ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
31 Gennaio 2022


L’illiceità della mediazione nel traffico di influenze illecite: le sentenze della Cassazione sui casi Alemanno e Arcuri


1. Due recenti sentenze della Sesta Sezione della Corte di cassazione, che possono leggersi in allegato[1], si segnalano per alcune significative affermazioni in merito alla riformata fattispecie di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.) e, in particolare, per il tentativo di precisare il concetto di “mediazione illecita”. Si tratta, come è noto, di un elemento costitutivo chiave nell’economia di tale figura di reato, divenuto ancor più centrale in seguito alle modifiche introdotte nel 2019 dalla c.d. legge “spazza-corrotti”.

La l. n. 3 del 2019 ha infatti così riformulato il primo comma dell’art. 346 bis c.p.: «Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322 bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322 bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322 bis, ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la pena della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi».

È bene precisare subito che la riforma del 2019 ha modificato la fattispecie in esame eliminando, rispetto alla formulazione originaria, risalente alla legge Severino del 2012, il requisito della finalizzazione dell’attività di mediazione illecita dell’intermediario al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto d’ufficio, da parte del funzionario pubblico. Per l’integrazione del reato non è dunque più necessario che la mediazione sia indirizzata all’atto contrario ai doveri: la presenza di tale finalità rileva invece oggi come circostanza aggravante (art. 346 bis, comma 4 c.p.); nell’ipotesi base, invece, la remunerazione pattuita dalle parti può riguardare anche il mero esercizio delle funzioni o dei poteri di un pubblico agente.

Nella ricerca del disvalore espresso dall’incriminazione, il venir meno dell’elemento dell’atto contrario ai doveri rende problematicamente centrale il concetto di “mediazione illecita”, già presente nella versione del 2012. Come è stato osservato in dottrina, infatti, in assenza di una disciplina extra-penale che definisca i presupposti e i limiti della attività di rappresentanza di interessi, il concetto normativo di “mediazione illecita” non sembra di per sé in grado di delimitare con precisione i confini tra l’intermediazione lecita e quella illecita[2]. Ed è proprio questa la ragione che rende le decisioni in commento di particolare interesse: lo sforzo della Cassazione è teso a precisare il concetto di “mediazione illecita”, propugnandone una definizione che consenta di individuare con sufficiente chiarezza l’ambito entro cui l’attività di influenza è penalmente rilevante[3].

 

2. Prima di esaminare le affermazioni in punto di diritto, è opportuno dare conto delle vicende oggetto delle due sentenze qui segnalate. La prima sentenza (n. 40518/2021)[4] riguarda i fatti che – a margine del c.d. processo ‘mafia capitale’ – hanno visto coinvolto l’ex Sindaco di Roma Gianni Alemanno. Originariamente imputato, e quindi condannato dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Roma per il delitto di corruzione propria (art. 319 c.p.), questi ha visto sensibilmente alleggerita la propria posizione da parte della Cassazione: nella decisione qui segnalata i giudici di legittimità hanno infatti riqualificato le condotte a lui ascritte nel meno grave delitto di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.). Ad Alemanno era stato in origine contestato di aver venduto la propria funzione di Sindaco di Roma agli interessi di Salvatore Buzzi, presidente di diverse importanti cooperative sociali che operavano a Roma e nel Lazio. In cambio della messa a disposizione delle sue funzioni, è stato contestato ad Alemanno di avere ricevuto, per il sostegno delle proprie attività politiche ed elettorali, ingenti somme di denaro, erogati da Buzzi alla ‘Fondazione Nuova Italia’ e, in minima parte, alla ‘Fondazione per la Pace e la Cooperazione Internazionale Alcide De Gasperi’. Tale accordo illecito sarebbe stato reso possibile attraverso la fondamentale intermediazione di Franco Panzironi, uomo di fiducia di Alemanno, che nel corso del suo mandato di Sindaco, da un lato, aveva ricoperto l’incarico di amministratore delegato di AMA – importante municipalizzata del Comune di Roma – dall’altro lato, era stato per lungo tempo il segretario generale della ‘Fondazione Nuova Italia’, dove, proprio su incarico di Alemanno, si occupava del reperimento delle risorse economiche.  Gli atti di Alemanno, espressione della sua funzione, e considerati dalla sentenza di primo grado il corrispettivo delle utilità ricevute, sono stati sostanzialmente identificati nel fatto di essersi prodigato per far sì che le cooperative di Buzzi venissero favorite nell’aggiudicazione di una gara di appalto e che venissero sbloccati alcuni crediti dovuti nei loro confronti. Tali cooperative, infatti, vantavano legittimi crediti per importi molto rilevanti nei confronti dell’amministrazione romana. L’intervento di Alemanno presso le società debitrici, Eur S.p.A. e AMA, entrambe partecipate del Comune di Roma, ha permesso a tali cooperative di ottenere di lì a poco il soddisfacimento dei propri crediti.

In esito al processo di primo grado, i giudici della seconda sezione del Tribunale di Roma hanno condannato l’ex Sindaco alla pena di sei anni di reclusione per il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio[5]. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 23 ottobre 2020, ha quindi confermato il giudizio di colpevolezza reso dal Tribunale, ribadendo la condanna alla pena di sei anni di reclusione per il medesimo delitto. Avverso tale decisione ha dunque proposto ricorso per Cassazione l'imputato lamentando, tra gli altri motivi di doglianza, l’errore nella qualificazione giuridica del fatto. I giudici di legittimità, in esito ad ampia motivazione, hanno infine accolto tale motivo di ricorso riqualificando i fatti contestati all’ex Sindaco di Roma nel delitto di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.). È qui – lo vedremo – che i giudici di legittimità hanno avuto modo di soffermarsi sul concetto di ‘mediazione illecita’.

 

3. La seconda decisione qui segnalata (n. 1182/2022)[6] – resa nell’ambito di un procedimento cautelare relativo ad un sequestro preventivo – origina invece dalle vicende riguardanti la compravendita di mascherine cinesi realizzata dal Commissario Domenico Arcuri nelle prime fasi dell’emergenza sanitaria, nella primavera del 2020. Secondo l’impostazione dell’accusa, Mario Benotti, individuato quale mediatore, sfruttando le relazioni personali con Arcuri, si sarebbe fatto corrispondere da un gruppo di imprenditori una ingente somma di denaro per fare in modo che il Commissario – nel momento in cui era estremamente urgente recuperare forniture di dispositivi di protezione personale (mascherine) – si rivolgesse a tre aziende cinesi, individuate dallo stesso gruppo di imprenditori. Tali aziende, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbero poi remunerato gli imprenditori coinvolti con importanti provvigioni, quale corrispettivo per l’opera di mediazione da loro sollecitata. La sentenza in commento origina dal ricorso di uno degli imputati che, impugnando l’ordinanza del Tribunale di Roma che aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca della somma di denaro corrispondente al prezzo della mediazione illecita, lamentava l’insussistenza del fumus del delitto di traffico di influenze (art. 346 bis c.p.), ovvero del reato per il quale la misura cautelare era stata disposta. A detta della difesa dell’imputato, nel caso concreto mancherebbe il riscontro dell’esistenza degli elementi che facciano apparire verosimile che tale reato sia stato commesso; ed in particolare difetterebbe il requisito della “mediazione illecita”. L’ordinanza del Tribunale aveva infatti fatto discendere l’illiceità della mediazione dalla circostanza che il mediatore fosse con il Commissario Arcuri in un rapporto confidenziale; circostanza che, sempre nell’impostazione della difesa, non vale tuttavia in alcun modo a connotare il rapporto di intermediazione nei termini della illiceità. La Corte di cassazione ha infine accolto il ricorso dell’imputato, aderendo alle sue doglianze circa la mancata ricorrenza della “mediazione illecita”.

 

4. Nella prima decisione in esame – resa nel processo a carico di Alemanno – la Cassazione ha affermato che il nucleo dell'antigiuridicità della fattispecie di traffico di influenze va ricercato «non nel mero sfruttamento (vero o vantato) di relazioni con il pubblico agente (che costituisce piuttosto il mezzo attraverso il quale il soggetto agente riesce ad ottenere dal privato la dazione indebita, anche solo come promessa), bensì in tutte quelle forme di intermediazione che abbiano come finalità “l'influenza illecita” sulla attività della pubblica amministrazione». D’altro canto, la norma non chiarisce in cosa debba consistere questa illiceità, per la cui tipizzazione non è neppure possibile fare ricorso, con ragionamento a contrario, ad una normativa – attualmente non ancora entrata in vigore – che disciplini i presupposti e le procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione (la c.d. lobbying). Il contenuto indeterminato della norma rischia dunque di attrarre nell’ambito del penalmente rilevante le più svariate forme di relazioni con la pubblica amministrazione, «connotate anche solo da opacità o scarsa trasparenza, ovvero quel "sottobosco" di contatti informali o di aderenze difficilmente catalogabili in termini oggettivi e spesso neppure patologici, quanto all'interesse perseguito». Per ovviare a questo rischio di iper-criminalizzazione, la Cassazione propone allora una interpretazione restrittiva della fattispecie, che considera “illecita” la mediazione quando finalizzata alla commissione di un "fatto di reato" idoneo a produrre vantaggi per il privato committente.

Facendo applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto che nel caso in esame fossero presenti gli estremi di una “mediazione illecita” di cui all’art. 346 bis c.p.: l'attività di mediazione, oggetto dell'accordo intercorso tra Buzzi e Alemanno, era infatti caratterizzata dalla illecita finalità di far ottenere alle cooperative di Buzzi un trattamento di favore per i pagamenti dei crediti pregressi, in violazione della normativa che disciplina la materia del pagamento dei debiti della p.a. Condotte queste ultime qualificabili come fatti di abuso di ufficio (art. 323 c.p.).

 

5. Giunge all’enunciazione di un principio analogo anche la sentenza relativa al caso Arcuri. In questa occasione le affermazioni della S.C. hanno riguardato in particolare la c.d. intermediazione onerosa. La formulazione dell’art. 346 bis c.p. prevede infatti due modalità alternative e distinte di realizzazione della condotta tipica: da un lato, il farsi dare o promettere indebitamente denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio (mediazione onerosa); dall’altro lato, il farsi dare o promettere indebitamente denaro o altro vantaggio patrimoniale per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio (mediazione gratuita). Quest’ultima ipotesi è considerata dalla Cassazione di più agevole discernimento sul piano del disvalore. Secondo la sentenza in esame, infatti, in tal caso il carattere illecito della mediazione è più facilmente percepibile, attesa la natura intrinsecamente illecita del “contratto” che è rivolto alla corruzione del soggetto pubblico: per esso non si rende quindi necessaria alcuna specificazione ulteriore con riferimento alla sua illiceità. Diverso il discorso, invece, con riguardo alla c.d. mediazione onerosa che, in assenza di una disciplina extra-penale che definisca i presupposti e i limiti della attività di rappresentanza di interessi, non possiede un suo proprio contenuto offensivo e necessita quindi di una «‘caccia all’illiceità’ di questo comportamento non univoco quanto a disvalore»[7].

Con riferimento, in particolare, alla c.d. mediazione onerosa, la sentenza del caso Arcuri ha ribadito il principio secondo cui il connotato di illiceità della mediazione non può che essere correlato allo “scopo”, o meglio, alla finalità dell'attività d'influenza. La mediazione sarà illecita dunque se è volta alla commissione di un illecito penale – di un reato – idoneo a produrre vantaggi al committente. In altre parole, si tratterà di una mediazione illecita se questa è espressione della intenzione di inquinare l'esercizio della funzione del pubblico agente, di condizionare, di compromettere l'uso del potere discrezionale, spingendo il p.u. alla commissione di una condotta penalmente rilevante. I giudici di legittimità hanno inoltre significativamente elencato ciò che senz’altro non rientra all’interno della nozione di “mediazione illecita”, non potendo dunque essere oggetto di incriminazione. Tra tali attività lecite figurano: a) il contratto di per sé, sia esso di mediazione in senso stretto o di altro tipo; b) il mero “uso” di una relazione personale, preesistente o potenziale; il fatto cioè che un privato contatti una persona in ragione del conseguimento di un dato obiettivo lecito perché consapevole della relazione, della possibilità di “contatto”, tra il “mediatore” ed il pubblico agente, da cui dipende il conseguimento dell'obiettivo perseguito; c) la mera circostanza che il contratto tra committente e venditore contenga difformità dal tipo legale, presenti cioè profili di illegittimità negoziale, rispetto al contratto tipico di mediazione disciplinato dagli artt. 1754 ss. del codice civile.

Alla luce di quanto premesso, la Cassazione ha quindi accolto il ricorso proposto da uno degli imputati, ritenendo che il Tribunale, nel disporre il sequestro preventivo, non avesse fatto corretta applicazione dei principi appena enunciati. Nell’ordinanza impugnata è stato infatti ritenuto sussistente il fumus commissi delicti del delitto di cui all’art. 346 bis c.p. – e quindi anche l'illiceità della mediazione – sostanzialmente in ragione del fatto che Benotti, il mediatore, avesse un rapporto di conoscenza personale con Domenico Arcuri, che questi aveva sfruttato per proporre al Commissario l’acquisto delle mascherine presso le aziende cinesi indicate dal gruppo di imprenditori che si erano a lui rivolti. Oltre alla circostanza che la mediazione sarebbe stata prestata “al di fuori di un ruolo istituzionale o professionale” e dunque non fosse contrattualizzata. A questo proposito i giudici di legittimità hanno sottolineato come non sia in contestazione il fatto che gli imprenditori non si sarebbero mai "affidati" a Benotti se non avessero saputo del rapporto di questi con Arcuri, e dunque della possibilità di conseguire un vantaggio in ragione proprio della relazione personale del mediatore con il pubblico agente. Ma ciò non rende di per sé illecito il “contratto” tra i committenti e il mediatore. Per concludere in questo senso il Tribunale avrebbe invece dovuto dimostrare la presenza di una finalità illecita di inquinamento della funzione pubblica: in altre parole che la mediazione, realizzata da Benotti nei confronti di Arcuri, fosse indirizzata a far commettere al pubblico agente una condotta di reato; circostanza che tuttavia il tribunale non ha argomentato in alcun modo.

* * *

6. Nel commentare le due sentenze della Cassazione, ci sembra che debbano essere sottolineati due aspetti. Il principio affermato dai giudici di legittimità – secondo cui è illecita solo la mediazione finalizzata alla commissione di un fatto di reato idoneo a produrre vantaggi per il privato committente – pare senz’altro essere in grado di condurre ad una lettura della norma più restrittiva, capace di ovviare a quel deficit di precisione da tempo e da più parti denunciato. Si tratta di una lettura maggiormente restrittiva non soltanto rispetto a quella ricavabile dall’interpretazione letterale della disposizione vigente, che incrimina la “(…) mediazione illecita verso un pubblico ufficiale (…) in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri (…)”. Ma anche a confronto con quella che risultava dalla formulazione precedente alle modifiche della c.d. legge “spazza-corrotti”, secondo cui era penalmente rilevante “(…) la mediazione illecita verso il pubblico ufficiale (..) in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio (…)”. Pare evidente, infatti, come la realizzazione di un atto contrario ai doveri da parte di un pubblico agente non sempre corrisponda alla commissione di un fatto di reato. Basti pensare, per esempio, al delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), per la cui realizzazione non è sufficiente porre in essere un atto, un’azione o un’omissione, “in violazione di specifiche regole di condotta, espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge (…)”, un atto contrario ai doveri appunto. A ciò dovrà quantomeno aggiungersi l’accertamento che da tale violazione possa derivare (sia derivato) “un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per un terzo” ovvero “un danno ingiusto per altri”.

