entrambi annettono particolare rilievo alla «condizione di un soggiorno ininterrotto per una durata di cinque anni»: la direttiva ai fini dell’acquisizione del «diritto di soggiorno permanente nello Stato membro ospitante»[14], la decisione quadro in vista della maggiore semplificazione della procedura di trasferimento dell’esecuzione della sentenza di condanna[15].
Come accennato, la sentenza del giudice dell’Unione sul caso Wolzenburg era stata richiamata in occasione dello scrutinio operato nel 2010 sull’art. 18, lett. r), dalla Corte costituzionale, che ad essa aveva fatto riferimento dapprima per ribadire che il divieto di discriminazione tra cittadini di cui all’art. 12 del Trattato CE (ora art. 18 TFUE) «pur essendo in linea di principio di diretta applicazione ed efficacia, non è dotato di una portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti»[16] e, in seguito, per rilevare come, diversamente da quanto era accaduto per la legge olandese di implementazione del MAE, la nostra disposizione interna «non opera[va] una limitazione alla parità di trattamento del cittadino di un altro Stato membro dell’Unione rispetto al cittadino italiano con riguardo, ad esempio, alla durata della residenza aut similia, ma esclude[va] radicalmente l’ipotesi che il cittadino di altro Stato membro possa beneficiare del rifiuto di consegna e dunque dell’esecuzione della pena in Italia»: il che, com’è chiaro, «si traduce[va] in una discriminazione soggettiva, del cittadino di altro Paese dell’Unione in quanto straniero, che, in difetto di una ragionevole giustificazione, non è proporzionata»[17].
Va dunque da sé, alla luce di tali precedenti, che la Corte di cassazione altro non potesse fare che dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento alla (per quanto detto, solo apparentemente) nuova disposizione di cui all’art. 18-bis, co. 2, della legge MAE.
5. La breve analisi svolta non sarebbe completa se non si facesse menzione di un’ultima problematica che, almeno a stare alle parole utilizzate dalla stessa Corte di legittimità nella sentenza in commento, è da considerarsi ancor oggi aperta, nonostante il generale riassetto della materia operato dal legislatore delegato.
Ed infatti, nell’approcciare la questione appena esaminata, la Corte è stata molto chiara nel premettere che il positivo giudizio di conformità costituzionale ed eurounitaria espresso sull’art. 18-bis non è da intendersi in senso (per così dire) assoluto, ma vale solo «fatta salva ogni considerazione relativa al diverso profilo che involge l’omessa previsione della posizione del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea».
In merito a tale profilo, infatti, sempre la sesta sezione della Corte, agli inizi del 2020, aveva prospettato un’articolata questione di legittimità costituzionale.
Al riguardo, va subito notato che, in realtà, sino ad epoca assai recente, la medesima sezione aveva ripetutamente escluso che il motivo di rifiuto in questione potesse essere applicato anche a favore dei cittadini di Stati terzi, pur se stabilmente radicati in Italia, dichiarando manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., sul presupposto che «la […] possibilità̀ di dare rilievo al radicamento sul territorio nazionale del cittadino comunitario si connett[e] strettamente al fascio di diritti e libertà che sono riconosciuti ai cittadini dell'Unione Europea dalle norme del Trattato sull'Unione Europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea [e] dagli atti normativi adottati in attuazione dei medesimi – con particolare riguardo alla libertà di stabilimento […]»[18].
Invece, come detto, secondo la nuova impostazione che la Corte ha da ultimo accolto nel rimettere gli atti alla Consulta nella primavera dello scorso anno, l’esclusione del cittadino extra-UE vulnererebbe molteplici parametri costituzionali, e segnatamente con gli artt. 3, 11, 27, co. 3, 2 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo richiamato – tra l’altro – anche in relazione al diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8, paragrafo 1, della Convenzione EDU e all’art. 17, par. 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, nonché all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione[19].
Per quanto qui di maggior interesse rilevare, a giudizio della Corte l’art. 18-bis, lett. c) della legge MAE (ora 18-bis, co. 2) sarebbe in contrasto con il canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. proprio in ragione della vistosa incongruenza in precedenza segnalata nell’esaminare l’assetto disciplinare derivante dall’applicazione dei “vecchi” artt. 18, lett. r), e 19, lett. c), in forza dei quali – come visto – il cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione, ove condannato in via definitiva, veniva senz’altro consegnato allo Stato di emissione per scontarvi la pena, mentre, se colpito da un MAE solo processuale (e cioè, in particolare, da una misura cautelare), era sì consegnato ma solo “a condizione” della sua successiva restituzione all’Italia per l’espiazione della pena eventualmente irrogata nei suoi confronti.
