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09 Novembre 2021


Disastro ferroviario di Viareggio: le motivazioni della sentenza di Cassazione

Cass., Sez. IV, sent. 8 gennaio 2021 (dep. 6 settembre 2021), n. 32899, Pres. Fumu, est. Dovere



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1. A distanza di otto mesi dalla pubblicazione del dispositivo, sono state depositate le motivazioni della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha deciso i ricorsi presentati nell’ambito del procedimento penale relativo ai drammatici fatti occorsi nel 2009 nei pressi della ferrovia di Viareggio. La vicenda risale alla sera del 29 giugno 2009, quando, a causa del deragliamento di un treno merci e alla fuoriuscita di gas da una cisterna contenente GPL perforatasi nell'urto, si innescò un vasto incendio che provocò la morte di 32 persone, lesioni gravi e gravissime ai danni di numerose persone, la distruzione totale o il grave danneggiamento di innumerevoli veicoli e molteplici abitazioni adiacenti la stazione di Viareggio, nonché il danneggiamento delle infrastrutture ferroviarie. La causa del deragliamento è stata identificata nel cedimento dell’assile del primo carro del convoglio, determinato dal suo stato di corrosione. 

Per tali eventi furono tratti a giudizio per rispondere dei reati di disastro ferroviario colposo, incendio colposo, omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche e lesioni colpose, gli amministratori e i dirigenti di alcune società del gruppo Ferrovie dello Stato e di alcune società che avrebbero dovuto assicurare la corretta manutenzione del carro. Inoltre venne contestato l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies del d.lgs. 231/2001 a sette imprese coinvolte nel disastro, in relazione ai reati di lesioni personali colpose e omicidio colposo aggravato, ascritti agli imputati facenti parte della compagine delle rispettive società.

All’esito di una complessa motivazione, dove la Corte ha svolto approfondite considerazioni sull’accertamento della responsabilità colposa, i giudici di legittimità hanno ritenuto sussistente il reato di omicidio colposo plurimo a carico di nove imputati, dichiarandolo, tuttavia, prescritto (per tutti gli imputati ad eccezione, come si vedrà, dell’imputato Mauro Moretti, che aveva rinunciato alla prescrizione), quale conseguenza dell’esclusione della circostanza aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, soluzione che ha provocato lo sconcerto delle associazioni sorte a tutela delle vittime della strage. La ritenuta insussistenza dell’aggravante in parola ha altresì comportato l’esclusione della legittimazione attiva di talune delle parti civili costituite; inoltre, è stata il presupposto dell’esclusione della responsabilità degli enti in relazione all’illecito amministrativo previsto dall’art. 25-septies D.Lgs. 231/01.

Rispetto al reato di disastro ferroviario colposo, invece, la decisione ha confermato la condanna inflitta dalla Corte di appello di Firenze a numerosi imputati; per altri imputati la Corte ha invece annullato la sentenza, ritenendo insussistenti alcuni profili di colpa, rinviando per un nuovo giudizio alla Corte d’appello di Firenze.

Nella parte motiva della sentenza vengono anche affrontate alcune importanti tematiche che riguardano la responsabilità degli enti collettivi. Più in particolare, rispetto agli enti stranieri imputati dell’illecito amministrativo citato, in via preliminare, la Suprema Corte si è pronunciata sulla controversa questione dell’estensione della responsabilità ex D.Lgs. 231/2001 all’ente straniero per reati commessi in Italia, affermando la piena applicabilità del D.Lgs. n. 231/01 e del relativo impianto sanzionatorio nei confronti di enti esteri, qualora sia stato commesso nel territorio italiano un reato presupposto da parte di apicali o dipendenti dell’ente stesso, e ciò a prescindere dal fatto che tali enti abbiano sul territorio italiano una sede (anche secondaria) o uno stabilimento (secondo un meccanismo di “traslazione automatica” tra locus commissi delicti del reato presupposto e luogo di commissione dell’illecito da parte dell’ente).

Inoltre la Suprema Corte, decidendo sul ricorso proposto dall’Amministratore Delegato di Ferrovie dello Stato Mauro Moretti, ha svolto innovative considerazioni in tema di responsabilità per colpa dell’amministratore delegato della società capogruppo in relazione ai fatti che si verificano nell’ambito della sfera di competenza di una società controllata, avallando la decisione della Corte distrettuale che aveva riconosciuto la responsabilità dell’AD di Ferrovie dello Stato a titolo d’omissione, ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p., per non aver impedito il disastro.

Di seguito si riportano i passaggi salienti delle 584 pagine che compongono le motivazioni della sentenza.

 

2. Il percorso logico-argomentativo dei giudici di legittimità prende le mosse da alcune considerazioni di ordine generale sulle specificità dell’accertamento della responsabilità colposa e la Corte dopo avere mostrato di aderire ad una concezione normativa della colpevolezza e, più in particolare, alla teoria della doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo[1], si sofferma, con particolar attenzione, sul profilo della c.d. causalità della colpa,

Prima di entrare nel merito della motivazione della sentenza in commento, si ricorda che, come è noto, la teoria della doppia misura della colpa concepisce la colpa come rilevante in due momenti distinti: il momento oggettivo-normativo, ovvero la violazione della regola di condotta, e l’elemento soggettivo-personalistico, fondato sulla capacità del singolo di osservare tale regola. La causalità della colpa rileva nella misura obiettiva della colpa e richiede di indagare se l’evento lesivo rappresenti la concretizzazione del rischio che la regola cautelare disattesa mirava ad evitare. Ciò implica, in un momento successivo all’accertamento della sussistenza del nesso eziologico, una doppia verifica: che l’evento lesivo rientri proprio nell’area di rischi che la regola cautelare intendeva prevenire (c.d. concretizzazione del rischio); e che una condotta osservante avrebbe escluso la possibilità del verificarsi dell’evento nel caso concreto (efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito).

La Corte ha, anzitutto, preso le distanze dall’orientamento, tuttora vivo nella giurisprudenza di legittimità, che, con riferimento al settore della responsabilità datoriale, ha “elevato la posizione di garanzia a unico polo dell’elemento oggettivo[2] del reato omissivo improprio colposo, ritenendo sufficiente, per l’affermazione di responsabilità del datore di lavoro, la sussistenza di una posizione di garanzia – purché fosse in concreto rinvenibile il nesso di causalità e il prescritto elemento soggettivo – non essendo, invece, necessaria l’individuazione di una specifica regola cautelare da cui trarre indicazioni della misura da adottare. La Corte ha, quindi, sposato il più recente indirizzo giurisprudenziale in materia[3] che ha stabilito il principio secondo cui la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso[4].

I giudici di legittimità hanno poi precisato come sia doveroso distinguere i concetti di dovere di diligenza, inteso quale “dovere di adottare le cautele opportune per evitare il verificarsi degli eventi dannosi”, e diligenza doverosa (o regola cautelare), intesa come contenuto modale della predetta situazione giuridica soggettiva[5]; inoltre hanno evidenziato che nell’accertamento della responsabilità colposa non sarebbe sufficiente il riferimento alla nozione di posizione di garanzia per definire il comportamento che si sarebbe dovuto tenere, ma l’indagine dovrebbe necessariamente essere estesa alle regole comportamentali che si impongono nel caso concreto, volte a prevenire la verificazione di eventi del tipo di quelli verificatisi[6].

Svolte queste premesse, la Suprema Corte si è anche soffermata sulla distinzione tra condotta commissiva e omissiva nei reati colposi d’evento, operazione non sempre agevole, attesa l’ineliminabile componente omissiva della colpa, avallando l’orientamento, già espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza sul caso Thyssenkrupp[7], che individua quale criterio discretivo tra azione ed omissione quello della “prevalenza”, che impone di indagare con attenzione il ruolo che ha avuto la condotta dell’imputato nella spiegazione dell’evento[8].

Solo nell’ipotesi in cui ci si trovi effettivamente innanzi ad una condotta omissiva sarebbe lecito parlare di “posizione di garanzia” (e dovere di garanzia); nel caso in cui, invece, la condotta debba essere qualificata come commissiva colposa, più opportunamente, bisognerebbe riferirsi al concetto di “gestione del rischio” e sarebbe doverosa “un’accurata analisi delle diverse sfere di responsabilità gestionale ed organizzativa”, attraverso l’individuazione di specifiche aree di rischio, che delineano l’ambito che conforma l’obbligo del garante, e l’individuazione della figura istituzionale chiamata a gestire quel rischio e dei concreti ruoli esercitati da ciascuno.

