Scheda  
23 Novembre 2021


Interferenza illecita nella vita privata e riservatezza domiciliare: la Cassazione estende la nozione di “luogo di privata dimora”


Federica Pittau

Cass., Sez. V, sent. 1 marzo 2021 (dep. 1 luglio 2021), n. 25263, Pres. Bruno, Rel. Miccoli


 

1. La Suprema Corte, chiamata a delineare i confini della fattispecie di interferenza illecita nella vita privata ex art. 615-bis c.p., ha fornito, nella decisione in commento, una nozione estesa di “dimora privata” volta a ricomprendere al suo interno il “bagno di pertinenza di un circolo privato”. Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto la toilette, in quanto funzionalmente destinata allo svolgimento di manifestazioni della “vita intima” al riparo da intrusioni esterne, la cui accessibilità è limitata ad un numero circoscritto di persone, oggetto di tutela della norma incriminatrice in esame.

Tale decisione non rappresenta un unicum ma si colloca nel solco di una serie di altre pronunce[1] con cui i giudici di legittimità si sono fatti portavoce di una interpretazione evolutiva dell’art. 615-bis c.p., volta a garantire una tutela più estesa della riservatezza domiciliare[2]. Tale orientamento ermeneutico ha, di fatto, esteso l’ambito di operatività della previsione fino a ricomprendervi ambienti nei quali in realtà non si svolge una vera e propria vita domestica.

 

2. Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda la condotta illecita dell’imputato, un musicista ingaggiato per suonare a una serata danzante in un circolo privato, il quale posizionava una telecamera nel bagno di pertinenza di suddetto circolo e riprendeva tutti i soggetti inconsapevoli che ne avessero accesso. L’originaria imputazione, che inquadrava siffatta fattispecie concreta come reato di violenza privata ai sensi dell’art. 610 c.p., veniva riqualificata dal Tribunale di Marsala, che invece condannava l’imputato alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di interferenze illecite nella vita privata.

Avverso tale pronuncia, l’imputato faceva ricorso in grado d’appello, con atto sottoscritto dal difensore, il quale sosteneva che il locale adibito a toilette di pertinenza del circolo privato, in cui erano state effettuate le riprese, non fosse qualificabile come “luogo di privata dimora”, presupposto indispensabile per l’integrazione del reato di specie. L’imputato propone      infine ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello di conferma della decisione di primo grado, con analoghe censure rispetto a quelle formulate mediante atto di appello. Il ricorrente lamentava, infatti, come unico motivo di doglianza la nullità della sentenza per erronea applicazione dell’art. 615-bis c.p.

 

3. Investita della risoluzione di tale quesito di diritto, la Suprema Corte ha fatto riferimento all’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità, che tende ad attribuire un significato esteso alla nozione di “privata dimora”, alla quale il legislatore fa riferimento in una serie di norme di carattere sostanziale (artt. 52, comma 2, 614, 615, 615-bis, 628, comma 3 c.p.) e processuale[3]. Partendo dall’assunto secondo cui il concetto di “privata dimora” sia più ampio rispetto a quello di “abitazione”, le Sezioni unite[4], chiamate qualche anno fa a dirimere un contrasto giurisprudenziale, hanno trovato un limite nei luoghi rispetto ai quali, in quanto aperti al passaggio e all’osservazione indiscriminata del quivis de populo, il soggetto non vanta uno ius excludendi alios ovvero un rapporto stabile o un’aspettativa di riservatezza che renda il rapporto medesimo privilegiato rispetto a chiunque altro[5]. In altre parole, perché si possa ritenere configurabile uno dei delitti posti a tutela dell’inviolabilità del domicilio, il soggetto deve compiere, anche in maniera transitoria e contingente, atti destinati ad un contesto riservato, tra cui rientrano pacificamente attività lavorative e di natura professionale, in luoghi nei quali detiene l’astratta possibilità di inibire l’accesso al pubblico.

 

4. Particolarmente chiaro sul punto il seguente passaggio delle menzionate Sezioni unite Prisco[6], espressamente richiamato dalla pronuncia in esame: “non c'è dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole, la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente”.

Secondo siffatta interpretazione, non sarebbe, dunque, sufficiente riscontrare in capo al soggetto l’esclusiva disponibilità degli spazi utilizzati come contesto “domiciliare” in cui si realizza la condotta criminosa, ma risulterebbe necessario che il rapporto tra il suddetto luogo e la persona sia stabile e non caratterizzato dalla mera occasionalità. Soltanto mediante il requisito della “stabilità”, anche se inteso in senso relativo, è possibile inquadrare un luogo come domicilio e attribuirne la titolarità ad una persona, che non risulti un semplice avventore o un utente più o meno occasionale.

 

4.1. Sulla stessa linea ermeneutica, si colloca la sentenza D’Amico[7], analogamente richiamata dalla pronuncia in oggetto, in cui si è ribadito che "rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale". Se ne deduce che la giurisprudenza di legittimità ammette una tutela estesa anche ai luoghi adibiti a funzioni di per sé ultronee rispetto a quelle ontologicamente connesse al concetto di abitazione, purché connotate dal vincolo di stabilità, in quanto il bene tutelato dalla norma incriminatrice è la riservatezza domiciliare intesa in senso lato.

 

4.2. In questa prospettiva, la sentenza in esame non manca di sottolineare come la Consulta abbia avuto un ruolo fondamentale nell’individuazione del bene giuridico tutelato[8] dall’art. 615-bis. In particolare, i giudici di legittimità hanno richiamato la sent. Cost. n. 135 del 2002[9], in cui si afferma che l’inviolabilità del domicilio, ai sensi dell’art. 14 della Costituzione, è ascrivibile al novero dei diritti fondamentali della persona secondo cui l’ordinamento riconosce in capo al singolo il potere di limitare l’ingresso dello Stato e di terzi in tutti i luoghi in cui si svolge la “vita intima” di ciascun individuo. L’elemento qualificante l’esercizio di siffatto diritto fondamentale, che rientra tra le «tradizionali libertà negative» [10], consiste, dunque, nello ius prohibendi qualsiasi intrusione di tipo fisico nei luoghi in cui si estrinseca la personalità dell’individuo e che rappresentano una “proiezione spaziale della persona”.

Accanto a questa dimensione puramente proibitiva[11], a cui corrisponde la pretesa del singolo di un comportamento omissivo da parte di terzi, rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 14 Cost. anche il diritto di ammettere nel proprio domicilio (ius admittendi) altre persone, al fine di realizzare la propria dimensione sociale e affettiva[12]. In questa prospettiva, si ha un duplice meccanismo di tutela del domicilio secondo cui si riconosce a ciascun individuo il diritto di escludere e allo stesso tempo ammettere altre persone dai luoghi in cui si svolge la propria “vita intima”.

Questo approccio esegetico che attribuisce alla libertà di domicilio una latitudine estesa, ulteriormente ribadito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 149 del 2008, pone in evidenza come la garanzia costituzionale ai sensi dell’art. 14 Cost. sia una premessa indispensabile per il concreto esercizio delle altre libertà fondamentali [13], tra cui rientrano quelle garantite dagli articoli 13 e 15 Cost. In particolare, gli artt. 14 e 15 Cost. rappresentano il nucleo di riferimento attorno a cui fondare il diritto alla riservatezza domiciliare intesa come esclusività conoscitivo-spaziale di quanto accade nei luoghi in cui si svolge la vita privata dell'individuo, a garanzia della piena esplicazione della stessa.

 

4.3. Ciò posto, nella sentenza in oggetto, i giudici di legittimità ribadiscono che, perché si possa ritenere operativa la tutela costituzionale del domicilio di cui supra, è necessario che il locus commissi delicti sia un luogo in cui sia precluso l’accesso ad estranei e del quale sia resa impossibile la visibilità dall’esterno[14]. Qualora, invece, il luogo risulti accessibile fisicamente o visivamente da chiunque, viene meno l’esigenza di garantire la riservatezza, rimanendo fuori dall’ambito di applicazione della tutela prefigurata dall’art. 14 Cost. Seppur oggetto di interpretazione estensiva, in base al principio di tassatività, il limite spaziale entro cui la sfera privata trova protezione deve necessariamente rientrare nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p[15].

All’interno di questa ampia cornice costituzionale «il presidio di un’intangibile sfera di riservatezza» può essere leso non solo attraverso un’intrusione di tipo fisico ma anche attraverso l’uso di strumenti tecnici[16] che rendano «visibile a terzi» quanto si svolge nel luogo di privata dimora[17]. Da qui, è possibile dedurre la ratio della diposizione collocata nell’art. 615-bis c.p. secondo cui sono previste due diverse tipologie di aggressione del bene tutelato che consistono nel procacciamento indebito di notizie o immagini attinenti alla vita privata altrui ovvero nella loro rivelazione e diffusione mediante strumenti di ripresa sonora o visiva[18].

 

4.6. Tenendo conto dell’interpretazione sistematica fornita dalla Corte costituzionale, i giudici de quibus, hanno, dunque, richiamato la nozione di privata dimora elaborata nella sopra citata sentenza D’Amico, basata su tre elementi indefettibili:

a) il luogo deve essere adibito a manifestazioni della vita privata (riposo, studio attività lavorativa etc. etc.) al riparo da intrusioni esterne;

b) tra il luogo e la persona deve sussistere un rapporto di durata apprezzabile e non connotato da mera occasionalità;

c) l’inaccessibilità del luogo da parte di terzi in assenza di consenso del titolare.

 

5. Una volta delineato il quadro giurisprudenziale di riferimento, i giudici di legittimità hanno applicato i parametri appena delineati al caso di specie, per verificare se effettivamente questo fosse sussumibile nella fattispecie criminosa prevista dall’art. 615- bis c.p. Riguardo al primo elemento, i giudici hanno evidenziato che una toilette sia funzionalmente adibita a manifestazioni della “vita intima” del soggetto che ne usufruisce. Quanto al secondo, più problematico nel caso de quo, il collegio ha affermato che la stabilità del rapporto tra il soggetto e il luogo debba essere rilevata in base alla destinazione a cui ad esso è adibito. Secondo la Corte, dunque, trattandosi di un bagno di pertinenza di un circolo privato, deve ritenersi stabile il rapporto che si instaura tra i frequentatori del locale e lo spazio adibito a toilette.

Infine, si è ritenuto sussistente anche il terzo elemento indefettibile, in base al quale è necessario che il luogo non sia accessibile da parte di terzi. Sul punto, si è, infatti, nuovamente sottolineato che siano ammessi ad un circolo privato soltanto i soci, il personale addetto o un numero ristretto di soggetti comunque determinabile dal titolare del circolo, a cui si riconosce il potere di interdire l’ingresso a terzi. Valutazione che non risulta del tutto estranea alla Corte, la quale già nel 2015[19], aveva ritenuto luogo di privata dimora la toilette di uno studio professionale, il cui accesso era limitato soltanto al titolare e i dipendenti dello studio, che dunque potevano inibire l’ingresso a terzi.

Alla luce degli argomenti esaminati, i giudici hanno concluso che l’assunto della difesa in base al quale il reato ai sensi dell’art. 615-bis c.p. sarebbe insussistente perché il bagno nel quale l’imputato ha collocato la telecamera non sarebbe “luogo di privata dimora” ex art. 614 c.p. è manifestamente infondato.

 

 

[1] In tal senso, si veda Cass. pen., Sez. VI, 26 gennaio 2011, n. 7550. Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte ha esaminato il caso in cui un dipendente di una struttura ospedaliera si era indebitamente procurato con il suo cellulare immagini attinenti alla vita privata dei pazienti, fotografandone gli organi sessuali mentre facevano la doccia. Particolarmente rilevante è il fatto che, nel caso de quo, i giudici di legittimità abbiano ritenuto integrato il reato di cui all’art. 615-bis c.p. assimilando le docce di un ospedale, evidentemente frequentate da soggetti ricoverati nella stessa struttura i quali hanno, quindi, una esclusiva disponibilità dei relativi spazi, ad un contesto "domiciliare". Più di recente, v. Cass. pen., Sez. III, 24 maggio 2018, n. 47123, secondo cui l'ambulatorio di un ospedale deve qualificarsi come “luogo di privata dimora”, essendo il suo uso riservato al personale e ai singoli pazienti che vi sono ammessi.

 

[2] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 8 novembre 2006, n. 7550. Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto inammissibile un'interpretazione della norma che vada ad escludere la rilevanza ai sensi dell'art. 615 bis c.p. delle indebite registrazioni effettuate dal marito su conversazioni effettuate dalla moglie ed un terzo nell'abitazione comune. Si è, infatti, affermato che, ai fini della configurabilità del reato di cui trattasi, rileva la violazione della riservatezza domiciliare della persona offesa, indipendentemente dalla disponibilità del domicilio da parte dell'imputato.

 

[3] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 13 maggio 2009, n. 22836, con nota di Marzo, Il concetto di privata dimora relativamente alle intercettazioni ambientali in ospedale, in GI, 2010, 425-427. La Cassazione, intervenendo sulla questione, ha affermato che rientra nell'ambito di applicazione della norma in questione la condotta di chi riprenda l'immagine altrui dall'esterno di un esercizio commerciale ove si svolga il lavoro dei privati, a nulla rilevando che il predetto esercizio sia aperto al pubblico; ciò in quanto l'attitudine della condotta di cui trattasi a ledere l'interesse alla riservatezza viene in rilievo anche nei locali in cui si svolge il lavoro dei privati.

 

[4] Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 26795, Prisco. Nel caso de quo, le Sezioni Unite hanno stabilito che le videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi effettuate in un luogo diverso dal domicilio ma nel quale si svolgano attività destinate a rimanere riservate (nella fattispecie camerini, di un locale pubblico) costituiscono una prova atipica e, pertanto, non possono essere utilizzate nel procedimento penale in mancanza di un provvedimento autorizzativo dell’autorità giudiziaria.

 

[5] Sul punto, si veda ord. GIP Trib. 17 febbraio 2009, con nota di Quero, in GM, 2010, 484-500.

 

[6] Vedi nota n. 4.

 

[7] Cfr. Cass. Pen. Sez. Unite, Sent. 22 giugno 2017, n. 31345, D’Amico. Nel caso di specie, la Corte ha ribadito che rientrano nella nozione di “privata dimora” di cui all’art. 624-bis c.p. anche i luoghi destinati ad attività lavorativa e professionale purché non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare.

 

[8] Sull’individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice in esame, si vedano anche Volta, La tutela penale del diritto alla riservatezzaart. 615 bis cod. pen.: esegesi della norma, in RP, 1989, 635; Mazzà, Considerazioni sul reato di divulgazione di notizie ed immagini attinenti alla vita privata, in GM, 1984, 735.

 

[9] Cfr. Corte cost., 24 aprile 2002, n. 135. Nel caso de quo è stata sottoposta alla Corte la questione di legittimità circa gli artt. 189 e 266-271 c.p.p. nella parte in cui “non estendono la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p. alle riprese visive o videoregistrazioni effettuate nei medesimi luoghi".

 

[10] Sul punto, si veda Silvestri, L’individuazione dei diritti della persona, in Dir. pen. Cont., 2018, 1.

 

[11] Evidenzia come accanto alla tradizionale libertà del domicilio intesa come ius excludendi alios, e cioè come pura e semplice «facoltà di proibire l’ingresso a terzi», vi sia anche il c.d. ius admittendi Pace, Problematica delle libertà costituzionali, Padova, 2003, 212.

