Cass., Sez. I., sent. 12 ottobre 2021 (dep. 17 gennaio 2022), n. 1636, Pres. Bricchetti, rel. Casa, ric. De Marco
1. La sentenza qui segnalata merita apprezzamento per il rigore argomentativo e la precisione con i quali fissa un canone interpretativo netto e lineare in ordine a un peculiare profilo della responsabilità in forma plurisoggettiva nel contesto dei reati di bancarotta.
Conviene principiare con una breve sintesi della vicenda che costituisce lo sfondo nel quale si colloca la decisione del Giudice della legge. Il ricorrente era stato dapprima condannato per fatti di bancarotta fraudolenta documentale nella sua qualità di responsabile amministrativo e contabile di una società poi dichiarata fallita: la decisione (confermativa) della Corte territoriale era stata censurata dalla Corte di Cassazione (Sezione V) «perché, da un lato, sembrava richiamare, in alcuni passaggi argomentativi, gli indici fondanti il ruolo di amministratore di fatto» del ricorrente in quanto «“unico responsabile della contabilità” nella società [omissis], oltre che nella S.r.l. [omissis] del medesimo gruppo, ‘che di fatto gestiva in maniera simultanea e coordinata’; dall'altro, in successivi brani della motivazione, al fine di ridimensionare la portata argomentativa insita nella circostanza che le irregolarità contabili erano iniziate ben prima (nel 1996) che lo stesso [ricorrente] venisse assunto (nel 1998), con ruolo di mero dipendente, pareva delineare il ruolo dell'imputato in termini di concorso dell'extraneus nel reato dell'amministratore di diritto». Rammentato ancora che «i presupposti ascrittivi della responsabilità, anche sotto il profilo soggettivo, erano diversi nel caso di bancarotta documentale commessa da un amministratore di fatto», ne seguì una decisione di annullamento con rinvio, successivamente alla quale altra sezione della Corte d’Appello di Milano aveva ritenuto sussistente la responsabilità penale del ricorrente quale «concorrente extraneus, in linea con la formulazione del capo d'accusa (che non lo indicava come amministratore di fatto)».
È interessante ripercorrere i passaggi argomentativi sui quali il giudice del rinvio aveva fondato il proprio convincimento: esclusa la responsabilità come amministratore di fatto («[n]on vi erano elementi sintomatici di una reale autonomia decisionale» ovvero suggestivi del fatto che «egli potesse decidere, compiere atti di gestione o definire le condotte fraudolente» sicché il «solo ruolo formale di "Responsabile amministrativo e contabile" (…) non poteva apprezzarsi alla stregua di una presunzione iuris et de iure»), la Corte territoriale concluse ritenendo che «[d]i conseguenza, l'imputato doveva essere considerato un soggetto estraneo all'attività amministrativa, seppure concorrente nel reato proprio» commesso dal soggetto qualificato.
2. Prima di dar conto del profilo di maggior interesse (quello inerente alla responsabilità dell’extraneus a titolo di concorso), conviene ricordare brevemente il passaggio motivazionale attraverso il quale la sentenza in commento fissa – sulla scorta dell’insegnamento del Giudice della legge – i parametri essenziali per l’identificazione della figura dell’amministratore di fatto: «esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione», avvertendo tuttavia che «significatività e continuità non comportano necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale».
Appena il caso di osservare come siffatta lettura sia perfettamente coerente con il vincolante riferimento normativo, rappresentato dall’art. 2639 c.c., che ha dato positivo riconoscimento a una nozione già elaborata da giurisprudenza e dottrina[1] muovendo dal non controvertibile dato empirico che consegna all’interprete realtà nelle quali la effettiva gestione dell’impresa (o di settori o di ambiti della stessa) è in concreto esercitata da soggetti diversi da quelli che formalmente ricoprono la relativa carica o il relativo ruolo.
Non meno interessante – anche per l’efficacia della sintesi – l’ulteriore riflessione, concernente il profilo (altrettanto delicato) dell’accertamento: «la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive - in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare».