Il che, naturalmente, come notato anche dalla Corte di cassazione nell’ordinanza di rimessione, appare tanto più paradossale «in ragione del fatto che il residente gode di una tutela più ampia proprio nell’ipotesi in cui l’allentamento dei vincoli relazionali causato dalla consegna cd. “processuale” potrebbe di contro affievolire le capacità rieducative della pena»[20].
Ebbene, con l’art. 17 del recente decreto, il legislatore ha ritenuto che l’asimmetria potesse essere in realtà sanata intervenendo in una direzione esattamente opposta a quella indicata dal giudice di legittimità, e cioè escludendo i cittadini extra-UE anche dall’applicazione della “condizione di rientro” prevista dall’art. 19, il cui ambito operativo è stato quindi integralmente riallineato a quello del motivo di rifiuto di cui al nuovo art. 18-bis, co. 2 (e ciò, tra l’altro, anche quanto all’inserimento della “soglia quinquennale” introdotta per i cittadini UE residenti o dimoranti nel nostro paese)[21].
Per quanto non applicabili al caso di specie per effetto della già esaminata disciplina transitoria, tali modifiche sono state considerate dalla Corte costituzionale suscettibili di «incid[ere] così profondamente sull’ordito logico che sta alla base delle censure prospettate da rendere necessaria la restituzione degli atti al giudice a quo perché possa procedere alla rivalutazione della non manifesta infondatezza delle questioni […]»[22].
Considerate le premesse, e in particolare il già segnalato caveat delimitativo anteposto dalla Cassazione all’odierna dichiarazione di manifesta infondatezza[23], è davvero difficile non pensare che, sulla spinosa questione relativa alla tutela in ambito MAE dei cittadini extra-UE “radicati” in Italia, la Consulta sarà – a breve – nuovamente chiamata a pronunciarsi.
[1] Sulla riforma, cfr. M. Bargis, Meglio tardi che mai. Il nuovo volto del recepimento della decisione quadro relativa al M.A.E. nel d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10: una prima lettura, in questa Rivista, n. 2/2021, 88.
[2] Cfr. sez. VI, sentenza n. 14220 del 14 - 15/04/2021, Zlotea, rv. Ced 280878 - 01, il cui principale profilo di interesse è da individuarsi nella riconosciuta possibilità di dare esecuzione ad un mandato di arresto europeo emesso sulla base del solo dispositivo della sentenza, alla condizione che quest’ultima, secondo la normativa dello Stato di emissione, «costituisca titolo esecutivo ancor prima del deposito della motivazione e del passaggio in giudicato della decisione».
[3] La sentenza Zlotea aveva conseguentemente ritenuto altresì priva di pregio la prospettazione difensiva di “adeguare” l’interpretazione dell’art. 28 del decreto legislativo all’art. 40 della legge MAE, che aveva circoscritto il proprio ambito di applicazione «alle richieste di esecuzione di mandati d’arresto europei emessi e ricevuti dopo la data della sua entrata in vigore». Ciò sia in ragione del chiaro ed inequivocabile tenore testuale della nuova norma transitoria, sia perché l’art. 40 «non ha affatto una valenza generale, bensì si tratta di una previsione che ha regolamentato esclusivamente la specifica fase intertemporale conseguente al momento dell’introduzione nell’ordinamento interno della normativa in tema di mandato di arresto europeo». In proposito, può unicamente aggiungersi che, considerato il notevole ritardo dell’Italia rispetto agli altri paesi europei nell’implementazione della decisione quadro, la citata disposizione transitoria (che, nel 2009, venne giudicata «deplorevole» all’esito del IV ciclo di valutazioni reciproche) costituì l’ennesimo ostacolo frapposto dal legislatore nazionale all’applicazione dello strumento eurounitario, giacché costrinse i 24 Stati membri che nel frattempo l’avevano attuato ad emettere nuovamente tutti i mandati di arresto europei già emessi nel corso del 2004 e sino al 15 maggio 2005.
[4] La norma prevede, ora, che «l’esecuzione del mandato di arresto europeo non può, in alcun caso, comportare una violazione dei principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato o dei diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, dei diritti fondamentali e dei fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea o dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, e dai relativi protocolli addizionali alla stessa».