Richiamando, poi, i principi elaborati nell’ambito della teoria dell’imputazione oggettiva dell'evento[9], la Corte ha ribadito che nei reati colposi di evento alla causalità materiale debba aggiungersi la causalità della colpa, che implica la doppia verifica connessa all’accertamento che l'evento verificatosi corrisponda alla classe di eventi che la regola cautelare violata intendeva evitare (c.d. concretizzazione del rischio), oltre che la prova dell’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito[10]. Tale accertamento impone, anzitutto, di individuare la classe di eventi che la regola cautelare vuole scongiurare (cosiddetto “fine di tutela della norma”); inoltre, contestualmente, implica la (ri)descrizione dell’evento, al fine di verificare se l’evento concreto appartenga effettivamente alla classe di eventi che la regola cautelare mirava a scongiurare.

3. Dopo tali considerazioni preliminari, la Corte si è concentrata sul significato da attribuire alla nozione di “norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, rilevante in relazione alle aggravanti previste per i delitti di omicidio e lesioni colpose, disciplinate rispettivamente agli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 c.p. Accogliendo i ricorsi di tutti gli imputati, che si dolevano della ritenuta sussistenza del delitto aggravato di omicidio colposo, la Cassazione ha fornito un’interpretazione restrittiva della nozione richiamata.

Ripercorrendo la consolidata giurisprudenza di legittimità in materia, la Suprema Corte ha affermato che, ai fini dell'applicazione degli artt. 589, comma 2, e 590, comma 3, c.p., “la locuzione “norme in materia di prevenzione degli infortuni” chiama in causa regole cautelari volte a eliminare o ridurre non già un generico rischio (di eventi intermedi in quanto prevedibilmente produttivi) di morte o lesioni ma specificamente eventi in danno di lavoratori o di soggetti a questi assimilabili scaturenti dallo svolgimento dell’attività lavorativa”[11].

Ciò posto, la Corte ha altresì rilevato che la nozione opera all'interno e agli effetti di una fattispecie circostanziale aggravatrice; di talché la tradizionale interpretazione estensiva dell’art. 589, comma 2 e dell’art. 590, comma 3, c.p., non deve sconfinare in una vietata interpretazione analogica in malam partem.

Con la conseguenza che “in assenza di chiari indici della tipologia di rischio al cui governo è posta la regola cautelare va adottata un'interpretazione pro reum[12].

Inoltre, pur ammettendosi la possibilità che possa concretizzarsi un rischio lavorativo anche nell’ipotesi in cui l’evento lesivo sia avvenuto a danni di terzi (non lavoratori), tuttavia questi - sempre per scongiurare una violazione del principio del divieto di analogia in malam partemdovrebbero trovarsi esposti a tale rischio alla stessa stregua del lavoratore: in altre parole, il terzo dovrebbe trovarsi in maniera non occasionale sul luogo di lavoro o comunque avere un contatto ravvicinato con la fonte di pericolo; inoltre, l’evento a danno del terzo non dovrebbe essere dipeso da un rischio diverso da quello lavorativo[13].

Concludendo, l’integrazione dell’aggravante in oggetto richiede: a) che sia stata violata una norma a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (non essendo sufficiente, come ritenuto dalla Corte d’Appello, che l’evento si sia verificato “nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa”); b) che l’evento (anche se a danno di soggetto terzo) sia concretizzazione del rischio lavorativo.

Viene, pertanto, affermato il seguente principio di diritto: “ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante di cui all'articolo 589, comma 2 (e art. 590, comma 3, c.p.), la locuzione “se il fatto è commesso (…) con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” va interpretata come riferita ad eventi nei quali risulta concretizzato il rischio lavorativo, per essere quelli causati dalla violazione di doveri cautelari correlati e tale tipo di rischio; e per rischio lavorativo deve intendersi quello derivante dallo svolgimento di attività lavorativa e che ordinariamente ha ad oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori ma può concernere anche la sicurezza e la salute di terzi, ove questi vengano a trovarsi nella medesima situazione di esposizione del lavoratore”.

4. Svolte queste premesse di ordine dogmatico, la Corte ha evidenziato come, nel caso concreto, i giudici di merito abbiano sottovalutato l’esistenza, nel caso di specie, di due aree di rischio distinte: accanto al rischio lavorativo avrebbero dovuto prendere in considerazione anche la diversa area di rischio costituita dal c.d. rischio ferroviario, che attiene alla sicurezza della circolazione ferroviaria e che ben potrebbe “concretizzarsi anche nei confronti dei lavoratori dipendenti, senza per questo mutarsi (…) in rischio lavorativo[14].

Tenendo conto della specificità delle due diverse aree di rischio, a cui si rapportano specifici gestori e specifiche regole comportamentali, ai fini dell’accertamento delle responsabilità dei singoli imputati ricorrenti per il reato di omicidio aggravato, sarebbe stato doveroso accertare per ciascun fatto tipico se si fosse concretizzato il rischio lavorativo. Più in particolare era doveroso verificare “per ciascun imputato se le norme a contenuto cautelare da ognuno violate, con effetto sul meccanismo causale che ha condotto agli omicidi loro ascritti, siano o meno da qualificarsi come “norme per la prevenzione sugli infortuni sul lavoro”, avendo, al contrario, le Corti di merito “fuso i singoli eventi in un unico complessivo evento, aprioristicamente qualificato “infortunio sul lavoro[15], adottando una errata impostazione generalizzante[16].

Il percorso argomentativo adottato dalla Suprema Corte procede, poi, nella disamina delle principali disposizioni richiamate nelle contestazioni, evocate come “norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Sulla base del presupposto per cui le “norme prevenzionistiche sono solo quelle che assumono a presupposto non il generico rischio connesso all’esercizio di attività pericolose ma lo specifico rischio lavorativo[17], la Cassazione ha escluso l’idoneità delle disposizioni contenute agli artt. 2043 e 2050 c.c. ad assurgere a regole cautelari in materia antinfortunistica, atteso il loro più ampio spettro preventivo. Ha, quindi, sostenuto che le sole norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro - contestate agli imputati ricorrenti - che astrattamente possono sostenere il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 589, co. 2, c.p. sono quelle previste dagli artt. 2087 c.c., 23[18], e 24[19] d.lgs 81/08. Sia l’art. 23 che l’art. 24 del decreto del 2008 sono norme che mirano a prevenire gli infortuni sul lavoro; tuttavia, la prima norma può essere invocata solo per coloro ai quali può imputarsi la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezioni ed impianti. Mentre la seconda norma si riferisce unicamente agli installatori e ai montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici[20].

Tanto considerato, la Corte ha escluso che in concreto, le violazioni delle tre norme richiamate abbiano avuto un ruolo causale nella verificazione degli eventi omicidiari (soffermandosi nel prosieguo della motivazione sulle singole posizioni dei ricorrenti, escludendo caso per caso che gli imputati avessero violato norme antinfortunistiche)[21].

5. La prima implicazione connessa all’esclusione del ricorrere dell’aggravante in parola in relazione ai fatti omicidiari è l’inapplicabilità dell’art. 157, co. 6, c.p., norma che prevede il raddoppio dei termini prescrizionali ordinari in relazione, tra gli altri, al reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme prevenzionistiche. Di conseguenza, la Corte ha dichiarato l’estinzione dei reati di omicidio colposo ascritti ai ricorrenti, in quanto prescritti successivamente all’emissione della sentenza di primo grado, annullando, sul punto, senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata. La Corte ha, quindi, investito altra sezione della Corte d’Appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio in relazione al reato di disastro ferroviario colposo, riaffermando il principio di diritto, già riconosciuto dalle Sezioni Unite della Corte[22], per cui “nella rideterminazione della pena non si incorre nella violazione del divieto di reformatio in peius se il giudice dell’impugnazione o del rinvio, per effetto del mutamento della struttura del reato continuato per essere la regiudicanda satellite divenuta più grave, apporti per uno dei fatti unificati dalla identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore[23].

 

6. Quanto alla posizione dell’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, la Suprema Corte ha ritenuto di non poter dichiarare nei suoi confronti l’estinzione per prescrizione dei reati di omicidio colposo, avendo il predetto, come anticipato, reso in sede d’appello dichiarazioni inequivocabilmente dirette alla rinuncia del termine prescrizionale in relazione ai reati sino a quel momento già prescritti.

Nell’occasione la Corte ha ribadito alcuni principi costanti nella giurisprudenza di legittimità, circa i requisiti di validità della rinuncia da parte dell’imputato al termine prescrizionale.