3. Esclusa la responsabilità come amministratore di fatto, il Giudice del rinvio aveva ritenuto la sussistenza della responsabilità concorsuale dell’extraneus, con una serie di argomenti così riassunti dalla sentenza in discorso: il ricorrente «aveva rivestito un ruolo formale all'interno della società (…) sapeva dell'assenza o della parzialità delle scritture contabili per il periodo in cui era stato carica (…) era consapevole delle finalità fraudolente sottese alle modalità di tenuta delle scritture contabili», sicché «non poteva prospettarsi l'inconsapevolezza tipica del dipendente, mero esecutore di direttive e incapace di comprendere il portato del proprio agire, come sostenuto dalla difesa», non potendo invece l’imputato «non rappresentarsi le conseguenze della sua condotta ed in virtù di tale rappresentazione, ne aveva, comunque, accettato preventivamente il risultato».
È propriamente nella censura a siffatta cadenza argomentativa e nel sintetico nitore del canone ermeneutico affermato che si coglie il profilo di maggior interesse della pronuncia qui presentata.
Rinviando ad altra sede un approfondimento ulteriore, preme comunque notare come il Giudice della legge riaffermi fortemente l’esigenza di identificare «lo specifico contributo concorsuale apportato»[2] dall’extraneus al reato commesso dall’agente qualificato, dove il riferimento alla specificità vale non soltanto a connotare il contributo in termini di valenza causale[3], ma anche – e, vien da dire, soprattutto rispetto alla vicenda processuale e a molte altre consimili – in relazione alla necessità che, per essere rilevante ai fini della integrazione di un siffatto contributo, la condotta dell’extraneus deve estrinsecarsi in riconoscibili positivi comportamenti[4]. Tale caratterizzazione (fondamentale, ma opportunamente richiamata in sentenza) si collega a due luoghi dialettici, spesso evocati nella prosa della Curia e del Foro, oggetto di riflessioni da parte della dottrina: da un lato la cd responsabilità da posizione[5], dall’altro il binomio connivenza/concorso[6].
3.1. Alla mera circostanza storica (non ulteriormente connotata) che il soggetto abbia ricoperto una carica aziendale non può essere connesso alcun tratto suggestivo di una responsabilità concorsuale: di per sé il ruolo formale esercitato non fornisce nulla più che le coordinate per collocare il soggetto nel contesto aziendale, senza che da tale quadro (considerato sia nel complesso dell’organizzazione d’impresa sia nel dettaglio concernente il ruolo del soggetto) possano essere desunti elementi idonei a identificare quello «specifico contributo concorsuale apportato» in concreto alla commissione del reato da parte del soggetto qualificato. Impossibilità strutturale, che deriva dalla natura formale e, volendo, astratta della descrizione tipologica delle attività riconducibili al ruolo aziendale ricoperto[7]: a ben vedere, le caratteristiche, che accedono in modo proprio al ruolo o alla funzione aziendale, non esprimono nulla con riguardo ai comportamenti effettivamente tenuti dall’agente, mentre, in rapporto alla configurazione omissiva impropria, dalle menzionate caratteristiche potrebbero ricavarsi, al più, elementi suggestivi di una eventuale posizione di garanzia ricoperta dall’agente: ma anche in tale ipotesi, la stessa non sarebbe di per sé sola bastevole a dar vita a una responsabilità dell’extraneus a titolo concorsuale[8].
3.1.1. Ambientato nel contesto plurisoggettivo eventuale, il paradigma disegnato dall’art. 40 cpv c.p. sconta l’esigenza che l’omittente – oltre alla titolarità dell’obbligo giuridico di attivarsi e alla concreta fattibilità dell’impedimento (conformemente al precetto dettato dalla menzionata disposizione) – fosse a conoscenza (id est: fosse consapevole) dell’evento (futuro) che avrebbe avuto l’obbligo di impedire.
Secondo un modo maggiormente analitico: trattandosi di un evento che è accaduto, rispetto al quale occorre predicare la idoneità impeditiva di una condotta che avrebbe dovuto essere tenuta e non lo fu, è coessenziale che l’omittente si fosse rappresentato il verificarsi dell’evento futuro rispetto al quale vige il dovere impeditivo, perché soltanto in tal caso gli è addebitabile a titolo doloso la responsabilità per l’evento futuro stesso[9].
Nel contesto della presente segnalazione, è bastevole un sommario cenno al problema sottostante. Rammentato che, vertendosi in materia di reati dolosi, dovrà trattarsi di rappresentazione effettiva (e non di mera rappresentabilità, riprendendo il binomio conoscenza vs conoscibilità), la peculiarità costituita dall’essere oggetto del momento intellettivo del dolo la raffigurazione di un evento futuro (e, dunque, come tale, inesistente nel presente) richiede una ulteriore notazione.
