Cass., Sez. VI, 20 gennaio 2021 (dep. 11 giugno 2021), n. 23148, Pres. Silvestri, est. Mogini, ric. Bozzini
1. Pochi mesi fa, sulle pagine di questa Rivista[1], avevamo avuto modo di segnalare che alcuni giudici milanesi, con un articolato impianto argomentativo, avevano preso le distanze dall’approdo raggiunto, appena un anno prima, dalle Sezioni unite “Cavallo”[2]. In particolare, il Tribunale di Milano aveva ritenuto di doversi discostare dal principio di diritto affermato dal massimo organo nomofilattico nella parte in cui stabilisce che i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati per l’accertamento dei reati connessi ex art. 12 c.p.p. a quello per il quale le stesse sono state autorizzate a condizione che anche questi ulteriori reati rientrino nell’elenco di cui all’art. 266, co. I, c.p.p., vale a dire fra quelli per i quali il giudice può autorizzare l’utilizzo del più insidioso tra i mezzi di ricerca della prova.
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione respinge – ancora una volta[3] – le critiche mosse all’orientamento sposato dalle Sezioni unite, ritenendo condivisibile il suddetto argine all’utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni per l’accertamento dei reati che, risultando connessi a quello oggetto di autorizzazione, rientrano nell’ambito del medesimo procedimento. Tuttavia - ed è ciò che più preme segnalare in questa sede - i giudici di legittimità hanno compiuto un passo ulteriore, facendo maggiore luce sull’ambito di operatività del principio di diritto in questione. Sintetizzando brevemente quanto si avrà modo di illustrare meglio infra, è stato chiarito che le Sezioni unite “Cavallo” si sono occupate unicamente dell’ipotesi in cui, nel corso delle captazioni, emergano «fatti-reato diversi ed ulteriori»[4], che si aggiungono a quello per il quale è intervenuta l’autorizzazione del giudice. Diverso, invece, è il tema dell’utilizzabilità delle intercettazioni per un fatto che, all’esito del fisiologico evolversi dell’attività investigativa, riceva una qualificazione giuridica diversa da quella accolta nel decreto di autorizzazione a disporre le intercettazioni. Tale ipotesi si colloca al di fuori dell’ambito di operatività del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”, non valendo dunque i limiti in esso individuati. Così, i risultati delle intercettazioni regolarmente autorizzate continuano a essere utilizzabili anche quando, per effetto di una nuova, sopravvenuta qualificazione giuridica, il fatto originariamente addebitato non rientri più fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p.
2. Prima di soffermarsi sugli snodi argomentativi di maggiore interesse, sembra utile riassumere brevemente la vicenda procedimentale.
B. T., dipendente dell’Agenzia delle entrate con mansioni di certificazioni e rilascio copie, veniva sottoposta a indagini preliminari per avere consegnato a terzi alcuni atti e certificati senza che fossero versate le relative tasse ipotecarie. Qualificando gli episodi delittuosi addebitati all’indagata in termini di corruzione, il p.m. aveva ottenuto l’autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione.
Nel corso delle captazioni, tuttavia, era emerso che in alcuni casi l’attività contraria ai doveri d’ufficio era avvenuta senza che vi fosse stata la promessa o la dazione di denaro o altra utilità. Alla luce di ciò, una volta terminata l’attività di intercettazione, il p.m. aveva richiesto l’applicazione di una misura cautelare nei confronti dell’indagata qualificando taluni degli episodi accertati in termini abuso d’ufficio, anziché di corruzione.