La soluzione proposta nelle sentenze della Cassazione comporta tuttavia importanti conseguenze con riferimento ai profili della prova. In virtù del principio qui affermato sembra infatti aggravarsi l’onere probatorio in capo al giudice del merito, il quale – per concludere circa la sussistenza del delitto di cui all’art. 346 bis c.p., nella modalità c.d. onerosa (ovvero, quando il denaro promesso al mediatore è solo destinato a remunerare la mediazione illecita verso il pubblico ufficiale) – dovrà dimostrare che la mediazione commissionata dal privato all’intermediario fosse indirizzata a far compiere al pubblico agente un fatto di reato. Non sempre sarà tuttavia possibile, o comunque agevole, individuare, in un momento che può essere molto anticipato nell’iter criminis, la condotta che il soggetto pubblico è chiamato a compiere, e segnatamente valutare se questa sia riconducibile o meno a una norma incriminatrice. Il rischio è che tale valutazione – come d’altra parte abbiamo avuto modo di costatare, nel vigore della precedente formulazione, con riferimento alla ricorrenza del fine di far compiere al p.u. un atto contrario ai doveri[8] – possa essere condotta sbrigativamente e presumendo la direzione illecita della mediazione dalla mera presenza di un rapporto personale tra intermediario e pubblico agente.

L’apprezzabile sforzo della Cassazione di circoscrive l’incriminazione attraverso la nuova nozione di “mediazione illecita” porta allora con sé la necessità di un particolare rigore del giudice di merito nel darvi applicazione. Questi non potrà infatti esimersi dall’accertare che ciò che il privato richiede all’agente pubblico, attraverso la mediazione, sia la commissione di un fatto di reato, di cui ricorrono dunque tutti gli elementi strutturali. Non essendo sufficiente, al contrario, rifugiarsi nell’affermazione che la pressione, sollecitata dal privato tramite il mediatore, sia genericamente diretta ad inquinare l’esercizio imparziale della funzione pubblica, ovvero ad alterare la valutazione degli interessi in gioco. Se sono solo queste ultime le circostanze che posso essere provate, la soluzione non potrà che essere l’assoluzione dell’imputato, nel difetto dell’accertamento del requisito dell’illiceità della mediazione, così come da ultimo interpretato dalle sentenze della Corte di cassazione.

 

 

 

[1] Cass. pen., Sez. VI, sent. 8 luglio 2021 (dep. 9 novembre 2021), n. 40518, Pres. Fidelbo, Rel. Calvanese, ric. Alemanno, in Dejure e Cass. pen., Sez. VI, sent. 14 ottobre 2021 (dep. 13 gennaio 2022), n. 1182, Pres. Criscuolo, Rel. Silvestri, ric. G.D.R., in Dejure.

[2] Cfr. F. Cingari, La riforma del delitto di traffico di influenze illecite e l’incerto destino del millantato credito, in Dir. pen. proc., 2019, fasc. 6, p. 753.

[3] Cfr., per queste osservazioni V. Mongillo, Il traffico di influenze illecite nell’ordinamento italiano dopo la legge “Spazzacorrotti”: questioni interpretative e persistenti necessità di riforma, in S. Giavazzi, V. Mongillo, P.L. Petrillo (a cura di), Lobbying e traffico di influenze illecite. Regolamentazione amministrativa e tutela penale, Torino, 2019, p. 265 ss. Si v. altresì V. Mongillo, La legge “Spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, in Dir. pen. cont., fasc. 5/2019, 27 maggio 2019, p. 231 ss.

[4] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. 8 luglio 2021 (dep. 9 novembre 2021), n. 40518, ric. Alemanno, in Dejure.

[5] Cfr. Trib Roma, Sez. II, sent. 25 febbraio 2019 (dep. 21 maggio 2019), pres. Lorenzo, imp. Alemanno (inedita).

[6] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. 14 ottobre 2021 (dep. 13 gennaio 2022), n. 1182, ric. G.D.R., in Dejure.

[7] Così testualmente F. Palazzo, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. pen., 2015, fasc. 10, p. 3398.

[8] Cfr. M.C. Ubiali, Attività politica e corruzione. Sulla necessità di uno statuto penale differenziato, Milano, 2020, p. 335 ss.