[5] V. le modifiche apportate all’art. 16 della legge n. 69 dall’art. 12, comma 1, lett. a) e b), del decreto legislativo.
[6] Sul tema, v. tra le pubblicazioni più recenti, A. Rosanò, Dopo Aranyosi e Căldăraru: la prassi della Corte di cassazione italiana in materia di diritti fondamentali e MAE, in questa Rivista, n. 10/2020, 53, nonché E. Celoria, Le condizioni di detenzione nello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia: nuove prospettive dopo la sentenza Dorobantu, in www.lalegislazionepenale.eu, 2 giugno 2020. Da ultimo, in una più ampia prospettiva di analisi, cfr. G. De Amicis, Presunzione di “protezione equivalente”, accertamento delle condizioni di detenzione e tutela dei diritti fondamentali nell’esecuzione del mandato di arresto europeo: la Corte di Strasburgo detta le regole (Nota a Corte EDU, Sez. V, 25 marzo 2021, Bivolaru e Moldovan c. Francia, nn. 40324/16 e 12623/17), in Giustizia insieme, 11 maggio 2021.
[7] È pacifico che la «residenza» e la «dimora» cui fa riferimento la decisione quadro costituiscono nozioni comunitarie, che – in quanto tali – richiedono una interpretazione autonoma ed uniforme. Esse sono state precisate dalla Corte di giustizia della sentenza del 17 luglio 2008, Kozlowsky, C-66/08, la quale ha identificato la prima con una residenza effettiva nello Stato dell’esecuzione e la seconda con un soggiorno stabile di una certa durata in quello Stato, che consenta di acquisire legami d’intensità pari «a quelli che si instaurano in caso di residenza» (punto 46). La Corte, al riguardo, ha evidenziato la necessità che il giudice nazionale effettui una valutazione complessiva degli elementi oggettivi che caratterizzano la situazione del ricercato, come la durata, la natura e le modalità del suo soggiorno, nonché i legami familiari ed economici instaurati nello Stato dell’esecuzione (punti 48 e 54). Ha richiesto, inoltre, la valutazione anche dell’esistenza di un interesse legittimo del condannato a che la pena sia scontata in quello Stato (punto 44). Nella medesima sentenza sono state, infine, indicate alcune circostanze (nessuna delle quali, di per sé, decisiva) cui il giudice nazionale può utilmente far riferimento ai fini della verifica richiesta, quali – ad esempio – un periodo continuativo di dimora o la violazione delle norme in materia di ingresso e soggiorno nello Stato dell’esecuzione (punto 50). Alla necessità di un «radicamento reale e non estemporaneo» in Italia ha sempre fatto riferimento anche la nostra Corte di legittimità, secondo cui occorre che lo straniero dimostri di aver istituito nel nostro paese la sede principale, anche se non esclusiva, dei propri interessi affettivi, professionali o economici (v., ad es., sez. VI, sent. n. 12665, del 19/3/2008, Vaicekauskaite, rv. Ced 239156, che ha escluso la ricorrenza della condizione nei confronti di una cittadina lituana, dimorante da meno di tre anni – con più soluzioni di continuità – in Italia, dove aveva svolto saltuaria attività lavorativa, e che aveva mantenuto con il paese di origine solide relazioni familiari). Nello stesso senso la Corte ha affermato che occorre comprovare non solo che l'interessato abbia in Italia la sua dimora abituale – intesa, peraltro, non come assoluta continuità della stessa, ma come «abitudine della dimora», compatibile anche con frequenti allontanamenti, eventualmente determinati dall'organizzazione e dalle esigenze della vita moderna – ma anche che intenda stabilmente permanere nel territorio italiano per un apprezzabile periodo di tempo (sez. VI, sent. n. 17643 del 28/4/2008, Chaloppe, Rv. Ced 239651, concernente il caso di un cittadino francese risultato senza fissa dimora e privo di documenti, in cui la Corte ha osservato che il mero certificato di residenza non appare idoneo, da solo, a dimostrare la sussistenza del requisito di legge, a fronte di significative risultanze di segno contrario; sul punto, v. anche sez. VI, sent. n. 20553 del 27/05/2010, Cocu, rv. Ced 247101, che, nel confermare il principio, ha peraltro statuito che la formale iscrizione o residenza anagrafica nel territorio dello Stato costituiscono, comunque, il primo indispensabile presupposto per l’applicazione del motivo di rifiuto). Nella successiva evoluzione giurisprudenziale si è precisato che, tra gli indici concorrenti (dai quali è possibile prescindere solo per il cittadino comunitario con diritto di soggiorno permanente: sez. VI, sent. n. 10042 del 9/3/2010, Matei, rv. Ced 246507), vanno annoverati anche la legalità della presenza in Italia e la distanza temporale tra quest'ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all'estero, nonché il pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali (sez. VI, sent. n. 19389 del 25/06/2020, D., rv. Ced 279419; sez. VI, sent. n. 49992 del 30/10/2018, Antov, rv. Ced 274313; sez. VI, sent. n. 50386 del 25/11/2014, Batanas, rv. Ced 261375). Sul primo aspetto, si è precisato che i precedenti penali e le pendenze giudiziarie, contraddicendo la finalità di reinserimento sociale e lavorativo della persona richiesta in consegna, non costituiscono elementi di fatto utili ad attestare l'esistenza di un radicamento territoriale stabile e non estemporaneo nello Stato (così, ad es., sez. VI, sent. n. 16169 del 05/04/2013, Pierzyna Krzysztof, rv. Ced 254771). Quanto al secondo, la Corte ha chiarito che il requisito è da ricollegarsi all'esigenza che il radicamento in Italia possa considerarsi il risultato di una scelta incondizionata, svincolata dalle sorti del processo celebrato nel Paese di origine e, dunque, non implicante la volontà di agire secundum eventum litis (sez. VI, sent. n. 520 del 04/01/2017, Mihai, non mass.).
[8] V. Corte cost., sentenza 26.6.2010, n. 227, in Cass. pen., 2010, 4148, con nota di G. Colaiacovo, Euromandato e cittadini extracomunitari residenti: ancora dubbi dopo la pronuncia della Corte costituzionale. V. anche i commenti di A. Ciavola, La Corte costituzionale riconosce il diritto del cittadino europeo a scontare la pena in Italia, in LP, 2010, 4, e di B. Piattoli, Mandato d’arresto esecutivo e motivi di rifiuto alla consegna: l’illegittimità costituzionale della mancata estensione della disciplina italiana dell’art. 18, comma 1, lett. r), l. 22 aprile 2005, n. 65, al cittadino di un altro Paese UE residente nello Stato, in Giur. cost., 2010, 2630 ss. Nella circostanza, le questioni di legittimità costituzionale venivano sollevate con ben quattro ordinanze emesse dalla Corte di cassazione a partire dall’estate del 2009. In precedenza, il giudice di legittimità aveva invece ritenuto la norma interna «pienamente in linea con i principi della decisione quadro e segnatamente con l’art. 4 n. 6, […] disposizione - non a caso inclusa nel novero dei motivi di non esecuzione "facoltativa" del m.a.e. - che semplicemente facoltizza, non obbliga, gli Stati membri della U.E. ad estendere le guarentigie eventualmente riconosciute […] ai cittadini dei singoli Stati anche agli stranieri che dimorino o risiedano in tali Stati»: così, in particolare, sez. F, sent. n. 34210 del 04 - 07/09/2007, Dobos, rv. Ced 237055 - 01, che in particolare aveva escluso la possibilità di disapplicare l’art. 18, lett. r), «sia perché - a tacer d’altro - detta norma è frutto di una opzione discrezionale propria del legislatore, non sindacabile in sede giudiziaria siccome aderente a criteri di razionalità o ragionevolezza (trattamento giudiziario differenziato tra cittadini dello Stato e stranieri non vulnerante specifici principi costituzionali); sia perché - anche in linea con esigenze di tipizzazione delle fattispecie applicative del m.a.e. nel diritto interno - l’eventuale generalizzata estensione del rifiuto di consegna L. n. 69 del 2005, ex art. 18, a cittadini stranieri finirebbe per contraddire quei peculiari canoni di collaborazione e mutua assistenza giudiziarie e di reciproca affidabilità tra gli Stati membri della U.E., che in tutta evidenza hanno ispirato la decisione quadro del 2002 e la legge attuativa italiana e, dunque, di apprezzabile corrispondenza degli omologabili regimi penitenziari di ciascuno degli Stati membri dell’Unione a criteri di umanità nonché di rispetto della dignità della persona detenuta e delle sue esigenze primarie e di recupero sociale». Prima che la questione venisse rimessa alla Corte costituzionale, nel senso della non estensibilità della previsione si erano altresì orientate, seppur con motivazioni talora diverse, sez. VI, sent. n. 16213 del 16 - 17/04/2008, Badilas Cc., rv. Ced 239721 - 01; sez. VI, sent. n. 25879 del 25 - 26/06/2008, Vizitiu, rv. Ced 239946 - 01; sez. F, sent. n. 35286 del 02 - 15/09/2008 Cc., Zvenca, rv. Ced 241001 - 01; sez. 6, sent. n. 46299 del 12 - 16/12/2008, Cervenak, rv. Ced 242009 - 01; sez. VI, sent. n. 4303 del 28 - 30/01/2009, rv. Ced 242433 - 01.