La prospettazione di un evento futuro si risolve in un giudizio di previsione circa la probabilità che un dato evento (rectius: che un evento appartenente a una data classe tipologica di eventi) abbia ad accadere in un tempo successivo al momento nel quale tale giudizio viene formulato (ovvero – e più esattamente al cospetto del canone penalistico segnato dall’art. 40 cpv c.p. – che avrebbe dovuto essere formulato). Se non basato su elementi oggettivi e con essi fortemente interrelato, se condotto al di fuori di un paradigma razionale (e per ciò solo verificabile), un tal genere di giudizio finirebbe con il tradursi nella manifestazione di un’opinione soggettiva[10], esposto, da un lato, alla pressoché fisiologica distorsione del giudizio retrospettivo[11] e, dall’altro, alla non controllabile prevalenza dei convincimenti ‘interni’ (in genere pre-giudizi di natura valoriale) del ‘giudicante’[12].
Sicché l’opinione soggettiva, figlia ineluttabile della logica soltanto apparente del ‘caso per caso’[13], diverrebbe il paradossale parametro di riferimento per apprezzare la rappresentabilità ex ante (ma necessariamente ricostruita ex post, dunque: a evento accaduto) dell’evento futuro.
Ne segue, quasi per logica inferenza, che la valutazione circa la conoscibilità/rappresentabilità dell’evento futuro dovrà essere fondata su elementi oggettivi esistenti nel tempo nel quale viene (deve essere) collocata la condotta doverosa che l’omittente non realizzò (e che, invece, ex art. 40 cpv c.p., avrebbe dovuto porre in essere).
Ancora un (brevissimo) approfondimento analitico: con riferimento agli elementi esistenti nel tempo nel quale si situa la valutazione della rappresentabilità, occorre precisare che nel loro novero vanno compresi non soltanto quelli in quel momento esistenti, ma anche quelli cronologicamente anteriori (id est: quelli che appartengono al passato rispetto al presente storico, che corrisponde appunto al momento della valutazione circa la rappresentabilità)[14].
Nel lessico penalistico gli elementi oggettivi esistenti ai quali si è fatto riferimento sono variamente denominati: talvolta segnali o campanelli d’allarme, in altri casi indici segnaletici, red flag (per chi indulge agli anglicismi) e via via enumerando, ferma la sostanziale equivalenza contenutistica[15]. Oltre la denominazione, stanno però profili meritevoli d’attenzione. Difficile negare che in ordine a un accadimento futuro si possa predicare qualcosa di diverso dalla probabilità, essendo a dir poco inappropriato parlare di possibilità, posto che quest’ultimo concetto – se còlto in termini precisi – è sostanzialmente inutilizzabile per la sua evanescente indeterminatezza (si pensi al suo omologo speculare: ragionando in termini di mera possibilità, si dovrebbe negare l’eventualità dell’accadimento futuro soltanto e unicamente nell’ipotesi nella quale se ne possa radicalmente escludere la verificazione, ciò che significa attribuire il grado zero di probabilità di verificazione: evenienza, quest’ultima, in linea astratta congetturabile, ma inesistente nella concretezza delle realtà giudiziarie oppure affidata a esemplificazioni immaginate, ma in realtà frutto di una cattiva – e confondente – empiria).
Se il territorio della probabilità è quello nel quale la valutazione in discorso trova la sua corretta ambientazione, un tale apprezzamento è tuttavia funzione, oltre che degli elementi oggettivi esistenti (i segnali d’allarme, ecc.), anche delle capacità di lettura e di interpretazione adeguate rispetto al settore nel quale si colloca il giudizio prognostico ovvero la previsione da formulare (evidente essendo che ben differente patrimonio di conoscenze è necessario per esprimere una razionale previsione qualora si verta, alternativamente, in materia di continuità aziendale ovvero in campo medico diagnostico).
Il breviloquio ‘segnali d’allarme’ svela però altri sentieri da percorrere: oggettivamente inteso, il segnale d’allarme non si distingue da un qualunque altro elemento della realtà fenomenica, posto che, a ben vedere, ‘segnale d’allarme’ è una denotazione di valore, attribuita secondo un criterio che dipende dal contesto d’interesse. Sicché di un duplice passaggio si compone l’apprezzamento del cd segnale d’allarme: occorre, da un lato, che esso venga riconosciuto come tale (cioè che ne venga percepita la valenza segnaletica, che lo distingue da tutti gli altri elementi della realtà fenomenica), e, dall’altro, che se ne apprezzi la valenza rispetto alla prognosi in ordine all’evento futuro (cioè che ne venga intesa – ‘misurata’ – l’incidenza sulla probabilità di accadimento dell’evento futuro).
Per chiudere questa digressione dedicata al contributo concorsuale dell’omittente, rimane da osservare che, qualora si discorra di reati dolosi – come quelli di cui si occupa la sentenza qui segnalata – non deve sfuggire che i segnali d’allarme dovranno specchiarsi nel momento intellettivo del dolo come oggetti di una effettiva rappresentazione (dei quali sia dunque predicabile la conoscenza e non la mera conoscibilità, compatibile soltanto con le fattispecie colpose)[16].
In modo analogo, la prognosi circa l’accadimento futuro – ferma restandone la natura probabilistica – non potrà essere ridotta a mera possibilità di verificazione (o, ancor più implausibilmente, a esclusione della eventualità della verificazione): posta in questi termini, la domanda implicherebbe sul piano logico una risposta pressoché sempre affermativa (nel senso della eventualità della verificazione, ovvero, specularmente negativa se la domanda dovesse attenere alla impossibilità della esclusione), con l’ineluttabile conseguente estensione a dismisura della valenza segnaletica del ‘campanello d’allarme’ e, en cascade, delle derivate sul piano dell’attuazione dell’obbligo di attivarsi e, in fine, della responsabilità penale.
3.2. Tornando al sicuro insegnamento della decisione in discorso, è opportuno ricordare che la citazione dei tratti essenziali della motivazione della Corte di merito (sopra trascritti) compiuta dai Giudici della legittimità mostra all’evidenza come il Giudice del rinvio non avesse dato conto di comportamenti specifici attributi al ricorrente, comportamenti che, soli, avrebbero potuto integrare quello «specifico contributo» la cui sussistenza è condizione essenziale l’integrazione della fattispecie concorsuale.
In questo senso va còlta la precisazione ulteriore della sentenza della Corte regolatrice, quando efficacemente nota che per tale modo non si va oltre una descrizione di «una condotta oggettiva "staticamente" coincidente con il ruolo formale esercitato dal ricorrente» (dunque una responsabilità da posizione): al contrario, per sostenere in modo coerente con il canone che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, è necessario che la condotta abbia natura ‘dinamica’ (seguendo le parole del Giudice di Cassazione, che consista in un «concreto “dinamico” contributo»). In altri termini, a essere rivendicata è l’esigenza che nella fattispecie plurisoggettiva eventuale il comportamento del concorrente (dell’extraneus quando si versa, come nel caso, nel territorio dei reati propri) assuma una effettiva concretezza, rispetto alla quale è unicamente possibile predicare il requisito della (eventuale) rilevanza causale. Diversamente, come esattamente osserva il Giudice della legge, si finisce con l’affermare una responsabilità penale non già per la condotta, ma per la posizione.
L’ulteriore notazione che conclude la decisione in esame è non meno illuminante, pur nella sua sinteticità: dopo aver richiamato l’ambito delle conoscenze di cui il ricorrente poteva disporre in ordine alla vicenda e dopo averne ricordato il ruolo formale all’interno dell’organizzazione aziendale, osserva la Corte di Cassazione che, in assenza di condotte concretamente tenute, è errato «inferire - e con un salto logico - l'integrazione dell'elemento soggettivo del reato, senza rendersi conto che, in mancanza di una sufficiente specificazione del concreto “dinamico” contributo concorsuale apportato dall’extraneus nel reato dell'amministratore di diritto, la posizione soggettiva dell'imputato non avrebbe potuto in alcun modo travalicare il perimetro della mera connivenza non punibile».
Precisazione preziosa: la distinzione fra concorso e connivenza trascorre proprio in questo snodo. La consapevolezza della situazione antigiuridica da altri posta in essere non fomenta di per sé la configurazione di una forma di concorso eventuale di persone nel reato in capo al soggetto consapevole, a meno che questi non abbia una posizione di garanzia che – ex art. 40 cpv c.p. – gli imponga di agire (sempre che si voglia portare all’interno di una figura di concorso una situazione plurisoggettiva caratterizzata, per un soggetto, da una condotta attiva e, per l’altro soggetto, da una condotta omissiva impropria).
Sfornito di poteri/doveri d’intervento, il ricorrente non può essere considerato omittente in senso penalmente rilevante, sicché anche l’eventuale piena consapevolezza della situazione d’illiceità ascrivibile alla condotta dell’intraneus rimane esterna all’area del penalmente rilevante.
[1] In giurisprudenza, da ultimo, si vedano, Cass. pen. Sez. V, 1 giugno 2021 – 2 agosto 2021, n. 30197; Cass. pen. Sez. V, 15 ottobre 2020 – 25 febbraio 2021, n. 7437; Cass. pen. Sez. V, 27 ottobre 2020 – 21 dicembre 2020, n. 36865, quest’ultima significativa poiché analizza la questione in relazione all’amministratore di diritto della controllante considerato amministratore di fatto della controllata. In dottrina, senza alcuna pretesa di esaustività, v. V. Napoleoni, Estensione delle qualifiche soggettive, in Aa. Vv., Commentario romano al nuovo diritto delle società, diretto da Fl. D’Alessandro, III, I reati e gli illeciti amministrativi, Padova, 2009, 439; A. Rossi, I criteri per l’individuazione dei soggetti responsabili nell’ambito delle società: l’estensione delle qualifiche soggettive, in A. Rossi (a cura di), Reati societari, Torino, 2005, 82; P. Veneziani, Art. 2639, in A. Lanzi-A. Cadoppi (a cura di), I reati societari, Padova, 2007, 296.
[2] Enfasi aggiunta.
[3] La connotazione causale della condotta concorsuale è requisito costitutivo indefettibile della fattispecie plurisoggettiva eventuale, derivando immediatamente dal canone personalistico della responsabilità penale, cui è connaturata l’impossibilità strutturale di rispondere del fatto altrui. La nozione è unanimemente riconosciuta: in modo icastico, «non vi può essere concorso di persone nel reato se la condotta atipica non ha esercitato un’influenza causale sul fatto concreto tipico realizzato da altri: in assenza di questo collegamento causale, la condotta atipica non reca infatti nessun contributo all’offesa al bene giuridico immanente al fatto principale», così G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, parte generale, IX ed., Milano, 2020, 546, enfasi nel testo.
[4] La ‘riconoscibilità’ del comportamento vuole essere una caratterizzazione del concetto della effettività concreta della condotta della quale si intende predicare la natura concorsuale, come forma di ‘contribuzione’ alla realizzazione del fatto tipico costituente reato.
[5] In dottrina, v. per tutti, M. Pelissero, Il concorso doloso mediante omissione: tracce di responsabilità di posizione, Giur. it., 2010, 978 ss., nonché F. Consulich, Poteri di fatto ed obblighi di diritto nella distribuzione delle responsabilità penali societarie, Soc., 2012, 557. In giurisprudenza v. Cass. pen. Sez. V, 8 giugno 2012 – 2 novembre 2012, Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2013, 173, con nota di A. Ingrassia, La Suprema Corte e il superamento di una responsabilità di posizione per amministratori e sindaci: una decisione apripista? e giurisprudenza ivi citata.
[6] In giurisprudenza, da ultimo v. Cass. pen. Sez. IV, 8 settembre 2021 – 23 settembre 2021, n. 35069. In dottrina, v. per tutti, M.N. Masullo, La connivenza. Uno studio sui confini della complicità, Padova, 2013, passim. Con riguardo a configurazioni peculiari, v. altresì, M. Pelissero, Il concorso nel reato proprio, Milano, 2004; E. Basile, Consiglio tecnico e responsabilità penale. Il concorso del professionista tramite azioni “neutrali”, Torino, 2018.
[7] Il riferimento va alle cd job description, che forse più precisamente dovrebbero essere nel contesto essere indicate come mansionari, riferendo la parte d’interesse alla descrizione delle attività richieste per l’adempimento del ruolo o della mansione ricoperta nella struttura aziendale. Anche se proveniente da fonte diversa, eguale riferimento può valere con riguardo ai compiti propri dei soggetti che rivestono funzioni di amministrazione, gestione e controllo in ambito societario.