Anzitutto è stato affermato che la rinuncia alla prescrizione è valida solo se il relativo termine sia già maturato al momento della rinunzia medesima, poiché solo da quel momento l'interessato potrebbe realmente valutarne gli effetti[24]; tuttavia, deve essere ulteriormente valutata la particolare ipotesi in cui la conoscibilità dell’effetto estintivo sia posteriore al tempo del prodursi dello stesso, in ragione dell’incidenza della valutazione giudiziale sul prodursi dell’effetto estintivo; in particolar modo la Corte ha affermato che “l’accento posto sulla discrezionalità giudiziale pone in luce la possibilità che l’estinzione del reato, che usualmente si sostiene viene “dichiarata”, sia invece effetto di più o meno complesse valutazioni giuridiche, che talvolta investono la qualificazione giuridica del fatto (come nel caso che ci occupa, nel quale viene esclusa un’aggravante) (…) ciò incide quanto meno sulla conoscibilità del fenomeno estintivo, che risulta possibile solo all’esito del giudizio[25].

Quando l’effetto estintivo si sia prodotto, come nel caso di specie, solo all’esito del procedimento, per effetto di una decisione “improvvisa e inaspettata”, il rimedio che consente di garantire l’effettività del diritto alla rinuncia è quello di riservare al giudice del rinvio la verifica dell’effettiva volontà dell’imputato.

Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha ritenuto non efficace la rinuncia alla prescrizione dichiarata dal Moretti nel corso del giudizio di merito in relazione al reato di omicidio colposo, poiché al momento della dichiarazione “non risultava decorso il termine che si riteneva pertinente” (rectius la causa estintiva non era dall’imputato conosciuta). Ha quindi investito il giudice del rinvio di valutare l’effettiva volontà dell’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato di rinunciare alla prescrizione anche rispetto al delitto di cui all’art. 589 c.p.

 

7. Seconda conseguenza dell’esclusione dell’aggravante in parola è la ritenuta carenza di legittimazione attiva degli enti morali di cui era stata ammessa la costituzione come parti civili, sul presupposto che avevano tra i propri scopi statutari la tutela della sicurezza e salute dei lavoratori. Il riferimento è, anche, agli enti sindacali, la cui costituzione aveva trovato fondamento nella volontà di far valere i danni subiti per il fatto che le morti erano scaturite da violazioni della materia prevenzionistica. Nell’occasione la Suprema Corte ha ribadito come “la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio e lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, è ammissibile, indipendentemente dall’iscrizione del lavoratore al sindacato, quando l’inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell’azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali[26] e che “ove si tratti di omicidio o lesioni commesse con violazione delle norme prevenzionistiche la lesione del diritto è ritenuta esistente in re ipsa e con essa anche il conseguente pregiudizio, quanto meno potenziale e sub specie di danno non patrimoniale[27].

In sintesi, il venir meno dell’aggravante della violazione della normativa antinfortunistica ha fatto venir meno la legittimazione attiva a costituirsi parti civili di tutte quelle associazioni che perseguivano quale finalità essenziale o prevalente dell’ente la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori:oltre ai sindacati costituiti parti civili[28], la Cassazione ha annullato la sentenza d’appello con riferimento alle statuizioni civili in favore di sei ferrovieri rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, che si erano costituiti parte civile, in rappresentanza degli addetti del settore[29].

 

8. L’ultima implicazione dell’impossibilità di riconoscere la fattispecie circostanziale del reato d’omicidio è la ritenuta insussistenza dell’illecito di cui all’art. 25-septies del D.Lgs. 231/01, circostanza che ha portato la Corte ad annullare la sentenza emessa dalla Corte d’Appello nella parte dove veniva affermata la responsabilità delle persone giuridiche.

 

9. Come anticipato, nella pronuncia in commento la Suprema Corte è intervenuta, in via preliminare, anche sul tema della possibilità che anche le società straniere operanti in Italia possano essere chiamate a rispondere ai sensi del D.Lgs. 231/2001 per reati commessi sul nostro territorio[30], ribadendo la tesi già affermata da Cass. Pen., sez. VI, 11 febbraio 2020, n. 11626[31].

Per meglio comprendere gli snodi argomentativi della sentenza, pare opportuno richiamare brevemente i termini dell’acceso dibattito dottrinale sul punto; come è noto, infatti, poiché il decreto 231 non regola l’ipotesi presa in considerazione, il tema è oggetto di contrasto in dottrina.

I diversi orientamenti partono da prese di posizione distinte rispetto al modo di concepire il rapporto intercorrente tra il reato presupposto della responsabilità amministrativa e l’illecito dell’ente[32]. Di fatto si contrappongono due tesi[33]: la prima considera il reato presupposto e l’illecito amministrativo come fenomeni tra loro non scindibili e, pertanto, radica il locus commissi delicti dell’illecito amministrativo dipendente da reato nel medesimo luogo in cui viene posto in essere il reato presupposto da parte dell’autore persona fisica (soggetto che riveste una posizione apicale o para-apicale nell’ente)[34]. La seconda considera come non strettamente interdipendenti il reato della persona fisica – che costituirebbe un mero presupposto per la responsabilità ex art. 231/2001 – e l’illecito della persona giuridica. Secondo questa impostazione, il fondamento della responsabilità amministrativa degli enti si radicherebbe nella “colpa d’organizzazione” connessa alla mancata/inadeguata adozione del modello organizzativo; di talché il locus commissi delicti dell’illecito amministrativo non potrebbe essere individuato in maniera automatica nel luogo in cui viene perpetrato il reato presupposto da parte della persona fisica: la giurisdizione italiana e, di conseguenza, il regime sanzionatorio previsto dal citato decreto, dipenderebbero allora dal fatto che nel territorio italiano sia radicato il centro decisionale dell’ente (luogo in cui, quindi, si verifica la carenza organizzativa)[35]. In altre parole, per l’applicabilità della normativa italiana, sarebbe necessario che, oltre al reato presupposto, anche la lacuna organizzativa si fosse verificata in Italia[36].

Accanto a tali posizioni, una dottrina minoritaria ha prospettato una posizione intermedia, in base alla quale ai fini dell’applicabilità della legge italiana in materia di responsabilità degli enti esteri si dovrebbe fare riferimento al c.d. interesse economico: secondo questo orientamento, l'ente, per poter rispondere alla luce della nostra normativa, deve essere ‘presente' nel territorio italiano e, per far sì che tale requisito sia soddisfatto, basterebbe che il reato-presupposto della responsabilità amministrativa sia stato commesso in Italia nel suo interesse[37].

La Cassazione, nel caso in commento, ha confermato l'unanime indirizzo giurisprudenziale che sostiene la tesi dell’automatica applicabilità del D.Lgs. 231/01 agli enti di diritto straniero, giudicando condivisibile il percorso logico argomentativo contenuto nelle pronunce sul tema, che si fonda su una lettura sistematica delle disposizioni contenute nel Decreto 231.

Più in particolare, la Corte ha ritenuto di avallare gli argomenti che si fondano sul disposto dell’art. 36 del Decreto 231/01, norma che, disponendo, al primo comma, che “la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell'ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono”, radicherebbe la giurisdizione rispetto all’illecito amministrativo nello stesso luogo in cui è commesso il reato presupposto da parte della persona fisica. Inoltre, il disposto dell’art. 38 del citato decreto esprimerebbe un chiaro favore per il simultaneus processus ai fini dell’accertamento del reato presupposto e dell’illecito amministrativo da esso dipendente[38].

La centralità del luogo di commissione del reato-presupposto, anche al fine di radicare la giurisdizione per l’illecito amministrativo, sarebbe confermata anche dal disposto dell’art. 4 del Decreto 231, che - nel disciplinare la situazione opposta in cui il reato-presupposto sia stato commesso all'estero nell'interesse o a vantaggio di un ente avente la sede principale in Italia - assoggetta l'ente alla giurisdizione nazionale nei casi e alle condizioni previste dagli artt. 7, 8, 9 e 10 cod. pen., purché nei suoi confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto, realizzando una parificazione rispetto all'imputato persona fisica (salvo il limite del bis in idem internazionale). E “non vi sono ragioni per ritenere che alle persone giuridiche si applichi una disciplina speciale rispetto a quella vigente per le persone fisiche, che permetta loro di non essere assoggettate ai principi di obbligatorietà e di territorialità della legge penale codificati agli artt. 3 (…) e 6, comma primo, cod. pen[39]. Pertanto, secondo la Cassazione, anche i principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale si applicherebbero pacificamente anche alle persone giuridiche e qualora si ritenesse che tali principi non si applicassero agli enti, si realizzerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento fra la persona fisica straniera (pacificamente soggetta alla giurisdizione nazionale in caso di reato commesso in Italia) e la persona giuridica straniera (in caso di reato-presupposto commesso in Italia).

La Suprema Corte ha poi ritenuto necessario integrare le argomentazioni sopra brevemente riportate (ricorrenti nella giurisprudenza di merito e legittimità) con ulteriori considerazioni. Anzitutto, ha evidenziato come la scelta legislativa di non disciplinare la materia in commento non comporti automaticamente l’esclusione dell’applicabilità della normativa in materia di responsabilità amministrativa degli enti con sede principale all’estero; anzi, l’intentio legis che emergerebbe dalla Relazione governativa al decreto 231, sottesa all’introduzione dell’art. 4, non era affatto, a detta della Cassazione, quella di ritrarre la legislazione nazionale, quanto piuttosto quella di espanderla[40].

Ma, soprattutto, ha evidenziato come “la chiave di soluzione al quesito interpretativo” debba rinvenirsi in due considerazioni, una avente natura formale e una sostanziale. La prima considerazione attiene alla natura della responsabilità per illecito attribuibile agli enti, che viene espressamente qualificata dal legislatore come amministrativa. Ed è proprio la natura amministrativa della responsabilità che, a detta della Corte, avrebbe indotto il legislatore ad inquadrare il tema della titolarità della cognizione per l’illecito amministrativo al concetto di “competenza”, piuttosto che a quello di “giurisdizione”; e che “solo per il reato commesso all’estero si può ipotizzare una possibile questione di giurisdizione, ricorrente allorquando la relativa cognizione risulta assegnata ad organo giurisdizionale estero[41].

Ma l’argomento decisivo è di carattere sostanziale e attiene al ruolo del reato presupposto nella fattispecie dell’illecito dell’ente.

Più in particolare, partendo da una ricostruzione dell’illecito dell’ente quale fattispecie complessa, incentrata sul reato-presupposto, dove l’ente risponde per un fatto proprio in forza di un rapporto di immedesimazione organica che lega la persona fisica autrice del reato e la societas, e dove la colpa d’organizzazione assume una funzione non dissimile da quella assunta dalla colpa nel reato[42] (che è elemento costitutivo del fatto tipico, e nucleo della colpevolezza), la Cassazione è giunta ad affermare che “il luogo di consumazione dell’illecito dell’ente è quello in cui si consuma il reato presupposto[43] e che “non vi è stata necessità di prevedere disposizioni che regolassero esplicitamente il tema della giurisdizione sull’illecito dell’ente perché esso è risolto dal nesso di dipendenza con il reato presupposto, sicché il potere di conoscerne è in capo al giudice nazionale se e in quanto egli ha giurisdizione su quest’ultimo”. La centralità del reato presupposto nella struttura dell’illecito dell’ente troverebbe conferma, a detta della Suprema Corte, nei sopra citati artt. 36 e 38 del Decreto 231, oltre che nella configurazione della responsabilità dell’ente come “dipendente” da reato; la Corte ha da ultimo evidenziato che, qualora il legislatore avesse scelto di radicare la giurisdizione per l’illecito dell’ente nel luogo di commissione della condotta (ovvero nel luogo della mancata adozione del modello organizzativo, che coincide con il centro gestionale e decisionale dell’ente), non sarebbe stata necessaria l’introduzione dell’art. 4 del Decreto 231, che ha per presupposta l’integrazione in Italia della colpa d’organizzazione, di talché la giurisdizione del giudice italiano per il reato commesso all’estero ne sarebbe stata una fisiologica conseguenza.

Sulla base di tali considerazioni sono stati respinti i ricorsi presentati nell’interesse degli enti esteri, sul presupposto che tutte le doglianze lamentate dalle società ricorrenti si fondassero su di una non condivisibile “ipervalorizzazione della colpa di organizzazione, con assoluta marginalizzazione del reato-presupposto ai fini della identificazione del luogo di commissione dell’illecito dell’ente[44].

 

10. Nella parte finale della motivazione, decidendo specificamente sul ricorso di Mauro Moretti, quale AD di Ferrovie dello Stato e di Ferrovie dello Stato Spa, quale responsabile civile, la Suprema Corte si è anche soffermata sulla tematica, dibattuta in dottrina, della responsabilità dell’amministratore della capogruppo in relazione a reati commessi nell’ambito dell’attività delle controllate, svolgendo interessanti ed innovative considerazioni sul fenomeno del Gruppo di imprese e affermando il principio per cui è possibile l’attribuzione di una responsabilità per colpa anche a carico dell’amministratore delegato della capogruppo per fatti verificatisi in una controllata.

Partendo dalla vicenda processuale si deve ricordare come, sul punto, le due sentenze di merito fossero pervenute a conclusioni opposte, pur condividendo l’assunto per cui il mero esercizio dei poteri di direzione e coordinamento ex art. 2497 c.c. non possa assumere rilievo penalistico, oltre a condividere la valutazione per cui, nel caso concreto, non fosse emersa alcuna prova di una ingerenza sostanziale della controllante rispetto alle scelte operate in seno alle subsidiaries (con la conseguenza che la capogruppo non poteva considerarsi amministratrice di fatto della controllata).

Più in particolare, il Tribunale di Lucca aveva escluso la responsabilità penale dell’amministratore delegato della holding, sostenendo che il mero esercizio dei poteri di direzione e di coordinamento di cui all’art. 2497 c.c. non potesse attribuire all’amministratore delegato una effettiva posizione di garanzia ex art. 40 cpv c.p.

La Corte d’Appello, aveva, invece, ritenuto sussistente una posizione di garanzia dell’amministratore di diritto della capogruppo in ragione della struttura dei rapporti con le controllate, posto che lo stesso avrebbe avuto un ruolo di “co-gestore nel settore della sicurezza del trasporto ferroviario sia mediante interventi diretti sia mediante il controllo delle attività svolte in tale campo dalle controllate”; infatti la capogruppo aveva assunto “un obbligo giuridico di gestione anche dei rischi propri delle controllate … attribuendosi … il potere di disposizione sugli investimenti proposti dalle controllare anche in tema di sicurezza[45].

La Suprema Corte, per rispondere al quesito se l’amministratore delegato della società capogruppo possa rispondere per colpa dei fatti che si sono verificati nell’ambito della sfera di competenza di una società controllata, ha preso le mosse da un esame del fenomeno dei gruppi d’imprese; più in particolare, dall’analisi della disciplina civilistica di tali entità, si desumerebbe che in capo agli amministratori della holding possono effettivamente individuarsi “un nucleo di poteri caratteristici e in corrispondenza degli stessi un nucleo di corrispondenti doveri; in ragione di essi anche all’amministratore della holding fa capo una sfera di competenza, esercitata attraverso i poteri di direzione e coordinamento[46].

I giudici di legittimità hanno anzitutto richiamato la disciplina prevista dal Capo IX del Titolo V del Libro quinto del Codice Civile, rubricato “Direzione e coordinamento di società”, che regolamenta sotto diversi profili gli effetti della riconosciuta esistenza di aree di aggregazione tra imprese caratterizzate da una unitarietà dell’indirizzo gestionale e organizzativo[47]. L’art. 2497-sexies c.c. identifica il soggetto titolare dell’attività direzionale in quella persona fisica o giuridica che esercita il controllo (organico o di fatto) sulle altre componenti del gruppo.

In tale quadro, l’attività di direzione e coordinamento di società può essere fonte di responsabilità civile. Infatti, ai sensi dell’art. 2497 c.c., “le società e gli enti coordinatori, dato che agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio ed altrui, in caso di violazione dei principi di corretta gestione societaria, assumono la diretta responsabilità nei confronti dei soci per il pregiudizio arrecato e nei confronti dei creditori sociali per la eventuale lesione del patrimonio sociale della controllata[48].

Sul versante della responsabilità penale manca, invece, una definizione normativa del fenomeno giuridico-economico del gruppo, che a detta della Sprema Corte dovrebbe identificarsi in quel particolare attore economico che agisce nell’interesse di gruppo, nel cui ambito l’attività di ciascuna delle società controllate, dotate di autonomia giuridica, deve contribuire al conseguimento dell’interesse del gruppo.

In questo quadro, l’autonomia delle singole controllate non deve, a detta della Suprema Corte, tuttavia, celare il reale assetto dei rapporti correnti tra controllante e controllata, essendo, nella dimensione penalistica, sempre necessario, al di là del dato formale, cogliere l’effettiva e concreta dinamica delle relazioni intersoggettive. Più specificamente, la Cassazione ha aggiunto che “il dato dell’appartenenza al gruppo sia esso stesso per la holding un rischio da presidiare (…) attraverso la proceduralizzazione delle aree direttamente rilevanti (…) la sollecitazione diretta alle società controllate all’adozione di principi etici comuni, nonché di modelli e organismi di vigilanza coerenti nell’impostazione della controllante[49].