[9] Così la Corte costituzionale al § 8 del Diritto, in fine.
[10] Può essere di interesse ricordare come, in epoca immediatamente successiva alla sentenza n. 227 del 2010, la Corte costituzionale venisse nuovamente investita di un’analoga questione di legittimità costituzionale dalla Corte di cassazione, la quale denunciava il contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost. (in relazione al diritto alla libera circolazione ed al libero soggiorno negli Stati membri, garantito dall’art. 21 TFUE) dell’art. 705 del codice di procedura penale e dell’art. 40 della legge 22 aprile 2005, n. 69, «nella parte in cui non prevedono, in una situazione analoga a quella richiamata dall’art. 18, comma 1, lett. r), della medesima legge, che la Corte di appello – in relazione ad una domanda di estradizione presentata dopo il 14 maggio 2005 da uno Stato membro dell’Unione europea, sulla base di una sentenza di condanna, divenuta esecutiva dopo il 1 gennaio 2004, ad una pena privativa della libertà personale, per un reato commesso prima del 7 agosto 2002 – pronunci sentenza contraria alla estradizione di un cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia la residenza o la dimora nel territorio italiano, quando ritenga che tale pena sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno». In tale circostanza, quindi, il giudice di legittimità richiedeva alla Corte di «inserire, nel complesso normativo dell’estradizione, un nuovo caso di rifiuto all’estradizione, evidentemente mutuato dalla disciplina del MAE, [da ricollegarsi] alla possibilità che la pena sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno: consentendo, nella fase giurisdizionale del procedimento di estradizione, non solo la possibilità di impedire la “traditio”, ma anche di eseguire la pena nel nostro ordinamento conformemente al diritto interno, inserendo nel procedimento di estradizione un’anticipazione di quanto previsto dalle norme sul MAE, previo intervento anche sull’art. 40 della citata legge n. 69 del 2005». La Corte costituzionale, con la sentenza 274 del 2011, si pronunciava nel senso dell’inammissibilità della questione, rilevando da un lato che «[il] risultato prefigurato dal giudice a quo […] determinerebbe, non più una normativa intertemporale, ma un singolare innovativo meccanismo, diverso tanto dal precedente quanto da quello “a regime”, creando un sistema “spurio” anche rispetto alla stessa norma transitoria», dall’altro che «alla prospettazione del giudice a quo potrebbero seguire più soluzioni, parimenti praticabili perché tutte non obbligate costituzionalmente» (il testo riportato tra virgolette nella presente nota è tratto dalla massima elaborata dal Servizio studi e massimario della Corte costituzionale).
[11] V. l. 4 ottobre 2019, n. 117, art. 6, co. 5. Il testo della norma era il seguente: «La corte di appello può rifiutare la consegna nei seguenti casi: […] c) se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno». Alle lett. a) e b) venivano riprodotti i motivi di rifiuto della litispendenza e della territorialità, prima previsti - rispettivamente - dalle lett. o) e p) dell’art. 18.
[12] E, cioè, come rilevato alla nota precedente, la litispendenza e la territorialità.
[13] Corte giust., 6 ottobre 2009, Wolzenburg, C-123/08.
[14] V. considerando (17) e art. 16 della direttiva, recepita in Italia con il D.lgs. n. 30 del 2007 (il cui art. 14 dispone in merito al rilascio della carta di soggiorno permanente).
[15] V., sul punto, art. 4, punto 7, lett. a), della decisione quadro 2008/909.
[16] Ciò, naturalmente, in considerazione del fatto che «[a]l legislatore dello Stato membro […] è consentito di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata, come, ad esempio, in una fattispecie quale quella che ci occupa, la previsione di un ragionevole limite temporale al requisito della residenza del cittadino di uno Stato membro diverso da quello di esecuzione»: sent. n. 227 del 2010, cit., § 5.1. del Diritto.
