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  Scheda  
20 Gennaio 2022


Rimessa alle Sezioni Unite la valutazione dell’abnormità del provvedimento del G.U.P. che dispone la restituzione degli atti al P.M. nell’erroneo presupposto che per il reato oggetto della richiesta di rinvio a giudizio si debba procedere con citazione diretta

Cass., Sez. III, ord. 1 ottobre 2021 (dep. 16 dicembre 2021), n. 46033, Pres. Di Nicola, est. Aceto, in proc. Scarlini



1. Con ordinanza in data 1.10.2021 (depositata il 16.12.2021) la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la risposta al seguente quesito di diritto: “se sia abnorme il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare che, ai sensi dell’art. 33-sexies, comma 1, cod. proc. pen., disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero nell’erroneo presupposto che per il reato per il quale è stato richiesto il rinvio a giudizio l’azione penale debba essere esercitata con citazione diretta a giudizio”.

 

2. Prima di illustrare le ragioni alla base del provvedimento, conviene richiamare sinteticamente i principali snodi attraverso i quali si è articolata la vicenda oggetto d’esame.

Il pubblico ministero, all’esito delle indagini preliminari, si determinava ad esercitare l’azione penale con richiesta di rinvio a giudizio ex art. 416 cod. proc. pen. nei confronti di due soggetti a carico dei quali riteneva configurabile la contestazione del reato di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000.

All’udienza preliminare il giudice riteneva il reato contestato agli imputati rientrante nei casi di cui all’art. 550 cod. proc. pen. e che, pertanto, si doveva procedere con le forme della citazione diretta a giudizio. Disponeva, pertanto, con ordinanza ex art. 33-sexies, comma 1, cod. proc. pen. la restituzione degli atti al pubblico ministero affinché procedesse con tale modalità.

Avverso detta ordinanza il pubblico ministero proponeva ricorso per cassazione denunciando l’abnormità dell’indicato provvedimento del G.U.P.

 

3. La prima questione di diritto che la vicenda pone è se sia stata corretta la decisione del G.U.P. nel ritenere che per il reato contestato agli imputati si dovesse procedere con le modalità della citazione diretta a giudizio.

Tutto nasce dal fatto che le date di commissione dei reati indicate nell’imputazione erano quelle del 22/9/2014 e del 29/9/2016 periodo nel quale il delitto di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 era punito con la pena massima edittale di tre anni di reclusione, trattamento sanzionatorio solo successivamente elevato a quattro anni e sei mesi di reclusione con la l. n. 157/2019 (in vigore dal 24 dicembre 2019).

Ora, poiché, l’art. 550 cod. proc. pen. prevede (al di là delle deroghe espressamente indicate) che si debba procedere a citazione diretta a giudizio “… quando si tratta … di delitti puniti con la reclusione non superiore nel massimo a quattro anni …”, è evidente che se tale parametro sanzionatorio è da rapportarsi al tempus commissi delicti si sarebbe dovuto procedere con emissione del decreto di citazione diretta a giudizio degli imputati, se, per contro, lo stesso è da rapportarsi al momento dell’esercizio dell’azione penale (16/12/2020) allora era corretto procedere con la forma della richiesta di rinvio a giudizio ex art. 416 cod. proc. pen.

Detta questione di diritto ha, allo stato, trovato univoca soluzione nelle decisioni della Corte di legittimità che avuto modo di chiarire che «in tema di esercizio dell'azione penale con citazione diretta a giudizio, il rinvio previsto dall'art. 550 cod. proc. pen. alla pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni, è "fisso" in quanto, stante l'inderogabilità del principio tempus regit actum in ambito processuale, va riferito alla norma vigente al momento dell'esercizio dell'azione penale e non già a quella di diritto sostanziale concretamente applicabile all'imputato, sulla base dei criteri che regolano la successione delle leggi penali del tempo»[1]

Da quanto detto non si può, innanzitutto, che concordare con la Corte remittente che il provvedimento adottato dal G.U.P. è giuridicamente errato e che bene aveva fatto il pubblico ministero ad esercitare l’azione penale con le modalità di cui all’art. 416 cod. proc. pen.

 

4. Dato ciò per assodato la Corte di legittimità si è però posta l’ulteriore problema giuridico della impugnabilità dell’ordinanza ex art. 33-sexies cod. proc. pen. emessa dal G.U.P.

Partendo dal presupposto generale della tassatività dei mezzi di impugnazione ricavabile dal disposto dell’art. 568 cod. proc. pen. che al comma primo dispone che «la legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati» e constatato che nessun mezzo di impugnazione è previsto dalla legge in relazione alle ordinanze ex art. 33-sexies cod. proc. pen. l’unico spiraglio in tal senso lo si può ricavare dal combinato disposto degli artt. 111, comma 7, della Costituzione e 568, comma 2, cod. proc. pen. il quale ultimo stabilisce che «Sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell'articolo 28».

La giurisprudenza consolidata, come è noto, ha poi preso spunto da tali disposizioni per dar corpo alla figura dei c.d. “provvedimenti abnormi” cioè quelli che, pur non essendo oggettivamente impugnabili, risultino affetti da tali anomalie genetiche o funzionali da non essere inquadrabili in alcuno schema legale ed ai quali si rende comunque necessario apprestare un rimedio in sede giudiziaria che ha ritenuto di individuare nel ricorso per cassazione.

 

5. Da quanto detto ne consegue che l’ordinanza ex art. 33-sexies cod. proc. pen. in assenza di una espressa previsione normativa che ne indica possibilità e modalità di impugnazione, pur non rientrando nella categoria dei provvedimenti in materia di libertà personale o di sentenza che può dar luogo ed un conflitto di giurisdizione o di competenza, sarà ricorribile per cassazione solo qualora presenti elementi di “abnormità”.

 

6. Il focus allora si viene allora a spostare sugli elementi sui quali eventualmente fondare un giudizio di “abnormità” del provvedimento de quo.

L’ordinanza della Corte qui in esame, contiene una ampia disamina delle pronunce giurisprudenziali che hanno cercato di definire i caratteri salienti del concetto di “atto abnorme” talvolta indicandolo come “atto insuscettibile di qualsiasi inquadramento normativo tale da risultare imprevisto e imprevedibile rispetto alla tipizzazione degli atti indicata dal legislatore[2], talaltra indicandolo come atto che “pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite[3].

Tuttavia, non v’è chi non veda che nel caso in esame non ci troviamo in presenza di una delle situazioni sopra indicate in quanto l’ordinanza impugnata rientra tra gli atti che astrattamente il G.U.P. ben può emettere qualora si presenti la necessità di decidere sulla (ritenuta) non correttezza delle modalità di esercizio dell’azione penale.

Si tratterà semmai di una decisione che può ritenersi viziata alla luce dell’univoco e consolidato orientamento giurisprudenziale indicato al superiore punto 3 ma di certo non di un atto “abnorme” secondo i profili di cui si è appena detto.

Del resto, la Corte rimettente ha ulteriormente sottolineato che il ricorso per cassazione con denuncia di abnormità non può autorizzare la verifica, in sede di legittimità, di un vizio di legge del provvedimento ex art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., “salvo eludere lo stesso concetto di abnormità” e porre nel nulla il principio di tassatività delle impugnazioni. [4]  

Vi è però un altro profilo di “abnormità” che si presenta meritevole di attenzione e che è stato evidenziato da quella parte della giurisprudenza che ha sottolineato come l’abnormità dell’atto processuale può riguardare tanto il profilo “strutturale” dell’atto (indicato negli orientamenti di cui sopra) quanto il suo profilo “funzionale” che inerisce a provvedimenti che pur non essendo estranei al sistema normativo determinano una stasi del procedimento e l’impossibilità di proseguirlo[5].

Vi è allora da chiedersi se l’ordinanza in esame possa essere qualificata come “abnorme” sotto quest’ultimo profilo in quanto, in assenza di un ordinario strumento di impugnazione, determina una sorta di cortocircuito giudiziario non avendo il pubblico ministero altra possibilità che quella di emettere un decreto ex art. 550 cod. proc. pen. al di fuori dei casi previsti dalla legge e, quindi, viziato ab origine.

Il Collegio rimettente proprio esaminando quest’ultimo profilo ha rilevato un contrasto giurisprudenziale già radicatosi nel tempo.

Se, infatti, da un lato una parte della giurisprudenza ritiene che il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erronea qualificazione del fatto come reato procedibile a citazione diretta non è provvedimento che si pone al di fuori del sistema normativo e non determina una irrimediabile stasi processuale[6], ciò in quanto la disposizione dell’art. 33-sexies va necessariamente correlata a quella del termine entro il quale rilevare od eccepire l’inosservanza delle disposizioni di legge in materia di giudizio monocratico o collegiale[7], un orientamento opposto afferma invece che ci si troverebbe in presenza di una situazione abnorme in quanto il giudice dell’udienza preliminare che dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero perché proceda ex art. 550 cod. proc. pen. nonostante che il procedimento sia stato correttamente incardinato innanzi a lui con richiesta di rinvio a giudizio ex art. 416 cod. proc. pen. realizza un’indebita regressione del procedimento[8].  

In realtà, osserva condivisibilmente il Collegio rimettente, il provvedimento de quo non determina una stasi processuale legata ad una indebita regressione del procedimento perché il pubblico ministero ben può ri-esercitare l’azione penale con decreto di citazione diretta a giudizio (provvedimento che non è affetto da nullità non ricorrendo alcuno dei casi previsti dall’art. 552, comma 2, cod. proc. pen.) ed il giudice del dibattimento (la decisione del quale ai sensi dell’art. 28, comma 2, cod. proc. pen. prevale su quella del G.U.P.) ben può, a sua volta, qualora la relativa eccezione gli sia proposta entro il termine di cui 491, comma 1, cod. proc. pen. e la ritenga fondata, adottare la decisione di cui all’art. 550, comma 3, cod. proc. pen. restituendo gli atti al pubblico ministero affinché proceda nuovamente con le modalità di cui agli artt. 416 e seguenti cod. proc. pen.

Trattasi di una procedura farraginosa ma che, di certo, non comporta né l’emissione di atto nullo, né una stasi del procedimento.

 

7. Sebbene la predetta ricostruzione procedurale appare lineare, ha tuttavia osservato il Collegio remittente che nonostante il principio già enunciato nella citata sentenza delle Sezioni Unite “Sacco” la Corte è tornata successivamente sull’argomento[9] ribadendo che l’ordinanza del G.U.P. che dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio è abnorme in quando determina una indebita regressione del procedimento e che, qualora il pubblico ministero esercitasse l’azione penale con la modalità di cui all’art. 550 cod. proc. pen. “porrebbe in essere un atto nullo” il che determina la permanenza di un contrasto giurisprudenziale che le Sezioni Unite dovranno essere chiamate a risolvere, anche perché il caso è parzialmente diverso da quello affrontato dalle Sezioni Unite “Sacco” dato che nel caso in esame il G.U.P. non ha provveduto a riqualificare in diritto la condotta in fatto contestata dal pubblico ministero ma ha assunto la propria decisione sulla sola base dell’imputazione dallo stesso formulata.

Non resta che attendere la decisione delle Sezioni Unite sul punto.

 

 

[1] Cfr. ex ceteris Cass. Sez. II, sent. n. 9876 del 12/02/2021, ed altre in senso conforme; cfr. anche Sez. U, sent. n. 44895 del 17/07/2014, Pinna, che ha ribadito che il principio della retroattività della disposizione più favorevole non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali.

[2] Cass. Sez. III, sent. 9/7/1996, P.M. in proc. Cammarata.

[3] Cass. Sez. III, sent. 21/2/1997, Cazzaniga e altro.

[4] Cass. Sez. U, sent. n. 25957 del 26/3/2009, Toni (in motivazione); Cass. Sez. U, sent. n. 4 del 31/1/2001, Romano.

[5] Cass. Sez. U, sent. n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista; Cass. Sez. U, sent. n. 26 del 24/11/1999, dep. 2020, Magnani.

[6] Cfr. ex ceteris, Cass. Sez. II sent. n. 23814 del 17/7/2020.

[7] Cass. Sez. U, sent. n. 48590 del 18/4/2019, Sacco.

[8] Cfr. ex ceteris, Cass. Sez. I, sent. n. 30062 del 29/9/2020.

[9] Cass. Sez. III, sent. n. 18297 del 4/3/2020.