Tanto premesso, è stato affermato un primo principio innovativo sul tema qui oggetto di approfondimento, ovvero che l’autonomia degli amministratori della controllata non è d’ostacolo all’ipotizzabilità di una responsabilità degli amministratori della capogruppo; si legge nella sentenza in commento che “né i poteri di direzione e di coordinamento né l’autonomia giuridica degli organi di gestione delle controllate sono ontologicamente incompatibili con la titolarità, in capo all’amministratore della capogruppo, di una competenza inerente eventuali aree di rischio connesse alle attività di impresa” e che “ai fini della identificazione di una competenza (…) va considerato il concreto contenuto dei poteri detenuti, rispetto al quale il dato nominalistico risulta recessivo[50].

Determinante ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’amministratore della holding risulta, quindi, la valutazione del contenuto concreto dei poteri detenuti.

A fini esemplificativi la Cassazione porta il caso di una capogruppo che definisca criteri di indebitamento delle controllate risultanti oggettivamente incompatibili con la sostenibilità delle spese richieste dalla messa a norma degli impianti sotto il profilo della sicurezza del lavoro e degli amministratori della controllata che, nella giuridica possibilità di deliberare un indebitamento in contrasto con quei criteri, tuttavia si adeguino ai criteri impartiti. Osservano i giudici di legittimità che “sul piano penalistico non sembra che l’autonomia degli amministratori della controllata sia di ostacolo alla ipotizzabilità di una responsabilità degli amministratori della capogruppo per avere adottato deliberazioni conducenti alla violazione della disciplina antinfortunistica[51].

La Suprema Corte, poi, richiamato quanto affermato dalle Sezioni Unite a proposito della figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione[52], ha, affermato che in capo allamministratore della capogruppo debba essere riconosciuto un fascio di poteri in grado di incidere sulla gestione del rischio affidata sul piano operativo alle società controllanti; ciò in ottemperanza alla teoria della competenza nella gestione del rischio, che in un contesto plurisoggettivo non è riconoscibile solo nel caso in cui si abbiano poteri direttamente operativi, ma anche quando si ha potere di incidere sullesercizio di questi. Se questi poteri “sono esercitati in modo negligente, imprudente o imperito e ciò abbia efficacia causale nella verificazione dellevento, risultano concretizzati i primi presupposti della responsabilità colposa[53].

In sintesi, quindi, accanto all’ipotesi pacificamente ammessa in cui l’amministratore della capogruppo determina scientemente l’amministratore della controllata a commettere un reato, approfittando della sua posizione di supremazia, e al caso dell’amministratore della capogruppo che opera come amministratore di fatto della controllata, la Suprema Corte ha ammesso che possa sussistere una responsabilità diretta dellamministratore della capogruppo per lesercizio colposo dei poteri di direzione e coordinamento, qualora ricorrano specifici indici di ingerenza nell’attività delle controllate, e sempre che sussistano tutti i requisiti della responsabilità colposa (tra cui la valenza impeditiva del comportamento alternativo lecito)[54].

Nella specie, la Corte ha ritenuto di avallare la decisione della Corte d’Appello, che, guardando al reale assetto dei poteri attribuiti alla capogruppo, ha concluso nel senso di ritenere sussistenti in capo alla holding significative competenze gestorie[55] e, in capo all’amministratore della holding, specifiche competenze nella gestione del rischio per la sicurezza ferroviaria[56].

La Cassazione ha in definitiva ritenuto che l’amministratore delegato della società capogruppo avesse assunto una effettiva posizione gestoria (analoga ma distinta da quella degli amministratori delle controllate), “in modo autonomo, non ingerendosi indebitamente nella gestione delle controllate ma esercitando i poteri, fortemente interferenti con l’autonomia di queste ultime, che la società capogruppo si è attribuita con propria autoformazione”; pertanto, anche l’amministratore delegato della holding era tenutoa valutare i rischi ad essi connessi e ad assumere le iniziative necessarie per il rispetto della sicurezza dei lavoratori”.

 

11. Si rilevano, da ultimo, alcune tematiche residuali, trattate dalla Suprema Corte nel vaglio dei singoli motivi di doglianza proposti dai ricorrenti.

Tra queste, la Corte ha svolto alcune considerazioni in punto di valutazione della prova espertanell’ambito dellaccertamento del nesso di causalità nei reati omissivi impropri, respingendo le censure mosse nel ricorso di Kriebel Uwe, che si doleva di un difetto di motivazione nella sentenza d’appello circa l’accertamento del nesso di causalità e, più in particolare, circa il giudizio di individualizzazione della legge scientifica statistica di riferimento[57].

Richiamando i principi affermati dalle Sezioni Unite in tema di causalità nell’ambito dei reati commissivi mediante omissione si è chiarito che, nell’ambito della causalità omissiva, “per prevedere ciò che sarebbe accaduto nel singolo caso oggetto del processo è di grande importanza conoscere cosa accade nei casi simili. Occorre dunque rivolgersi alle generalizzazioni formatesi a proposito del nesso causale che c’interessa, se esistenti. Il primo punto delicato, dunque, riguarda l’acquisizione di generalizzazioni pertinenti e affidabili. Nell’ambito di cui si discute le generalizzazioni scientifiche o esperienziali vengono utilizzate in chiave eminentemente deduttiva e, per tale ragione, è assai importante il coefficiente probabilistico (si parla di probabilità statistica) della regolarità causale di cui ci si avvale. Tuttavia spesso “non disponiamo affatto di informazioni sufficientemente esaustive ed affidabili, esse hanno carattere molto generale e non appaiono focalizzate sui tratti della specifica vicenda oggetto del processo”. Tale ineliminabile margine di incertezza che caratterizza la legge statistica va superato introducendo nellargomentazione probatoria un momento di tipo induttivo, che si concreta nella “corroborazione processuale dellipotesi attraverso lo studio dei caratteri del fatto storico, onde cogliere i segni dellinveramento particolare della legge generalizzante[58].

In sintesi, l’accertamento della causalità omissiva implica il duplice passaggio della verifica dell’attendibilità della legge predittiva sul piano generale e del successivo accertamento della causalità individuale, mediante l’individualizzazione della legge scientifica statistica di riferimento.

Rispondendo alle censure di inadeguatezza della legge di copertura, la Corte ha poi svolto alcune considerazioni sulla c.d. teoria o tesi solitaria, ovvero quella teoria non ancora sottoposta al vaglio di accreditamento da parte della comunità scientifica e che, quindi, non risponde agli indici stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla sentenza Cozzini sulla valutazione della prova scientifica. Tale questione è stata approfondita per respingere la censura alla sentenza d’appello mossa nel ricorso di Kriebel Uwe, ove si era sostenuto che la Corte distrettuale non aveva considerato, nell’individuazione della legge di copertura, quanto sostenuto dal proprio consulente tecnico dr Poshmann, unica “voce dissonante” tra i consulenti nella ricostruzione delle cause del disastro. La Corte d’appello, in effetti, aveva respinto la ricostruzione del ct di parte, in assenza di prove del necessario accreditamento della tesi nella comunità scientifica.

La Corte, avallando il giudizio della Corte distrettuale, ha affermato che il giudice ben potrebbe porre a fondamento una teoria c.d. solitaria, a condizione che ciascuna delle assunzioni a base della teoria sia verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo dellattendibilità scientifica di essa e dellaffidabilità dellesperto[59].

Nel caso di specie la difesa del ricorrente si era limitata a sostenere come la tesi del proprio consulente trovasse conforto in altri studi scientifici, senza, tuttavia, fornire dimostrazione concreta dell’attendibilità scientifica della stessa.

 

12. La Cassazione ha inoltre svolto alcune considerazioni interessanti in punto di traduzione degli atti del procedimento penale, respingendo il primo motivo di ricorso del ricorrente Lehmann Joachim, laddove si sosteneva la nullità, nei suoi confronti, dellatto dappello del PM perché non tradotto in lingua a lui nota.

Più nel dettaglio, la Corte è partita da una duplice considerazione: anzitutto, ha sostenuto che rispetto allatto di impugnazione del Pubblico Ministero non possa ipotizzarsi, in caso di mancata traduzione in lingua nota allimputato, la sanzione della nullità, non essendo atto giurisdizionale[60]; inoltre, non trattandosi di atto di esercizio dell’azione penale si deve altresì escludere l’applicazione dell’art. 178, lett. b) c.p.p.

D’altro canto, lart. 143, comma 2, c.p.p.[61], che regola i casi in cui è dovuta all’imputato che non comprenda la lingua italiana la traduzione di alcuni atti del procedimento, è norma espressamente indirizzata al giudice, non anche al PM e non contempla tra gli atti a traduzione necessitata l’impugnazione del PM.