[17] Ibidem, § 8 del Diritto.
[18] Sez. VI, sent. n. 7214 del 14/02/2019, Balde, rv. Ced 275721, al § 3.2 del Diritto; nel medesimo senso, in epoca successiva, sez. VI, sent. n. 45190 del 05/11/2019, Ljubisa, rv. Ced 277384. Con riferimento alle procedure estradizionali, cfr. ancora sez. VI, sent. n. 5225 del 15/12/2017, Ciomirtan, rv. Ced 272127 - 01, che ha escluso l’applicazione dell’art. 18, lett. r), della n. 69 ai cittadini di Stati non membri dell’Unione Europea, pur se stabilmente radicati sul territorio nazionale, «in quanto l’art. 705, comma 2, cod. proc. pen. non contempla analogo motivo di rifiuto alla consegna dell’estradando». In motivazione, sul punto, la Corte ha rilevato che la disciplina del mandato di arresto europeo è espressione dell’appartenenza ad uno spazio giudiziario comune, sicché non è estensibile nei confronti di cittadini aventi nazionalità diverse.
[19] V. sez. VI, ordinanza del 19 marzo 2020, n. 10371, Bregu, in G.U., 1^ Serie Speciale, n. 36 del 2 settembre 2020. Tra i primi commenti al provvedimento, v. C.E. Gatto, Figli di un dio minore? Per la Cassazione, anche nel mandato d’arresto esecutivo, i residenti in Italia non aventi cittadinanza europea devono essere equiparati ai cittadini europei, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, fasc. 2, 678 ss.; G. Colaiacovo, Il “microsistema” di consegna differenziato per il cittadino e il residente di nuovo al vaglio della Corte costituzionale, in Cass. pen., 2020, fasc. 9, 3200; M. Daniele, Mandato di arresto europeo e diritto degli extracomunitari al reinserimento sociale nello Stato di esecuzione. Una questione di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 6.5.2020; A.R. Salerno, Mandato d’arresto europeo e rifiuto della consegna del cittadino di un Paese terzo. Minime osservazioni in margine a Cass. Pen., Sez. VI, n. 10371/2020, in Rivista AIC, n. 6/2020; C. Pinelli, La consegna del cittadino di uno Stato terzo (nota a Cass. pen. n. 10371/2020), in Giustizia Insieme, 5 maggio 2020.
[20] Cfr. § 6.2 del Diritto, ove si richiama espressamente una delle precedenti ordinanze sfociate nella sentenza n. 227 del 2010 della Corte costituzionale (sez. VI, ordinanza n. 33511 del 15/07/2009, Papierz, rv. 244756 - 01), che aveva del tutto condivisibilmente rilevato come «a ben vedere […] potrebbe avere una qualche giustificazione una disciplina inversa, perché, nel caso di m.a.e. esecutivo, l’esecuzione della pena in Italia impedisce l’allontanamento della persona di cui è stata richiesta la consegna e quindi consente il mantenimento, per quanto è possibile, delle sue relazioni familiari e sociali, mentre nel caso di m.a.e. processuale la persona non può non essere consegnata allo Stato di emissione e la restituzione all’Italia per scontarvi la pena è destinata ad avvenire quando tali rapporti hanno già subito un affievolimento. Perciò è in questo caso che potrebbe risultare meno dannosa l’esecuzione della condanna nello Stato di emissione, nel quale la persona oggetto del m.a.e. resterebbe per scontare la pena dopo essere stata detenuta per il processo».
[21] L’art. 22 del decreto legislativo, introdotto in accoglimento delle osservazioni delle Commissioni giustizia di Camera e Senato, ha altresì modificato l’art. 27 della legge n. 69, sopprimendo la possibilità di rifiutare il transito per i cittadini di Stati terzi residenti in Italia richiesti in consegna con MAE processuale. Sulla diversità dei presupposti interpretativi e delle prospettive del legislatore e della Corte, volendo, v. V. Picciotti, La riforma del mandato di arresto europeo. Note di sintesi a margine del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10, in www.lalegislazionepenale.eu, 9 aprile 2021, pp. 26-27.
[22] Cfr. ordinanza n. 60 in data 11 marzo 2021 (dep. 1° aprile 2021).
[23] Che, come visto, fa espressamente «salva ogni considerazione relativa al diverso profilo che involge l’omessa previsione della posizione del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea».