Cass., Sez. IV, sent. 15 settembre 2021 (dep. 20 ottobre 2021), n. 37739, Pres. Serrao, Rel. Nardin
1. L’ordine di sorveglianza europeo[1], disciplinato dalla decisione quadro 2009/829/GAI[2] e, nell’ordinamento italiano, dal d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 36[3], svolge un ruolo cruciale nelle dinamiche cooperative, tanto ai fini del rispetto del “minimo sacrificio alla libertà personale” che della deflazione della popolazione carceraria[4]. All’origine della sua introduzione vi sono la consapevolezza che spesso l’imputato non residente nello Stato nel quale si celebra il processo viene sottoposto a restrizioni più severe[5] e la convinzione che un simile problema possa essere risolto, anche per evitare trattamenti discriminatori[6], con il trasferimento dell’esecuzione di cautele alternative alla detenzione nello Stato membro di residenza ovvero in un altro Stato membro espressamente indicato dall’interessato[7].
Lo scopo dell’istituto, quindi, è individuare un punto di equilibrio tra l’esigenza di garantire la sicurezza dei cittadini e la tutela del diritto alla libertà personale[8] attraverso un ulteriore potenziamento della cosiddetta “libera circolazione degli imputati”[9].
È una disciplina che, tuttavia, non è stata oggetto di frequente applicazione e, pertanto, la sentenza in rassegna offre lo spunto per analizzare alcuni aspetti della procedura attiva sui quali, peraltro, si percepisce l’insorgere di contrasti.
2. La decisione della Suprema Corte è scaturita dall’impugnazione dell’ordinanza con la quale il tribunale del riesame ha confermato il provvedimento del giudice delle indagini preliminari che aveva irrogato la misura di massimo rigore nei confronti di un soggetto sospettato di aver fatto da corriere per una associazione dedita al narcotraffico internazionale.
In prima battuta, il ricorrente censurava le statuizioni sulla gravità indiziaria, lamentando una violazione di legge e un vizio della motivazione: sosteneva, in proposito, che la valutazione del tribunale non era aderente a quanto emerso nel corso delle indagini, e, in particolare dalle intercettazioni, e aggiungeva, d’altro canto, che gli argomenti utilizzati, pur suggestivi, non riuscivano a risolvere l’equivocità del compendio investigativo.
In seconda battuta, due censure aggredivano l’ordinanza nella parte relativa alla scelta della misura, prospettando la fallacia del ragionamento incentrato sul mancato radicamento dell’indagato sul territorio nazionale e la carenza di altri elementi che permettessero di affermare che soltanto la custodia cautelare in carcere avrebbe potuto fronteggiare adeguatamente il pericolo di fuga e il rischio di reiterazione di reati. Qui, il ricorrente metteva in evidenza che il tribunale aveva errato anche laddove non aveva tenuto conto di alcuni elementi che avrebbero consentito di optare per il trasferimento dell’esecuzione della misura nella sua nazione d’origine[10].
Dopo aver sgombrato il campo dalle questioni sulla gravità indiziaria, la Suprema Corte ha rivolto l’attenzione al tema del regime cautelare.
I profili di interesse sono essenzialmente due e riguardano, per un verso, l’inclusione degli arresti domiciliari nel campo di applicazione dell’istituto e, per altro verso, l’innesto della procedura di cooperazione nel segmento cautelare e il ruolo del pubblico ministero.