Non resta che verificare se l’ipotesi considerata (atto di impugnazione del pubblico ministero non tradotto in lingua comprensibile all’imputato) rientri tra i casi previsti dallart. 143, comma 3, c.p.p.[62], che disciplina la possibilità di traduzione di atti diversi da quelli tassativamente elencati nel comma 2 della stessa norma, nell’ipotesi in cui siano essenziali per consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico. A tal riguardo, la Corte ha preso le distanze dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha affermato il principio per cui l’atto di impugnazione del PM, in quanto concretante una richiesta di parte, non sia mai suscettibile di incidere sull’accusa e, di conseguenza, non vi sarebbe alcun obbligo di traduzione dello stesso[63]; in altre parole, secondo tale posizione, la mancata traduzione dell’atto di impugnazione non concreterebbe alcuna lesione del diritto di difesa, in quanto tale atto sarebbe il mezzo con il quale sono mosse censure al provvedimento del giudice, che, tuttavia, non contiene "ex se" alcun ulteriore addebito in ordine al quale insorga una ulteriore necessità difensiva dell'imputato, ne' instaura un nuovo rapporto processuale, sicché non vi è obbligo di traduzione dell'atto stesso che è limitato solo agli atti di contestazione dell'accusa. Tuttavia, tale orientamento, a detta della Suprema Corte, non terrebbe conto dell’innovazione introdotta dall’art. 1, co. 1, lett. b) d.lgs n. 32 del 4.03.2014, che ha sostituito l’originario testo dell’art. 413 c.p.p.[64].

Tanto premesso, poiché il vizio deve tradursi in un effettivo pregiudizio del diritto di difesa, sarebbe doveroso valutare, ai fini della necessità della traduzione, se, caso per caso, latto di impugnazione del PM sia stato essenziale o meno per la conoscenza dellaccusa. E la Suprema Corte ha valutato che, nel caso concreto, l’atto d’appello del PM non fosse stato essenziale per la conoscenza dell’accusa[65].

 

13. Da ultimo, respingendo le doglianze difensive proposte da alcuni dei ricorrenti in punto di violazione del principio di immutazione, la Suprema Corte ha svolto alcune considerazioni sul principio di correlazione tra accusa e sentenza, con particolare riguardo alle specificità dei reati colposi.

Partendo da un’interpretazione teleologica del principio richiamato, per cui l’art. 521 c.p.p. non imporrebbe una conformità formale tra i termini in comparazione ma solamente la necessità che il diritto di difesa dell’imputato sia stato effettivamente garantito[66], la Corte evidenzia che in materia di reati colposi “la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà”. Infatti, “la condotta colposa – in specie omissiva (…) – può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale e di quello normativo (…) nei reati omissivi colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce lobbligo di facere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata. (…) luna e laltra operazione sono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato lagente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare[67].

Tanto premesso, la Corte ha riaffermato il principio di diritto per cui è necessario tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali, essendo consentito al giudice, in caso di corrispondenza tra tali elementi, di aggiungere agli elementi di fatto contestati anche altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, purché in concreto non sottratti allesercizio del diritto di difesa[68]. La Corte, a titolo esemplificativo, ha fatto riferimento al caso dell’imputato a cui siano contestati profili di colpa generica, poi condannato a titolo di colpa specifica; tale ipotesi, alla stregua delle considerazioni svolte, non costituisce, a parere dei giudici di legittimità, una violazione del principio di immutazione.

Inoltre la Corte ha rilevato come la proiezione teleologica del principio in commento “conduce a ritenere che, ai fini della verifica da parte del giudice del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l’estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto)[69].

 

 

[1] Sulla concezione normativa della colpa e sulla teoria della doppia misura della colpa si rinvia in particolare, ex multis, a S. Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, in Ind. pen., 2012, pp. 21 ss, e F. Giunta, La normatività della colpa penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, pp. 86 ss.

[2] Cass. Pen., Sez. IV, 6 settembre 2021 (ud. 8 gennaio 2021), n. 32899, p. 292. Secondo l’ orientamento richiamato, infatti, l’art. 2087 c.c., che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, sarebbe disposizione da sola in grado di giustificare l’attribuzione dell’evento infausto, pur in assenza di una specifica regola cautelare da cui trarre indicazioni della misura concreta da adottare.

[3] Cfr. ex multis Cass. Pen., Sez. IV, n. 5404 del 8 gennaio 2015, Rv. 262033.

[4] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 292.

[5] Distingue i due concetti anche Cass. Pen., Sez. IV, n. 12748 del 25 marzo 2016, relativa al terremoto dell’Aquila sulla responsabilità della Commissione Grandi Rischi.

[6] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 293.

[7] Cass. Pen., Sez. Un, 24 aprile 2014, n. 38343, Espenhahn et al.

[8] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 299.

[9] Come è noto, tale teoria è di elaborazione della dottrina tedesca, ma è stata largamente accolta anche dalla dottrina e giurisprudenza italiane. Ideatore della teoria è C. Roxin, le cui linee di pensiero sono riassunte in La problematica dell'imputazione oggettiva, in Politica criminale e sistema del diritto penale. Saggi di teoria del reato, Napoli, 1998. Nella dottrina italiana cfr. ex multis: M. Donini, Lettura sistematica delle teorie della imputazione obiettiva dell'evento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, pp. 1115 ss.; A. Pagliaro, Imputazione obiettiva dell'evento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 779 ss.; C. Longobardo, Causalità e imputazione oggettiva, Napoli, 2011.

[10] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 299.

[11] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 306.

[12] Ibid., p. 308.

[13] Ibid., p. 311

[14] Ibid., p. 313.

[15] Ibid., p. 314.

[16] Si legge a p. 314 della pronuncia in commento che: “Palesemente erronea è quindi l’affermazione per la quale, avendo i due macchinisti del treno deragliato e il personale operante nella stazione di Viareggio corso un gravissimo rischio di lesioni, non si può dubitare che il sinistro si sia verificato “nel corso di un’attività lavorativa, in danno di lavoratori e con violazione delle norme poste a loro tutela”. In tal modo, si ripete, viene smarrito il dato, essenziale, della autonomia dei plurimi reati di omicidio e la necessità conseguente di verificare che ciascuno di essi sia stato commesso con violazione delle norme prevenzionistiche”.

[17] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 316.

[18] La norma dispone che “1. Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

2. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione”.

[19] L’art. 24 del decreto citato prevede che “1. Gli installatori e montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonchè alle istruzioni fornite dai rispettivi fabbricanti”.

[20] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 319.