 

[12] Cfr. Corte Cost., 16 maggio 2008, n. 149, in Giur. Cost., 2008, 1825 e ss. Nel procedimento de quo, la Corte ha affrontato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 266, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non estendeva la disciplina delle intercettazioni tra presenti «a qualsiasi “captazione di immagini in luoghi di privata dimora”». Nella pronuncia, la Consulta ha aderito alla tesi secondo cui l’art. 14 Cost. accorda una duplice tutela alla libertà di domicilio. Sul punto, ha evidenziato che «l’art. 14 Cost. tutela il domicilio sotto due distinti aspetti: come diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo; e come diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi».

 

[13] Cfr. Montagna, Libertà domiciliare, in AA. VV. Diritti della persona e nuove sfide del processo penale. Atti del XXXII convegno nazionale (Salerno, 25-27 ottobre 2018), Milano, 2019, 120.

 

[14] Sul punto si vedano, ex multis, Cass. pen. Sez. VI, 1° ottobre 2008, n. 40577; Cass. pen. Sez. VI, 5 marzo 2020, n. 9932. Nelle sopracitate sentenze conformi, i giudici di legittimità affermano che integra il reato ex art. 615-bis, la ripresa fotografica da parte di terzi di comportamenti che si svolgono in luoghi di privata dimora solo se questi sono sottratti alla normale osservazione dall'esterno, ma non se i medesimi sono visibili all’esterno da terzi senza ricorrere a particolari accorgimenti. V. altresì la rassegna giurisprudenziale fatta da Corbetta, Osservatorio Corte di cassazione - Diritto penale, in Diritto penale e processo, 2019, 347 ss.

 

[15] In riferimento ai luoghi indicati dall’art. 614 c.p., i giudici di legittimità hanno specificato che il richiamo a suddetta norma ha la funzione di delimitare gli ambienti nei quali l'interferenza nella altrui vita privata assume rilievo penale, ma non anche quella di recepire il regime giuridico dettato da tale disposizione. Risulta, dunque, irrilevante il consenso prestato dal proprietario del luogo, in assenza di quello dell’altra persona la cui riservatezza è lesa. Sul punto, v. Cass. pen., Sez. V, 12 luglio 2012, n. 41021; Cass. pen., Sez. V, 11 ottobre 2011, n. 9235, in relazione alla condotta dell'investigatore privato che aveva effettuato riprese di un rapporto sessuale all'interno di una abitazione privata con il consenso del suo titolare, ma all'insaputa dell'altro soggetto coinvolto nel rapporto.

 

[16] Cfr. Corte cost., 16 maggio 2008, n. 149, cit. Sul punto, il Giudice di legittimità ha affermato che l’articolo 14 della Costituzione funge da «presidio di un’intangibile sfera di riservatezza» che «può essere lesa – attraverso l’uso di strumenti tecnici – anche senza la necessità di un’intrusione fisica».

 

[17] Cfr. Corte cost., 16 maggio 2008, n. 149, cit. Sempre nella medesima sentenza si è affermato che «affinché scatti la protezione dell’art. 14 Cost., non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora; ma occorre, altresì, che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi».

 

[18] È opportuno segnalare l’esistenza di un dibattito dottrinale circa l’inquadramento del rapporto tra le due condotte sopra richiamate. Parte della dottrina, sulla base di una interpretazione letterale dell’art. 615-bis c.p., ritiene, infatti, che le due condotte configurino due distinte modalità di realizzazione del reato (ex multis, Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Vol. I, 2016, 237; Monaco, sub art. 615 bis, in Commentario breve al codice penale, Crespi, Forti, Zuccalà, 2020, 544); di converso, altri Autori sostengono che le due condotte rappresentino due diverse modalità di divulgazione di notizie o immagini indebitamente ottenute, per cui i due termini rileverebbero come sinonimi. In tal senso v. Palazzo, Considerazioni in tema di tutela della riservatezza (a proposito del nuovo art. 615 bis c.p.), in RIDPP, 1975, 148; Mantovani, Diritto alla riservatezza e libertà di manifestazione del pensiero con riguardo alla pubblicità dei fatti criminosi, in Il diritto alla riservatezza e sua tutela penale, Milano, 1979, 537.

[19] Cfr. Cass. Pen. Sez III sent., 30 aprile 2015, n. 264196.