Prima di affrontare tali questioni, la Suprema Corte ha svolto una ampia premessa sugli obiettivi perseguiti dalla normativa alla luce del principio del mutuo riconoscimento[11], riassumendo l’evoluzione della cooperazione giudiziaria in materia penale. È una digressione finalizzata a collocare la materia nel suo contesto di riferimento e ad evidenziare che il recepimento nell’ordinamento italiano della decisione quadro 2009/829/GAI mira ad assicurare il controllo dei movimenti di un imputato sottoposto a una misura cautelare e, allo stesso tempo, ad evitare il ricorso a misure più gravose. Da questa ricognizione sulla genesi e lo scopo dell’istituto discende la convinzione che la misura degli arresti domiciliari è riconducile nel novero delle restrizioni trasferibili. Un diverso approdo, pure raggiunto in un arresto precedente[12], determinerebbe un trattamento discriminatorio e – si legge nella motivazione – “un tradimento dello scopo della decisione quadro” che, a sua volta, imporrebbe di sollevare una questione di legittimità costituzionale, tanto per la violazione dell’art. 3 che degli artt. 3 e 117 Cost. Per chiudere su questo aspetto, la Suprema Corte aggiunge che la chiarezza del testo non richiede neppure di attivare i meccanismi di consultazione con la Corte di giustizia dell’Unione europea, apparendo evidente che la nozione di “detenzione cautelare” è riferita alla sola misura carceraria e che, perciò, nelle alternative ad essa sono comprese tutte le privazioni della libertà meno intense, tra le quali figura appunto la coercizione domestica.
Raggiunto questo primo traguardo, il percorso prosegue fino all’annullamento del provvedimento impugnato: in effetti, la rimozione dell’ostacolo costituito dall’interpretazione che negava l’applicabilità dell’istituto agli arresti domiciliari consente di confutare anche l’assunto ad esso conseguente che collegava il pericolo di fuga all’assenza di legami stabili in Italia.
Dinanzi alla deduzione dell’indagato che prospettava una concreta possibilità di eseguire la misura in Spagna, la sentenza afferma che il giudice, nel valutare l’applicabilità di una misura meno gravosa, deve tenere in considerazione anche l’eventualità di trasferire all’estero l’esecuzione e che a tal fine la disponibilità di un domicilio in un altro Stato membro deve essere equiparata alla disponibilità di un domicilio in Italia.
Un’ultima statuizione, che ancora si discosta da altro precedente[13], riguarda il ruolo del pubblico ministero, tenuto ad attivare i canali della cooperazione giudiziaria. La Suprema Corte, valorizzando il dato letterale della normativa di recepimento, ha escluso qualsiasi potere discrezionale, stabilendo che dinanzi alla richiesta dell’imputato di trasferire l’esecuzione della misura si deve provvedere all’emissione dell’ordine di sorveglianza.
3. La posizione assunta dalla Suprema corte sugli arresti domiciliari suggerisce di inquadrare la questione nella più ampia tematica dei rapporti tra i differenti istituti che regolano la cooperazione giudiziaria in materia cautelare.
L’ordine di sorveglianza europeo, pur somigliando, soprattutto sotto il profilo meccanico[14], al mandato d’arresto ed all’ordine di protezione, costituisce in realtà un tertium genus rispetto a questi strumenti, dai quali si distingue sia per tipologie di misure veicolate, sia per finalità ed effetti.
Rispetto al mandato d’arresto europeo, con il quale presenta una più stretta relazione[15] anche dal punto di vista normativo[16], si percepisce una differenza di carattere oggettivo: l’euromandato consente la consegna della persona allo Stato che ha emesso il titolo cautelare che lo esegue secondo le regole del proprio ordinamento; l’ordine di sorveglianza contempla il trasferimento della misura che troverà attuazione, dopo le necessarie operazioni di adeguamento[17], nello Stato membro che ospita l’imputato. Altra fondamentale differenza concerne il tipo di misura, che possiede natura custodiale nel primo caso e prescrittiva nel secondo.
Nel confronto con l’ordine di protezione europeo, si nota una differenza di carattere soggettivo: in questo caso, infatti, la misura – coerentemente con le caratteristiche delle cautele ritagliate a tutela di particolari soggetti – non segue più l’imputato, ma la persona offesa, a favore della quale realizza uno “scudo protettivo” nei suoi trasferimenti negli Stati dell’Unione europea[18]. Una distinzione che emerge in maniera ancor più marcata osservando la provenienza dello stimolo ad attivare la procedura attiva: l’impulso che avvia la relazione con lo Stato membro di esecuzione è sempre rimesso alla autorità giudiziaria, tuttavia, mentre nell’ordine di protezione europeo, ai sensi dell’art. 5, comma 2, d. lgs. 11 febbraio 2015, n. 9, è la persona offesa a sollecitare l’attivazione del rapporto di cooperazione, ai fini del trasferimento della misura, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 36, l’iniziativa poggia essenzialmente sulla volontà dell’imputato.
Queste differenze consentono di notare che i tre strumenti si ripartiscono la medesima “zona di operazioni”, ma perseguono scopi diversi: nel mandato di arresto è preminente la finalità coercitiva, sia essa di matrice cautelare che esecutiva; nell’ordine di protezione, la tutela della vittima del reato; nell’ordine di sorveglianza, invece, la tutela della libertà personale dell’imputato.
Sebbene i connotati siano ben scolpiti e siano altrettanto netti i tratti distintivi, in alcune situazioni le discipline possono sovrapporsi e richiedere un’indagine tesa a verificare se per talune misure l’autorità giudiziaria sia vincolata ad avvalersi di uno strumento in via esclusiva.
4. Nel catalogo contenuto nell’art. 8 della decisione quadro 2009/829/GAI, precisamente alla lett. f), figura la descrizione di una misura – “l’obbligo di evitare contatti con determinate persone in relazione con il o i presunti reati” – assimilabile alle cautele che proteggono le vittime del reato contemplate dalla direttiva 2011/99/UE[19]. Da qui l’eventualità di un concorso tra i due istituti[20].
Il legislatore italiano ha adottato una formula che dissolve ogni incertezza: pur prevedendo, all’art. 4, lett. f), la possibilità di trasferire “l’obbligo di evitare contatti con determinate persone che possono essere a qualunque titolo coinvolte nel reato per il quale si procede”, ha precisato che il decreto legislativo trova applicazione fatto salvo quanto previsto dalla normativa di recepimento dell’ordine di protezione europeo. Quest’ultimo pertanto è destinato a prevalere, sia perché è specificamente calibrato sulle esigenze di salvaguardia di una vittima determinata, sia perché consente anche nella procedura esecutiva una maggiore aderenza alla situazione concreta[21]. In altre parole, l’esplicita finalità di tutela delle vittime che lo ispira e la miglior definizione delle prescrizioni e dei divieti induce a ritenere che tale strumento rappresenti la via maestra nel caso di misure cautelari emesse per reati in relazione ai quali è maggiormente avvertita la necessità di tutela della persona offesa.
La precisazione in parola, tuttavia, è risolutiva soltanto nella declinazione attiva della procedura, poiché detta specifiche disposizioni alle quali si deve attenere l’autorità giudiziaria italiana nell’inoltrare la richiesta all’estero. Non può escludersi, però, che l’autorità di un altro Stato membro decida di avvalersi dell’ordine di sorveglianza per il trasferimento di una misura a tutela dell’offeso. In tal caso, in ossequio al principio della massima e leale collaborazione[22], nulla dovrebbe impedire di dar corso alla richiesta consentendo alla misura di filtrare nell’ordinamento italiano attraverso la formula contenuta nella lett. f)[23]. Del resto, il presupposto per il riconoscimento è, ai sensi dell’art. 10, l’individuazione, eventualmente attraverso gli opportuni adattamenti, di una omologa misura italiana nella quale ricondurre la cautela straniera.
5. Considerazioni più articolate richiede l’analisi del rapporto tra euromandato e ordine di sorveglianza. Il punto di intersezione tra le due discipline sono gli arresti domiciliari e, per inquadrare la questione, è opportuno un passo indietro nel tempo: sin dal recepimento della decisione quadro 584/2002/GAI, infatti, erano sorti dubbi circa la possibilità di includere tale coercizione tra i titoli che avrebbero consentito l’emissione di un euromandato.