[21] Prendendo in considerazione le posizioni dei singoli imputati, nei confronti di Kriebel Uwe, operaio manutentore, erano contestate le violazioni degli artt. 2043 e 2050 c.c. e dell’art. 8 d.lgs. 162/2007, disposizioni che, secondo la Corte, non rientrano nel novero delle norme in materia di prevenzione degli infortuni (cfr. la sentenza a pp. 368 ss.); nei confronti di Helmut Brodel, tecnico tedesco dipendente della Jungenthal di Hannover, officina dove venne fatta la revisione dell'assile del treno merci che, spezzandosi, ne causò il deragliamento, era contestata la violazione degli artt. 18, co. 1, lett. q), 23, comma 1 e l’art. 2087 c.c., tutte disposizioni che, secondo la Cassazione, si riferiscono all’imprenditore (datore di lavoro o fornitore) e non, invece, al lavoratore dipendente dell’imprenditore e del fornitore (cfr. la sentenza a pp. 377-378); ad Andreas Schroter, supervisore esami-no-distruttivi eseguiti da Krieber nell'Officina Jugenthal, risultava contestata la violazione dell’art. 8 d.lgs. 162/2007, degli artt. 2043 e 2050 c.c. e dell’art. 23 co. 1 d.lgs 81/08, disposizioni che, come già detto, a parere della Corte, non rientrano nel novero delle norme in materia di prevenzione degli infortuni (cfr. la sentenza a p. 380); a Kogelheide Rainer, amministratore delegato della Gatx Rail Germania, proprietaria della Jungenthal Waggon, della quale era Direttore generale, e a Peter Linowski, responsabile del team di gestione della manutenzione della flotta carri di Gatx Rail Germania, è stata attribuita la violazione dell’art. dell’art. 8 d.lgs. 162/2007, degli artt. 2043, 2050 e 2087 c.c. e dell’art. 18 co. 1, lett.q) e 23 co. 1 d.lgs 81/08. Se gli artt. 2043 e 2050 c.c. e 18 co. 1, lett.q) non possono considerarsi norme prevenzionistiche, l’art. 2087 c.c. pone una competenza che si radica unicamente in capo al datore di lavoro e che trova origine e ambito di esercizio nell’organizzazione sulla quale egli ha poteri dispositivi; risulta, quindi, norma inapplicabile ai due ricorrenti. Quanto all’art. 23, la Corte ha rilevato che la società Gatx Rail non possa qualificarsi come fornitrice dell’assile (cfr. la sentenza pp. 397-398); a Roman Mayer, responsabile della “ manutenzione flotta carri merci” di Gatx Rail Austria e quindi di tutto il sistema di manutenzione dei carri, era contestata la violazione dell’art. 23 del d.lgs. 81/08, che la Corte ha escluso, in ragione dell’estraneità al medesimo della qualità di fornitore/noleggiante (cfr. p. 402 della sentenza); a Mansbart Johannes, amministratore di diritto sia della Gatx Rail Austria, che noleggiò il carro allaCargo Chemical (poi FS Logistica) e dispose l’installazione dell’assile criccato sullo stesso, quale fornitore, è stato correttamente contestata la violazione dell’art. 23 del d.lgs 81/08; tuttavia la Corte, all’esito di una complessa motivazione, ha ritenuto la non attinenza della disposizione in esame al novero delle regole cautelari violate dal Mansbart (si rinvia alla sentenza per cogliere le peculiarità della posizione del ricorrente, pp. 408 ss.); a Pizzadini Paolo, capo commessa di Cima Riparazioni e a Gobbi Frattini Daniele, responsabile tecnico della commessa carri di Cima Riparazioni, sono state attribuite le violazioni degli art. 2043, 2050,2087 c.c. e 24 d.lgs. 81/08, norme che sono ritenute non pertinenti in relazione alla posizione di Gobbi Frattini (p. 417 della sentenza); rispetto al Pizzardini la Corte ha escluso la sussistenza in capo al predetto delle violazioni in parola, riproponendo il percorso logico argomentativo seguito per il ricorrente Mansbart (cfr. pp. 408 ss e pp. 426 ss); a Mario Castaldo, quale A.D. di Cargo Chemical, è stata contestata la violazione degli artt. 2050 c.c. e 23 d.lgs 81/08, esclusa dalla Suprema Corte, poichè il ricorrente non rivestiva, per stessa ammissione della Corte distrettuale una posizione datoriale (cfr. p. 475 della sentenza); più complesse le ragioni che hanno portato all’esclusione dell’aggravante della violazione delle norme prevenzionistiche in relazione ai ricorrenti Castaldo Mario, quale Direttore della Divisione Cargo di Trenitalia, Soprano Vincenzo, AD della Divisione Cargo di Trenitalia (pp. 476 ss) e Maestrini Emilio, Responsabile dell’Unità produttiva Direzione ingegneria, sicurezza e qualità di sistema di Trenitalia, che si fondano sull’esclusione del profilo della causalità della colpa (pp. 483 ss. della sentenza). Quanto alla posizione di Favo Francesco, oltre alle considerazioni già svolte per gli altri ricorrenti, la Corte ha ritenuto decisivo, per escludere l’aggravante in parola, l’assunto per cui negli eventi di cui alle imputazioni non si sarebbe concretizzato il rischio lavorativo, ma, piuttosto, il rischio ferroviario (pp. 486 e ss); quanto alle numerosi violazioni contestate a Elia Michele e Moretti Mauro, AD di RFI Spa (riassunte a p. 512 della sentenza) la Corte ha rilevato come alcune di esse non costituiscono norme per la prevenzione degli infortuni; che alcune di esse, come quelle che impongono la valutazione dei rischi, non hanno diretta rilevanza causale; che, alla stregua delle regole cautelari individuate dai giudici di merito e aventi rilevanza causale rispetto agli eventi, il rischio concretizzatosi in essi non è quello lavorativo, bensì quello ferroviario (cfr. p. 512 della sentenza).

Residua la posizione di Lehman Joachim, supervisore presso l'Officina Jugenthal di Hannover, rispetto a cui la Corte ha ritenuto fondati i motivi del ricorso presentato nel suo interesse, che contestavano la ritenuta titolarità da parte del predetto di una posizione gestoria in forza della quale egli risultava titolare di doveri di alta vigilanza, che la Corte d’Appello ha posto a base del giudizio di responsabilità perchè ritenuti non adempiuti. La Corte ha annullato sul punto la sentenza d’appello, investendo il giudice del rinvio della valutazione sul ruolo in concreto attribuito al Lehmann (p. 386-392).

[22] Il riferimento è a Cass. Pen., Sez. Un., n. 16208 del 27.03.2014, Rv. 258653.

[23] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 321.

[24] Cfr. ex multis Cass. Pen., Sez. 5, n. 13300 del 20.10.1999, Rv. 215560-01.

[25] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 323.

[26] Perincipio già in precedenza affermato dalla giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. Pen., Sez. 4, n. 27162, del 27.04.2015, Rv. 26382501.

[27] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 325.

[28] Il riferimento è alle associazioni sindacali Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Provinciale di Lucca (Or.S.A Ferrovie), Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Regionale della Toscana (Or.S.A Ferrovie), Organizzazione Sindacati Autonomi di base- Segreteria Generale (Or.S.A Ferrovie), Sindacato UGL Federazione Trasporti Autoferrotranvieri Regione Toscana, Sindacato Unione Territoriale del Lavoro UTL dell’Unione Generale del Lavoro UGL Provincia di Lucca, CGIL Provincia di Lucca, CGIL Regione Toscana,

FILT CGIL Lucca, CGIL Nazionale.

[29] Si fa riferimento ai sig.ri De Angelis Dante, Giuntini Maurizio, Cufari Filippo, Cito Vincenzo, Pinto Giuseppe, Pellegatta Alessandro. Rispetto alla parte civile Medicina Democratica Onlus, associazione che, oltre alle finalità di tutela dei lavoratori, persegue ulteriori finalità (la salute della popolazione), la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, chiedendo al giudice di merito di esplicitare gli interessi fatti valere con la domanda di costituzione di parte civile. Ugualmente la Corte ha annullato la sentenza di merito con rinvio per valutare le ragioni fondanti la legittimazione attiva delle parti civili costituite Comitato Matteo Valenti e Associazione Dopolavoro Ferroviario di Viareggio. Cfr. Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., pp. 560 ss.

Resta ferma, invece, la legittimazione delle altre parti civili costituite (tra cui si ricorda Regione Toscana) e dei parenti delle vittime della strage, ad eccezione di Profili Antonio, Noon Ward Linda Ellen, Stefanìa Cataldo, conoscenti di alcune delle vittime, rispetto a cui la Suprema Corte, accogliendo le doglianze dei ricorrenti, ha escluso che nel giudizio di merito fosse stata fornita prova del particolare legame fondato sull’affectio familiaris con le vittime della strage, premessa del diritto al risarcimento, annullando, di conseguenza, le statuizioni civili in loro favore.

[30] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., pp. 327 ss.

[31] Per i primi commenti sulla sentenza richiamata cfr.: M. Scoletta, Enti stranieri e "territorialità universale" della legge penale italiana: vincoli e limiti applicativi del D.Lgs. n. 231/2001, in Soc., 2020, p. 619; G. Ceccacci, Limiti di spazio della responsabilità da reato degli enti: il reato commesso in Italia nell'interesse o a vantaggio di società avente sede all'estero, in Cass. Pen., 2020, 4706; G. Cassinari – G. Principato, La (imperfetta) sovrapponibilità della giurisdizione per le persone fisiche e per gli enti stranieri: riflessioni a margine di una sentenza della Cassazione sull'art. 4 d.lgs. 231/2001, in Sistemapenale.it.

[32] G. Baffa – F. Cecchini, Limiti spaziali di validità della responsabilità “da reato” degli enti: applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 all’ente “italiano” per reato commesso all’estero e all’ente “straniero” per reato commesso in Italia, in Giurisprudenza Penale, 2018, 7-8, p. 16.

[33] Per una ricostruzione generale dei termini del dibattito cfr.: G. Lasco et al., Enti e responsabilità da reato: Commento al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, G. Giappichelli, 2017, pp. 23 ss.; G. Di Vetta, Il giudice border guard nei «grandi spazi»: prospettive critiche intorno alla responsabilità degli enti, in Giur. Pen., 2021, 1bis, pp. 10ss.; S. Manacorda, Limiti spaziali della responsabilità degli enti e criteri di imputazione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1/2012; N. Landi, Il rispetto del d.lgs. 231/2001 nelle imprese multinazionali operanti in Italia, in Rivista 231, 2, 2019, pp. 82 ss.

[34] Tra i sostenitori della tesi richiamata, C.E. Paliero, La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento italiano: profili sistematici, in F. Palazzo (a cura di), Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi. Atti del Convegno organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza e dal Dipartimento di diritto comparato e penale dell’Università di Firenze (15-16 marzo 2002), Cedam, 2003, 24 ss.

Aspre critiche a tale impostazione sono state di recente mosse da T. Padovani, La disciplina italiana della responsabilità degli enti nello spazio transnazionale, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., fasc.2, 1 giugno 2021, pp. 409 ss.

[35] S. Manacorda, Limiti spaziali della responsabilità degli enti e criteri d’imputazione, cit., pp. 99 ss.