A fronte della richiesta del p.m. e delle qualificazioni giuridiche in essa accolte, il g.i.p. aveva, da un lato, applicato la misura degli arresti domiciliari per i fatti di corruzione e, dall’altro lato, rigettato la domanda cautelare rispetto agli episodi di abuso d’ufficio, ritenendo che i risultati delle intercettazioni non potessero essere utilizzati per l’accertamento di tale reato. A tale conclusione il giudice era pervenuto facendo applicazione delle coordinate tracciate nella sentenza “Cavallo”. Il reato di abuso d’ufficio era stato infatti considerato quale reato connesso ex art. 12 c.p.p. a quello di corruzione, per il quale erano state autorizzate le intercettazioni. Così, non rientrando l’abuso d’ufficio nel novero dei reati di cui all’art. 266 c.p.p., l’utilizzazione delle intercettazioni rispetto a tale fattispecie delittuosa risultava preclusa dal limite – di cui si è già detto – individuato dalle Sezioni unite.
L’ordinanza di (parziale) rigetto della richiesta cautelare veniva impugnata dal p.m. e il Tribunale della libertà di Milano, sulla scorta dei risultati delle intercettazioni, disponeva gli arresti domiciliari nei confronti dell’indagata anche in relazione al delitto di abuso d’ufficio. I giudici milanesi arrivavano a tale conclusione ritenendo non condivisibile il principio di diritto affermato nella sentenza “Cavallo” nella parte in cui esige che ogni reato connesso ex art. 12 c.p.p. sia riconducibile all’elenco di cui all’art. 266 c.p.p. In particolare, si è sostenuto che: i) le Sezioni unite, nell’affermare tale principio, non si sarebbero confrontate con un consolidato orientamento di segno contrario; ii) in presenza di reati connessi, e dunque – nell’ottica delle stesse Sezioni unite – di un medesimo procedimento, non potrebbe operare l’inutilizzabilità patologica; iii) la conclusione raggiunta dalle Sezioni unite si porrebbe in attrito con il principio di non dispersione della prova; iv) inoltre, lo stesso principio risulterebbe inconciliabile con le modifiche apportate nel 2020 all’art. 270 c.p.p., il quale, prevedendo oggi l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi quando risultino rispettate le condizioni di cui all’art. 266 c.p.p., confermerebbe, a contrario, che tale limite non dovrebbe operare quando ci si trovi nell’ambito del medesimo procedimento[5].
Contro l’ordinanza del Tribunale di Milano ha infine proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’indagata, denunciando la violazione del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”, ribadito anche dalla giurisprudenza successiva.
3. Nell’esaminare il ricorso, i giudici di legittimità si domandano, per prima cosa, se davvero il caso portato alla loro attenzione sia sussumibile nel perimetro della questione risolta dalle Sezioni unite “Cavallo”.
Questo interrogativo porta immediatamente la Corte di cassazione a chiarire, attraverso un’attenta analisi della sentenza, che il massimo organo nomofilattico si è pronunciato in relazione al caso in cui, nel corso dell’esecuzione delle intercettazioni, «emergano fatti-reato diversi ed ulteriori» rispetto «al fatto-reato per cui sono state autorizzate le intercettazioni»[6]. È esclusivamente «in tale contesto» che «le Sezioni unite hanno fissato le condizioni necessarie per utilizzare i risultati delle captazioni al fine di provare il fatto-reato diverso ed ulteriore rispetto a quello oggetto di autorizzazione»[7].
Tale delimitazione dell’intervento delle Sezioni unite si ricava già dal principio di diritto dalle stesse elaborato. Quest’ultimo[8] si riferisce infatti a «reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta», alludendo, quindi, a fatti diversi da quello oggetto di autorizzazione. Nello stesso senso depongono, poi, alcuni cruciali snodi motivazionali della sentenza “Cavallo”[9], che pure fanno espresso riferimento all’emersione di un reato ulteriore, diverso da quello originariamente iscritto[10].
4. Dalla precisazione appena illustrata si desume, proseguono i giudici di legittimità, che le coordinate tracciate dalle Sezioni unite “Cavallo” non assumono alcuna rilevanza nel caso in cui non si abbia a che fare con un nuovo reato che si aggiunge a quello oggetto di autorizzazione, ma, semplicemente, quel medesimo fatto riceva ex post, grazie agli esiti delle captazioni, una qualificazione giuridica diversa da quella originariamente ipotizzata.
In relazione a tale situazione si registra un consistente orientamento giurisprudenziale[11] che afferma l’irrilevanza - ai fini dell’utilizzabilità degli esiti delle captazioni - del mutamento dell’addebito, anche laddove la nuova qualificazione giuridica non avrebbe consentito il ricorso alle intercettazioni. Ciò che conta è che l’addebito originario fosse riconducibile ai reati di cui all’art. 266 c.p.p., perché è «nel momento genetico della intercettazione» che si coglie «la valenza della verifica c.d. statica da parte del giudice»[12].
Secondo i giudici di legittimità, tale orientamento giurisprudenziale conserva la propria persuasività ancora oggi, non essendo stato intaccato dalle Sezioni unite “Cavallo”.
Nel ribadirne le conclusioni, la Cassazione coglie peraltro l’occasione per soffermarsi sulla struttura che la motivazione del provvedimento autorizzativo del giudice deve presentare per assolvere correttamente alla propria funzione garantistica[13]. Con tali passaggi argomentativi viene sottolineata la centralità della verifica condotta dal giudice sulla richiesta del pubblico ministero, che si apprezza soprattutto sul fronte dell’esigenza di evitare abusi da parte degli inquirenti.
I giudici della VI Sezione sono infatti ben consapevoli che, accedendo all’orientamento giurisprudenziale da loro condiviso e confermato, vi è il rischio che il pubblico ministero, nella richiesta di autorizzazione, ricorra alla pretestuosa descrizione di un reato per cui sono consentite le intercettazioni al fine di «aggirare i limiti legali stabiliti dagli artt. 266-267 cod. proc. pen.»[14]. Il controllo del giudice per le indagini preliminari, tuttavia, ha proprio la funzione di scongiurare il pericolo di abusi. Egli, infatti, «è tenuto a non autorizzare l’intercettazione se non vi sia rigorosa conformità tra ciò che si richiede e le risultanze delle indagini»[15].
Nessuna elusione delle regole processuali si ha invece nel caso in cui la qualificazione giuridica operata dal p.m. e vagliata dal giudice risulti coerente con le risultanze investigative a disposizione al momento dell’autorizzazione, ma subisca poi una modificazione proprio grazie agli esiti delle captazioni. Una simile evenienza deve essere considerata del tutto fisiologica, «considerando la provvisorietà dell’addebito, la fluidità degli elementi raccolti, la loro possibile modificazione»[16]. Così, in casi simili non vi è ragione per ritenere inutilizzabili i risultati delle intercettazioni: «ciò che rileva è che al momento in cui viene disposta la intercettazione vi siano i presupposti previsti dalla legge»[17].
5. Fatta questa attenta precisazione sulla portata del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”, i giudici di legittimità rilevano una certa ambiguità nell’ordinanza del Tribunale di Milano, non essendo chiaro se le condotte qualificate in termini di abuso d’ufficio siano i medesimi fatti storici – originariamente qualificati come corruzioni – per i quali era intervenuta l’autorizzazione del giudice, o se invece si tratti di fatti realmente distinti, che si sono aggiunti a quelli per i quali il pubblico ministero aveva effettuato la richiesta di intercettazioni.
Nel primo caso, per quanto detto sopra, i giudici milanesi avrebbero dovuto prescindere dal principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”, potendo utilizzare gli esiti delle intercettazioni per accertare i fatti di abuso d’ufficio senza la necessità di prendere le distanze dal massimo organo nomofilattico.
Nel secondo caso, invece, il Tribunale di Milano avrebbe dovuto conformarsi al principio di diritto affermato dalle Sezioni unite, che i giudici della VI Sezione mostrano di condividere, dedicando la parte finale della sentenza in epigrafe alla confutazione di alcune delle critiche che erano state esposte nell’ordinanza impugnata.
In particolare, per i giudici di legittimità non può dirsi che le Sezioni unite si siano pronunciate su un profilo che non era stato portato alla loro attenzione. Piuttosto, il massimo consesso aveva modulato la questione che gli era stata sottoposta, «delimitandone l’oggetto, i contorni, conformando il potere decisorio “in ragione della problematica interpretativa autonomamente ritenuta sussistente»[18]. In questo contesto, il principio di diritto elaborato non può che esplicare la propria forza vincolante ex art. 618, co. 1-bis, c.p.p. Esso, infatti, «ha natura unitaria e perciò non consente una scomposizione atteso che, se ciò accadesse, ne conseguirebbe una indebita alterazione del significato di quanto affermato dalle Sezioni unite» e «si tradirebbe il senso della decisione»[19].
* * *
6. Con i passaggi motivazionali appena brevemente sintetizzati, la Corte di cassazione aggiunge un’utile tessera a un complesso mosaico, giurisprudenziale e normativo, che negli ultimi mesi ha più volte impegnato gli interpreti.
L’indicazione di maggior rilievo, come detto, concerne l’esigenza di tenere ben distinti due differenti scenari: quello dell’emersione, nel corso delle intercettazioni, di fatti di reato ulteriori e diversi rispetto a quello oggetto di autorizzazione, da un lato, e quello della riqualificazione giuridica del medesimo fatto per cui sono state autorizzate le intercettazioni, dall’altro lato. Esplicitando i contorni della questione affrontata dalle Sezioni unite “Cavallo”, i giudici di legittimità chiariscono che le coordinate da esse tracciate, e quindi i limiti individuati, valgono soltanto per il primo scenario.
Rispetto al secondo scenario - la riqualificazione giuridica del fatto già oggetto di autorizzazione - il panorama interpretativo non può dirsi omogeneo.
Secondo autorevoli voci dottrinali, l’ammissibilità delle intercettazioni «costituisce una variabile legata al nomen delicti», risultando «determinante la qualificazione recepita nella sentenza, quali che fossero i termini in iure dell’accusa»[20].
Altrettanto significativa risulta però la presa di posizione di chi, in linea con l’orientamento oggi ribadito dalla Cassazione, afferma che «[l]’inutilizzabilità operante a posteriori per effetto della variazione del nomen juris contrasterebbe con lo scopo dell’intercettazione come mezzo indispensabile per proseguire le indagini su un fatto (di reato), che deve indefettibilmente sussistere ma la cui qualificazione può fisiologicamente variare con la prosecuzione delle investigazioni e finanche mercé le risultanze della captazione»[21].
In questo secondo senso si è ripetutamente espressa la giurisprudenza, che in più occasioni ha ritenuto «utilizzabili i risultati di intercettazioni effettuate in base a un titolo di reato per il quale le operazioni sono consentite pur quando esso, a seguito di diversa qualificazione giuridica, venga mutato in altro per il quale l’acquisizione non sarebbe stata consentita»[22].
La sentenza in epigrafe, dunque, apparentemente non fa che ribadire un orientamento che poteva già dirsi consolidato. Cionondimeno, essa riveste particolare interesse per l’essersi apertamente confrontata con il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”.
Vero è che queste ultime non si erano occupate del tema della riqualificazione giuridica. Tuttavia, quell’arresto conteneva considerazioni di così ampio respiro da sembrare in grado di dispiegare i propri effetti anche al di là dei loro propri confini[23]. Non a caso, attenta dottrina aveva immediatamente osservato che la giurisprudenza in tema di diversa qualificazione giuridica sembrava «destinata a una difficile convivenza con il principio affermato dalle Sezioni unite»[24].
7. Degni di nota appaiono poi le riflessioni dedicate alla funzione garantistica del decreto di autorizzazione all’esecuzione delle intercettazioni. Nel confermare il tradizionale orientamento giurisprudenziale, i giudici di legittimità si sono mostrati ben consapevoli dei rischi di abuso a esso connessi[25], e hanno così chiarito che l’utilizzazione degli esiti delle captazioni per reati non rientranti fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. può essere tollerata soltanto quando la diversa e successiva qualificazione giuridica appaia effettivamente come il frutto del normale sviluppo delle indagini e del fisiologico accrescimento del materiale probatorio a disposizione.
Questa forte attenzione rivolta al vaglio cui il g.i.p. è chiamato deve senz’altro essere salutata con favore. Essa, peraltro, si pone in perfetta linea con alcune attente riflessioni che anche recentemente sono emerse nel dibattito dottrinale[26].
8. Allontanandoci dal cuore della questione affrontata, vi è un ultimo profilo della sentenza in esame che, a parere di chi scrive, merita di essere segnalato.
Come si è visto, nella parte finale della sentenza i giudici di legittimità mostrano di condividere la posizione affermata dalle Sezioni unite “Cavallo”, replicando ad alcuni degli argomenti che i giudici milanesi avevano speso per prenderne le distanze.
Fra questi argomenti, come si è accennato, ve ne è uno che fa leva su una recente novità normativa, e segnatamente sulla riformulazione dell’art. 270 c.p.p.
In breve[27]: nel 2020 il legislatore ha ampliato le eccezioni al divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui le stesse sono state autorizzate. Se prima veniva in rilievo solo il caso in cui essi fossero «indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza», oggi è altresì contemplata l’ipotesi in cui si debba accertare uno qualsiasi dei delitti di cui all’art. 266 c.p.p.
All’indomani di questa novità, una parte degli interpreti si è interrogata sulla ragionevolezza della soluzione raggiunta, poco tempo prima, dalle Sezioni unite “Cavallo”. Queste, come si è detto, hanno ammesso l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni soltanto per i reati che – ancorché connessi ex art. 12 c.p.p. a quello oggetto di autorizzazione, e dunque appartenenti al “medesimo procedimento” – rientrino nell’elenco di cui all’art. 266 c.p.p. Ragionare ancora oggi in questi termini significa però pervenire a una sorta di interpretatio abrogans del divieto posto dall’art. 270 c.p.p. Si deve infatti notare che, siccome l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni all’interno del medesimo procedimento avrebbe la medesima estensione dell’eccezione posta al divieto utilizzazione in procedimenti diversi, quest’ultimo divieto risulterebbe, in definitiva, privo di portata precettiva. Proprio per questa ragione, i giudici milanesi suggerivano di ammettere l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni anche per reati connessi a quello oggetto di autorizzazione che non rientrassero nell’elenco di cui all’art. 266 c.p.p. Per questa via, si sarebbe ottenuta un’utilizzabilità delle captazioni all’interno del medesimo procedimento più ampia di quella operante nei procedimenti diversi.
Come abbiamo avuto modo di segnalare sulle pagine di questa Rivista, tali riflessioni sono già giunte di fronte ai giudici di legittimità, i quali, in una recente pronuncia, si sono limitati a osservare che «[l]e scelte operate dal legislatore con la legge n. 7 del 2020 in sede di conversione del d.l. n. 161 del 2019 formeranno oggetto di meditazione nell’ambito dei procedimenti ai quali si applicheranno ratione temporis», i.e. quelli iscritti successivamente al 31 agosto 2020, «ma non sono in grado di fornire una chiave interpretativa della norma previgente» e che «la norma nuova, successiva alla decisione delle Sezioni Unite Cavallo, [non] può fornire uno strumento per invalidare una ermeneusi necessariamente calibrata su un panorama normativo poi mutato»[28]. Da questi passaggi sembra emergere che, in quell’occasione, i giudici di legittimità non si siano espressi sulla presa del suddetto argomento, né sull’opportunità di operare un cambio di rotta per il futuro, semplicemente perché la nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p. non trovava applicazione nel procedimento portato alla loro attenzione.
A sommesso avviso di chi scrive, la sentenza appena commentata, seppur in maniera meno esplicita, sembra porsi in linea con questo approccio. L’argomento che fa leva sulla nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p. non risulta, infatti, essere oggetto di critica. I giudici di legittimità, semplicemente, argomentano la propria adesione al principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo” «prescindendo […] dall’affrontare la questione relativa alla portata del “nuovo” art. 270 cod. proc. pen.»[29]. Questo inciso, pur nella sua brevità, ci sembra trattare la riforma del 2020 alla stregua di una novità che, ratione temporis, risulta inconferente rispetto alla concreta questione da risolvere, come una sorta di nodo che non era essenziale sciogliere in quel momento.
Se così è, allora, si può dire che le Sezioni unite “Cavallo” hanno oggi ricevuto un’altra, significativa, conferma, ma solo per il passato. Per il futuro, invece, pare legittimo attendersi nuovi sviluppi.
[1] Si rinvia a D. Albanese, Sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nell’ambito del “medesimo procedimento”: il Tribunale di Milano prende le distanze dalle Sezioni unite “Cavallo”, in questa Rivista, 1 dicembre 2020. Occorre precisare che l’ordinanza cautelare commentata in quella sede non è la stessa annullata dalla Corte di cassazione con la sentenza in epigrafe. Tuttavia, i fatti addebitati ai diversi indagati sono pressoché coincidenti, e lo stesso può dirsi degli argomenti giuridici spesi in entrambe le ordinanze per sottoporre a revisione critica le affermazioni contenute nella sentenza “Cavallo”.
[2] Cfr. Cass., Sez. un., 28 novembre 2019 (dep. 2 gennaio 2020), n. 50, Pres. Carcano, est. Caputo, in questa Rivista con nota di G. Illuminati, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: le Sezioni unite ristabiliscono la legalità costituzionale, 30 gennaio 2020.
[3] Come segnalato da questa Rivista, la Cassazione ha già avuto occasione di ribadire - non senza interessanti precisazioni - il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”. Sul punto si rinvia a Cass., Sez. V, 17 dicembre 2020 (dep. 15 gennaio 2021), n. 1757, Pres. Catena, Est. Morosini, in questa Rivista, 27 gennaio 2021, con nota di D. Albanese, La Cassazione ritorna sui limiti all’utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni nell’ambito del “medesimo procedimento”: una parola definitiva, ma non per il futuro.
[4] Cfr. p. 3 dell’ordinanza.
[5] Cfr. p. 2 della sentenza. Per una più ampia illustrazione di tali argomenti, sia consentito il rinvio a D. Albanese, Sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni…, §4 e §8.
Come si è accennato, la Cassazione ha già avuto modo di replicare a ciascuna di queste considerazioni; sul punto si rinvia a D. Albanese, La Cassazione ritorna sui limiti all’utilizzabilità…, §3.
[6] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 3 della sentenza.
[7] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 3 della sentenza.
[8] Per comodità del lettore lo si riporta per intero: «il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge».
[9] Cfr. i richiami a p. 4 ss. della sentenza.
[10] Cfr., in particolare, p. 5 della sentenza, che richiama un passaggio delle Sezioni unite “Cavallo” che si riferisce al «caso di connessione dei reati o di emersione del nuovo reato nel procedimento ab origine iscritto».
[11] Per alcuni richiami giurisprudenziali cfr. p. 6 della sentenza.
[12] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 6 della sentenza.
[13] Cfr. §5 del “considerato in diritto”.
[14] Cfr. p. 9 della sentenza.
[15] Cfr. p. 9 della sentenza.
[16] Cfr. p. 9 della sentenza.
[17] Cfr. p. 9 della sentenza.
[18] Cfr. p. 13 della sentenza.
[19] Per questa e la precedente citazione cfr. p. 13 della sentenza.
[20] Per questa e la precedente citazione cfr. F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, Milano, 2012, p. 851. In termini simili si esprime L. Filippi, Commento sub art. 271, in Codice di procedura penale commentato, I, V ed., A. Giarda – G. Spangher (a cura di), Wolters Kluwer, 2017, p. 2745. Il medesimo Autore critica l’opposto orientamento anche in L. Filippi, Riforme attuate, riforme fallite e riforme mancate degli ultimi 30 anni. Le intercettazioni, in Arch. Pen. (web) 2019, n. 3, p. 17. In relazione alla disciplina dettata dal codice di rito del 1930 cfr. G. Illuminati, La disciplina processuale delle intercettazioni, Giuffrè, Milano, 1983, p. 77: «l’intercettazione, pur legittimamente autorizzata, diverrebbe inammissibile (e i suoi risultati non potrebbero essere più utilizzati) se l’indagine dovesse rivelare un reato non compreso tra quelli previsti dall’art. 226-bis comma 1° c.p.p.».
[21] Così, da ultimo, F. Cassibba, In difesa dell’art. 15 Cost.: illegittima la circolazione delle intercettazioni per la prova di reati diversi, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 6, nota 39. V anche F. Ruggieri, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, Giuffrè, Milano, 2001, p. 97: «[q]ualora sulla base di quei dati fosse stato corretto ritenere la sussistenza di un reato per cui le intercettazioni sono consentite, egli non può, infatti, dichiarare la inutilizzabilità delle intercettazioni solo perché, successivamente, sono emersi altri e diversi elementi che inducono a qualificare diversamente la fattispecie per cui si procede. Viceversa, allorché emerga che il reato originariamente ritenuto, sin dal principio, non avrebbe potuto rientrare nelle fattispecie per le quali è possibile ricorrere alle intercettazioni, le relative risultanze devono ritenersi senz’altro inutilizzabili perché assunte in violazione di un divieto stabilito dalla legge». Nello stesso senso pure A. Vele, Le intercettazioni nel sistema processuale penale. Tra garanzie e prospettive di riforma, Cedam, Milano, 2011, pp. 195-196.
[22] Cfr. Cass. pen. Sez. I, 20.02.2009 (dep. 11.05.2009), n. 19852; nello stesso senso cfr. Cass. pen. Sez. VI, 20.10.2009 (dep. 31.12.2009), n. 50072; Cass. pen. Sez. VI, 24.06.2005 (dep. 21.09.2005) n. 33751; Cass. pen. Sez. III, 28.02.1994 (dep. 06.05.1994), n. 5331.
[23] Si rinvia a quanto già osservato in D. Albanese, La Cassazione ritorna sui limiti all’utilizzabilità…, §8.
[24] Così K. Natali, Sezioni unite e “legge Bonafede”: nuove regole per l’uso trasversale delle intercettazioni, in Cass. pen., 2020, V, p. 1893 ss., §9.
[25] Sul punto cfr. le considerazioni di O. Mazza, Introduzione, in Aa. Vv., Le nuove intercettazioni, O. Mazza (a cura di), Giappichelli, Torino, 2018, pp. XV-XVI.
[26] Cfr. N. Galantini, L’inutilizzabilità dei risultati, in Aa. Vv., L’intercettazione di comunicazioni, T. Bene (a cura di), Cacucci Editore, Bari, 2018, pp. 228-229, la quale osserva che in giurisprudenza «[d]alla motivazione del provvedimento autorizzativo dovrebbe tuttavia potersi comprendere se la non corrispondenza del reato sia effettivamente dovuta ad un mero cambiamento di nomen iuris ovvero ad una diversa configurazione del fatto che già originariamente poteva essere individuato, con conseguente operare della sanzione perché l’atto è stato ammesso ed eseguito fuori dei casi consentiti».
[27] Per una più articolata ricostruzione di questo argomento sia consentito il rinvio a D. Albanese, Sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni…, §4 e §8.
[28] Cfr. Cass. Sez. V, 17 dicembre 2020 (dep. 15 gennaio 2021), n. 1757, Pres. Catena, Est. Morosini, in questa Rivista, 27 gennaio 2021, p. 24.
[29] Cfr. p. 11 della sentenza.