In estrema sintesi, muovendo dal rilievo che tale restrizione non era contemplata dalla decisione quadro e non aveva corrispondenza in alcune legislazioni di altri Stati membri, si paventava che la sua proiezione nei rapporti di cooperazione – consentita dall’art. 28, comma 1, lett. a) – avrebbe potuto determinare un aggravamento della privazione della libertà del ricercato[24]. Questi, attinto da un euromandato basato su una misura extramuraria, correva il rischio di essere sottoposto a limitazioni più intense nello Stato membro di esecuzione e così, per scongiurare un simile pericolo, la giurisprudenza aveva richiamato l’attenzione del giudice affinché verificasse, prima di attivare il canale cooperativo, la previsione nell’ordinamento dello Stato richiesto della coercizione domiciliare onde evitare, nelle more della definizione della procedura, privazioni della libertà più aspre di quelle veicolate con la richiesta di consegna[25].
Questa iniziale incertezza induce ad assumere un atteggiamento interpretativo prudente e a rifiutare soluzioni radicali, che, escludendo l’applicazione di un istituto in favore dell’altro, non apporterebbero alcun concreto giovamento né alle esigenze della cooperazione, né alla salvaguardia della libertà personale.
Appare utile, piuttosto, ricercare una chiave di lettura che permetta di far uso di entrambi gli strumenti.
In questa ottica, il concetto di “alternativa alla detenzione” – e la formula contenuta nella lett. c) – deve essere scrutinato valorizzando gli ampi margini di manovra concessi dalle clausole della decisione quadro e non vincolandosi al dato codicistico interno[26]. Un simile approccio consente senz’altro di ricondurre gli arresti domiciliari nell’obbligo di rimanere in luogo determinato.
Nello stesso senso, si può far leva sulla circostanza che gli arresti domiciliari nel sistema delle cautele descritto dal codice di rito, si presentano come una autonoma misura cautelare, ancorché per molti versi siano equiparati alla carcerazione[27].
Questa conclusione, come accennato, non esclude che in determinate situazioni l’autorità giudiziaria italiana possa avvalersi del mandato di arresto europeo qualora ritenga più opportuno ottenere la consegna dell’imputato.
Resta quindi da chiarire quali siano i criteri che l’autorità giudiziaria dovrà seguire prima di optare per l’uno ovvero per l’altro strumento.
È una valutazione che deve essere compiuta caso per caso, valorizzando le caratteristiche della vicenda processuale e, in particolare, gli elementi alla base della cautela.
Sicuramente, il mandato d’arresto europeo troverà applicazione in via esclusiva in tutte le situazioni nelle quali non è possibile trasferire all’estero la misura degli arresti domiciliari poiché lo Stato membro di esecuzione non contempla tale misura.
Nell’ipotesi in cui, invece, sia percorribile tanto la strada della consegna della persona, che quella del trasferimento della misura, l’autorità giudiziaria italiana, dovrà valutare quale strumento consenta, in concreto, di soddisfare le esigenze che hanno dato luogo all’adozione della misura cautelare con il rispetto del minor sacrificio necessario. Ove queste possano essere presidiate efficacemente soltanto con la consegna del ricercato, dovrà emettersi un euromandato, ove, invece, sia possibile trasferire l’esecuzione della misura senza compromissione delle esigenze cautelari, potrà farsi ricorso all’ordine di sorveglianza europeo. Un’indicazione utile per la valutazione di questo profilo proviene dalla decisione quadro che auspica l’uso dell’ordine di sorveglianza europeo in relazione ai reati di minore gravità[28].
6. La Suprema Corte ha fornito un’indicazione fondamentale al giudice della cautela che, nella individuazione della misura da applicare, dovrà tener conto della possibilità di trasferire all’estero l’esecuzione. È un chiarimento che richiede di verificare, in primo luogo, come la valutazione sul punto possa innestarsi nelle scansioni dell’incidente cautelare e, in secondo luogo, di individuare il tipo di accertamento da compiere.
L’art. 5, nel disciplinare l’avvio della procedura attiva prevede che il pubblico ministero provveda a trasmettere l’ordinanza cautelare allo Stato di residenza del soggetto in vinculis ovvero in uno Stato diverso indicato dall’imputato. La norma contempla una misura già emessa, ancorché non eseguita, e postula l’introduzione di dati utili ad assumere la decisione sull’eventuale trasferimento all’estero sin da quando il giudice stabilisce se e come applicare la cautela.
È un vaglio alquanto complicato soprattutto nella fase genetica della misura poiché in questo frangente il giudice è investito della richiesta formulata dal pubblico ministero e l’imputato, che presumibilmente è il soggetto in possesso delle informazioni rilevanti, non ha ancora avuto modo di interloquire. È assai difficile, perciò, che si possa disporre degli elementi necessari per intravedere la possibilità di un trasferimento all’estero della sorveglianza in quanto la somministrazione dei dati necessari è rimessa al pubblico ministero ovvero a una scrupolosa attività di ricerca del giudice che dovrebbe ricavarli dagli atti che gli sono stati trasmessi.
Nella prassi, quindi, l’ipotesi più frequente sarà quella della preliminare applicazione di una misura intramuraria e della successiva richiesta di attenuazione del vincolo propedeutica al trasferimento[29].
La sede naturale per simili approfondimenti è allora rappresentata dai momenti nei quali, ristabilito il contraddittorio, l’imputato può interloquire e rappresentare al giudice i presupposti per l’attivazione del canale cooperativo. L’interrogatorio di garanzia, il giudizio di riesame, un’istanza di modifica della misura e l’appello cautelare dunque sono i passaggi nei quali l’indagato può sollecitare l’adozione di una differente misura e perorare il suo trasferimento all’estero[30].
Ciò posto, sorge il quesito circa gli oneri, soprattutto di carattere probatorio, che l’imputato deve assolvere nel formulare la propria istanza. Da questo punto di vista, è opportuno indicare ogni elemento – in primis, la disponibilità di un domicilio – utile a dimostrare che il trasferimento all’estero non pregiudicherà né l’effettività del controllo, né la tutela delle esigenze cautelari.
La situazione appena descritta palesa tuttavia la rigidezza dell’impostazione interpretativa che vincola il p.m. ad inoltrare l’ordine di sorveglianza e non sembra lasciare alcun margine di apprezzamento circa la necessità di trattenere in Italia l’esecuzione della misura, neppure qualora il trasferimento all’estero possa compromettere il quadro cautelare.
[1] Tale definizione, che valorizza l’essenza dell’istituto e gli effetti del riconoscimento, è preferibile a quella di “ordinanza cautelare europea” inizialmente contenuta nella Proposta di decisione quadro, ma poi scomparsa nel passaggio al testo definitivo (su tale modifica, A. Maffeo, La decisione quadro n. 2009/829/GAI: il principio del mutuo riconoscimento applicato alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare, in Dir. com. scambi internaz., 2010, p.117, nt. 21). Invero, la decisione quadro non disciplina un autonomo titolo cautelare, ma, come consueto, detta le regole affinché i provvedimenti nazionali possano circolare nello spazio europeo.
[2] Sulla decisione quadro e gli obiettivi perseguiti P. Spagnolo, L’assetto codicistico tra gradualità e adeguatezza, in P. Bronzo – K. La Regina – P. Spagnolo, Il pluralismo delle misure cautelari personali. Tra tipicità e adeguatezza, Cedam, 2017, p. 17 e ss., e A. Maffeo, La decisione quadro, cit., passim.
[3] In argomento, T. Alesci, Spazio giudiziario europeo. Percorsi interpretativi per la creazione di un sistema cautelare, Cedam, Padova, 2020, p. 105; M. Bargis, Libertà personale e consegna, in R.E. Kostoris, Manuale di procedura penale europea, III ed., Giuffrè, Milano, 2017, p. 383; G. De Amicis, I decreti legislativi di attuazione della normativa europea sul reciproco riconoscimento delle decisioni penali, in Cass. pen., 2016, supplemento al n. 5, p. 19; A. Marandola, Reciproco riconoscimento, in A. Marandola (a cura di), Cooperazione giudiziaria penale, Giuffrè, Milano, 2018, 902; S. Marcolini, La circolazione delle pronunce cautelari personali non detentive, in F. Ruggieri (a cura di), Processo penale e regole europee: atti, diritti, soggetti e decisioni, Giappichelli, Torino, 2017.
[4] Così, P. Bronzo, Le “nuove” misure prescrittive, in P. Bronzo – K. La Regina – P. Spagnolo, Il pluralismo, cit., p. 91.
[5] Causa principale di tale inasprimento è la mancanza di un domicilio, come si evince dalla sentenza in rassegna.
[6] Il considerando n. 5 sottolinea che è possibile una disparità tra un imputato che non risiede e un imputato che risiede nello Stato del processo poichè il primo corre un rischio più alto di essere sottoposto a custodia cautelare rispetto al secondo e precisa che una simile diversità di regime non è ammissibile nello spazio comune europeo (sul punto, A Maffeo, La decisione quadro, cit., p. 114 e ss.)
[7] Il considerando n. 3, infatti, evidenzia che un simile strumento consente di superare l’alternativa tra detenzione cautelare e circolazione non sottoposta a controllo, che, nella sua rigidezza, imporrebbe un sacrificio eccessivo della libertà personale o delle esigenze processuali.
[8] I due interessi in gioco sono menzionati, rispettivamente, dal considerando n. 3, che sancisce il diritto dei cittadini rispettosi della legge a vivere in sicurezza, e dal considerando n. 4, che enuncia la volontà di rafforzare il diritto alla libertà e la presunzione di innocenza.
[9] Questa efficacissima espressione, che adegua al lessico della cooperazione giudiziaria in materia penale le tradizionali libertà di circolazione, è stata coniata per descrivere il mandato d’arresto europeo da A. Di Martino, Principio di territorialità e protezione dei diritti fondamentali nello spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia. Osservazioni alla luce della giurisprudenza costituzionale di alcuni stati membri sul mandato d’arresto europeo, in R. Calvano, Legalità costituzionale e mandato d’arresto europeo, Jovene, Napoli, 2007, p. 79, ma si attaglia ancora più all’istituto in esame che permette appunto agli imputati di evitare restrizioni più severe e godere così di una maggiore libertà all’interno dell’Unione europea, nonostante la misura cautelare emanata nei loro confronti.
[10] Del resto, come si evince dalla lettura della sentenza, il ricorrente, consegnato in forza di un mandato d’arresto europeo, era destinato a far ritorno in Spagna per scontare la pena in caso di condanna in forza di una previsione della legge spagnola – l’art. 11, comma 2 – omologa all’art. 19, comma 1, lett. b) della l. 22 aprile 2005, n. 69.
[11] In generale, sul principio del mutuo riconoscimento, R. M. Geraci, Il mutuo riconoscimento nella cooperazione processuale: genesi, sviluppi, morfologie, Cacucci editore, Bari, 2020, passim.
[12] Cass., sez. III, 29 aprile 2021, n. 26010, in C.E.D. Cass., n. 281937. In dottrina, dubita della possibilità di includere gli arresti domiciliari, P. Spagnolo, L’assetto codicistico, cit., p. 23.
[13] Cass., sez. II, 9 marzo 2017, n. 26526, in C.E.D. Cass., n. 270357.
[14] A ben vedere, il legislatore, per regolare l’attuazione degli strumenti di cooperazione giudiziaria, ha sempre replicato lo schema contenuto nella l. 22 aprile 2005, n. 69 sul mandato d’arresto europeo, fatti salvi i necessari adeguamenti imposti dalle peculiarità del provvedimento al quale dare attuazione.
[15] Con differenti sfumature, S. Marcolini, La circolazione, p. 183 e M. Bargis, Libertà personale e consegna, cit., p. 384.
[16] Numerose previsioni della decisione quadro e del d. lgs. 15 febbraio 2016, n. 36 collegano l’ordine di sorveglianza al mandato d’arresto tanto che il secondo può costituire la conseguenza di eventuali violazioni del regime cautelare imposto dal primo (sul punto, S. Marcolini, La circolazione, cit., p. 191, e A. Maffeo, La decisione quadro, cit. p. 128). Dal canto suo, M. Bargis, Libertà personale e consegna, cit., p. 384, lamenta l’assenza di una disciplina di raccordo causata dalla omessa implementazione dell’art. 21 della decisione quadro, ma, a ben vedere, la lacuna non dovrebbe pregiudicare il coordinamento tra i due congegni.