[36] E. Amodio, Rischio penale d’impresa e responsabilità degli enti nei gruppi multinazionali, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2007, p. 1294 ss.

[37] Tale tesi è sostenuta da: G. Ruggiero, Brevi note sulla validità della legge punitiva amministrativa nello spazio e sulla efficacia dei modelli di organizzazione nella responsabilità degli enti derivante da reato, in Riv. Trim, di Dir. Pen. Dell’Economia, 3-4, 2004, p. 991. Critico rispetto a tale impostazione: S. Manacorda, Limiti spaziali della responsabilità degli enti e criteri d’imputazione, cit., p. 99 ss., che osserva come tale tesi sia “degna di apprezzamento per lo sforzo di valorizzare il criterio ascrittivo autonomo richiesto dall'art. 5 del decreto legislativo, ma pecca per una eccessiva oggettivizzazione, che non tiene adeguatamente conto di quella componente di colpevolezza tutta normativizzata degli articoli 6 e 7. Ancorando il locus commissi delicti dell'ente a quello della persona fisica c'è il rischio che si reintroducano surrettiziamente nel nostro ordinamento ipotesi di automatismi nella responsabilità che mal si conciliano con lo sforzo profuso dal nostro legislatore per dissociare, autonomizzandolo, il rimprovero mosso all'ente collettivo rispetto alla persona fisica”.

[38] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 329.

[39] Ibid.

[40] Si legge nella sentenza che “la volontà del legislatore storico è stata quella di reprimere gli illeciti aventi sede principale in Italia anche se il reato presupposto è commesso all’estero. Ciò dimostra che per quel legislatore era pacifica la giurisdizione del giudice nazionale per gli illeciti amministrativi correlati a reati commessi in Italia; nonostante non vi sia disposizione nel decreto 231 che la preveda espressamente”; cfr. Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 331.

[41] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., pp. 331-332.

[42] Ibid., p. 335, ove si osserva che “risultano sufficientemente palesi le significative analogie che l’illecito dell’ente presenta con i reati colposi d’evento (si consideri che è ormai affermazione ricorrente che il reato presupposto deve essere concretizzazione del rischio che doveva essere prevenuto dalle regole cautelari non implementate o non attuate correttamente).

[43] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 335.

[44] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 338.

[45] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 539.

[46] Ibid., p. 521.

[47] Si ricordi che con la riforma del diritto societario del 2003, che ha introdotto nel codice civile le norme in commento, il legislatore non ha fornito una definizione compiuta delle attività di “direzione” e di “controllo” da parte di una società su un’altra; tali nozioni sono state ricostruite dalla giurisprudenza, mutuando tali concetti dalla nozione di abuso di “direzione unitaria” maturata nell’ambito dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Per approfondimenti sulla giurisprudenza richiamata si rimanda integralmente a S. Giovannini, La responsabilità per attività di direzione e coordinamento nei gruppi di società, in quaderni di Giur. Comm., Giuffrè, 2007, pp. 366 ss.

E allora, si è sottolineato come per direzione unitaria debba intendersi “un’attività̀ volta a coordinare la politica economica e le linee essenziali dell’attività̀ delle società̀ collegate, imprimendo un’identità̀ o conformità̀ di indirizzi operativi a una pluralità̀ di soggetti formalmente distinti, di modo che il“gruppo” viene gestito come se si trattasse di una sola impresa. L’esistenza di una “direzione unitaria” costituisce il presupposto ulteriore, accanto ad una situazione di controllo, perché una pluralità di società possa essere considerata facente parte di un medesimo gruppo”, cfr. C. Venturi, L’attività di direzione e coordinamento: la pubblicità dei gruppi nella riforma del diritto societario, in La riforma del diritto societario, 2005, p. 3.

Solo recentemente – ed in particolare ad opera del D.Lgs. 14/2019 (il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) – il Legislatore ha finalmente fornito una definizione del concetto di gruppo d’imprese: all’art. 2 del D.Lgs. citato, invero, si legge come il gruppo d’imprese sia “l’insieme delle società, delle imprese e degli enti, escluso lo Stato, che, ai sensi degli artt. 2497 e 2545 septies c.c., sono sottoposti alla direzione e coordinamento di una società, di un ente o di una persona fisica, sulla base di un vincolo partecipativo o di un contratto”. Ancora una volta, come può notarsi dalla lettura della definizione, il nucleo del concetto di “gruppo” ruota attorno ai due concetti sopra analizzati, ovvero quello di direzione e coordinamento .

[48] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 523.

[49] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 526. La Suprema Corte ha citato testualmente quanto sostenuto da autorevole dottrina, cfr. E. Scaroina, Verso una responsabilizzazione del gruppo di imprese multinazionale?, in Dir. pen. cont., 2018, p.5.

[50] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 526.

[51] Ibid.

[52] Il riferimento è alla sentenza Cass. Pen., Sez. Unite, 18 settembre 2014, n. 38343, cit.

[53] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 527.

[54] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 528.

[55] Gli aspetti che sono stati valorizzati dalla Corte territoriale e dalla Cassazione per sostenere la sussistenza di un esercizio particolarmente penetrante dei poteri di direzione e controllo della holding sulla controllata attengono, anzitutto, all’oggetto sociale della società capogruppo, che contemplava compiti di holding operativa e gestionale, col potere di imporre obiettivi e strategie, di controllo finanziario e sulle operazioni svolte dalle singole società, ed eventualmente persino di sostituzione ad esse per perseguire gli obiettivi funzionali al gruppo.

Il secondo indice riguarda lo specifico uso che la holding faceva dello strumento del cashpooling, che secondo la Corte d’Appello, veniva usato quale mezzo di “controllo sulla gestione economico-finanziaria delle controllate”. La controllante, infatti, non si limitava nel caso di specie ad impartire direttive o elaborare programmi finanziari ma interveniva per valutare e modificare, prima ancora che la controllata le conoscesse, tali scelte, alla luce degli interessi di gruppo.

Terzo indice individuate dalla Suprema Corte riguarda l’obiettivo del risanamento del gruppo assunto sin dalla sua costituzione dalla controllata RFI S.p.A., che si concretizzava nella scelta di “sottoporre le proprie scelte fondamentali, i propri interventi e la richiesta di finanziamento allo Stato all’analisi e all’approvazione della capogruppo”, che assumeva il ruolo di co-gestore.

Da ultimo è stato evidenziato che, nello specifico settore della sicurezza ferroviaria, gli interventi di manutenzione straordinaria della rete e gli interventi di sicurezza costituivano investimenti del “Gruppo Ferrovie dello Stato”, e venivano direttamente decisi quindi dalla capogruppo.

[56] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 542.

[57] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., pp. 354 ss.

[58] Ibid., p. 355.

[59] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 357. Tale principio era stato di recente affermato in Cass. Pen., Sez. 4, 13 giugno 2019, n. 45935, RV. 27786901 e in Cass. Pen., Sez. 1, 18 giugno 2020, n. 27115, Rv. 27958201.

[60] La Suprema Corte, a sostegno della propria posizione, ha richiamato la conforme giurisprudenza in tema di ordine di demolizione (Cass. Pen., Sez. 3, 29.01.2013, n. 10126, Rv. 254978) e in tema di ordine di esecuzione (Cass. Pen., Sez. 1, 20.03.2020, n. 12846, Rv278817).

[61] La norma dispone che “l'autorità procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l'esercizio dei diritti e della facoltà della difesa, dell'informazione di garanzia, dell'informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che dispongono misure cautelari personali, dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che dispongono l'udienza preliminare e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di condanna”.

[62] La disposizione richiamata prevede che “La traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico, può essere disposta dal giudice, anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza”.

[63] Cfr. Cass. Pen., Sez.2, 10.08.2000, n. 12394, Rv. 21791601.

[64] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 383

[65] Per avvalorare tale conclusione la Corte ha evidenziato che l’impugnazione era seguita ad un giudizio di primo grado in cui l’accusa mossa all’imputato era stata oggetto di ampio contraddittorio; inoltre le ragioni dell’accusa erano state approfonditamente ricostruite nella sentenza di primo grado del tribunale. Tali elementi “lasciano legittimamente presumere che la conoscenza dell’accusa sia stata completa”; cfr. Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 382.

[66] Sul punto la Suprema Corte richiama la giurisprudenza sul punto che ha affermato a più riprese che “ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di sui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione”; cfr. Cass. Pen., Sez. 6, 13.11.2013, n. 47527, Rv. 257278).

[67] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 384.

[68] Ibid.; tale principio di diritto è stato precedentemente affermato, ex multis, anche da Cass. Pen., Sez. 4, 21.06.2013, n. 51516, Rv. 257902).

[69] Cass. Pen., n. 32899/2021, cit., p. 385.