[17] Sulle difficoltà di tale operazione, soprattutto per i riflessi sul principio di tipicità delle cautele, P. Spagnolo, L’assetto codicistico, cit., p. 23.
[18] In questo senso P. Bronzo, Ordine di protezione europeo, in A. Marandola, Cooperazione giudiziaria, cit., p. 672. In generale, sulla tutela apprestata dall’ordine di protezione europeo, L. Ludovici, L’ordine di protezione europeo, in G.M. Baccari – K. La Regina – E.M. Mancuso, Il nuovo volto della giustizia penale, Cedam, Padova, 2015, p. 353.
[19] In senso contrario, tuttavia, S. Marcolini, La circolazione, cit., p. 187, secondo il quale si tratterebbe di una “novità assoluta” nel panorama delle cautele, e P. Spagnolo, L’assetto codicistico, cit., p. 21, che rimarca le differenze con gli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p.
[20] In realtà, come sottolinea P. Bronzo, Le “nuove” misure, cit., p. 9 ancorché sussista in astratto, l’eventualità di una sovrapposizione è assai limitata, potendo verificarsi soltanto nell’ipotesi in cui sia l’offeso, sia l’indagato si trasferiscano fuori dallo Stato in cui si svolge il procedimento e nello stesso Stato. Al contrario, qualora entrambi i soggetti si trasferiscano in Stati differenti, pur essendo applicabili entrambi gli strumenti, non si verifica alcuna sovrapposizione.
[21] In questo senso P. Bronzo, Le “nuove” misure, cit., p. 93.
[22] Nel senso che tale principio costituisce il criterio guida per risolvere dubbi e perplessità che dovessero sorgere nella prassi applicativa, S. Marcolini, La circolazione, cit., p. 187.
[23] Del resto, anche le previsioni della direttiva sull’ordine di protezione consentono di ipotizzare una integrazione fra i due istituti nella prospettiva del potenziamento della cooperazione (in questo senso, muovono, tra gli altri, il considerando n. 33 e l’art. 20).
[24] Sul punto, G. De Amicis – G. Iuzzolino, Guida al mandato d’arresto europeo, Giuffrè, Milano, 2008, p. 124.
[25] Cass., sez. VI, 28 giugno 2016, n. 35879, in C.E.D. Cass., n. 267524.
[26] Invero, l’uso negli atti europei di definizioni ampie è determinato dalla necessità di apprestare un lessico adattabile agli ordinamenti di tutti gli Stati membri (su questo aspetto, anche per ulteriori richiami, F. Ruggieri, Guida alla lettura e organizzazione dei contributi, in F. Ruggieri (a cura di), Processo penale e regole europee, cit., p. 7) e dal fine di favorire la circolazione dei provvedimenti nazionali. Tale flessibilità, dunque, può essere sfruttata nella prospettiva di una più agevole cooperazione, compromessa, al contrario, dall’adozione di criteri interpretativi ancorati alle peculiarità del dato normativo nazionale.
[27] Come osserva P. Spagnolo, Le misure paracustodiali, in P. Bronzo – K. La Regina – P. Spagnolo, Il pluralismo, cit., p. 98, gli arresti domiciliari sono talvolta considerati quale forma “paradetentiva”, come tale sostitutiva della custodia cautelare, altre come autonoma misura, con presupposti, condizioni di applicabilità e disciplina proprie.
[28] Considerando n. 13.
[29] Nello stesso senso S. Marcolini, La circolazione, cit., p. 198, secondo il quale appunto sarà infrequente il caso in cui il soggetto sia destinatario di una misura non detentiva richiesta direttamente dal p.m.
[30] Sul punto, S. Marcolini, La circolazione, cit., p. 198 e 205, che lamenta l’assenza di un meccanismo ad hoc e osserva che sarebbe stato opportuno forgiare una procedura specifica, che fissasse diritti e doveri delle parti.