[8] Il tema è stato scandagliato in maniera approfondita e ampia, a partire da C. Pedrazzi, Gestione d’impresa e responsabilità penali, Riv. Società, 1962, 220. Si vedano altresì e senza pretesa alcuna di completezza, ancora C. Pedrazzi, Profili problematici del diritto penale d’impresa, RTDPE, 1988, 125; A. Alessandri, Corporate governance nelle società quotate: riflessi penalistici e nuovi reati societari, Giur. comm., 2002, 521; F. Consulich, Vigilantes puniri possunt. I destini dei componenti degli organismi di vigilanza tra obblighi impeditivi e cautele relazionali, RTDPE, 2015, 425; Fr. D’Alessandro (voce) Delega di funzioni (diritto penale), in Enc. dir., 2016, 241; G.A. De Francesco, Brevi riflessioni sulle posizioni di garanzia e sulla cooperazione colposa nel contesto delle organizzazioni complesse, LP, 2020, 1; T. Vitarelli, Profili penali della delega di funzioni. L’organizzazione aziendale nei settori della sicurezza del lavoro, dell’ambiente e degli obblighi tributari, Milano, 2008; T. Vitarelli, La disciplina della delega di funzioni, in F. Giunta-D. Micheletti, Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 2010, 37.
[9] La particolare configurazione dell’oggetto del dolo nella prospettiva evocata dal canone dell’art. 40 cpv c.p. dischiude profili problematici in riferimento al tema del dolo eventuale. Spunti significativi in proposito si rintracciano negli autori citati alle note 6 e 8, nonché alla nota 15 alle quali si fa rinvio. La questione è ovviamente destinata ad assumere una differente conformazione e anche esiti diversi qualora si verta in tema di reati colposi.
[10] Può forse essere interessante non tanto il richiamo alla distinzione, eredità di comuni studi liceali, già nota alla filosofia antica fra δόξα ed επιστήμη, quanto che proprio tale distinzione venne ripresa da Roberto Grossatesta. Nel suo Commentario ai Secondi Analitici Grossatesta distingue fra opinione, intelletto e scienza, segnalando che il concetto di opinione rimanda a due specifici significati. Da un lato vale per ogni conoscenza o credenza che, come tale, non ha in sé una garanzia di verità accertata, dall’altro vale come qualsiasi asserto basato su una esperienza sensibile, immediata e contingente, che in apparenza si presenti come teoreticamente vera. In altri termini, già in pieno Medio Evo era chiaro che l’opinione non poteva valere in alcun modo come giudizio con validità conoscitiva, ma, al più e se concernente un’esperienza sensibile, come primo passaggio di un iter che deve essere portato a conclusione dall'intelletto, principio della scienza. Forse è per questo che non infondatamente A.C. Crombie riteneva che Roberto Grossatesta fosse il vero fondatore della tradizione del pensiero scientifico nella Oxford medioevale e, in qualche misura, della tradizione intellettuale della moderna Inghilterra: d’altronde, non certo casualmente ad esserne allievo fu Ruggero Bacone, il Doctor Mirabilis, dai più considerato padre dell’empirismo e iniziatore del metodo scientifico, come Grossatesta frate francescano.
[11] L’errore del giudizio retrospettivo (hindsight bias) consiste nell’attitudine del soggetto a ritenere che sarebbe stato capace di prevedere un evento dopo che l’evento stesso si è verificato ed è noto. Nel caso di specie il verificarsi dell’evento integra appunto l’evento successivo noto che fonda l’hindsight bias. In proposito si vedano: B. Fischhoff, Hindsight ≠ foresight: the effect of outcome knowledge on judgment under uncertainty, Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 1975, 1, 288; B. Fischhoff-P. Slovic-S. Lichenstein, Knowing with certainty: the appropriateness of extreme confidence, Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 1977, 3, 552; B. Fischhoff, For those condemned to study the past, in R. Schweder-D. W. Fiske (a cura di), New Directions for Methodology of Social and Behavioral Science, San Francisco, 1980, 79; D. Koehler-L. Brenner-D. Griffin, The calibration of expert judgment, in T. Gilovich-D. Griffin-D. Kahneman (a cura di), Heuristics and Biases: The Psychology of Intuitive Judgment, New York, 2002, 686. Appena il caso di notare che, vertendosi in materia di causalità ipotetica, la prognosi postuma richiesta per apprezzare la portata congetturalmente impeditiva sconterà un effetto maggiore del c.d. hindsight bias rispetto alla forma di prognosi postuma necessaria per la valutazione della idoneità degli atti ex art. 56 c.p., fattispecie che sconta necessariamente il non verificarsi dell’evento. La circostanza che l’evento si è effettivamente verificato rende infatti particolarmente delicata la comunque indispensabile esigenza di eliminare dal processo valutativo il fattore confondente rappresentato dalla c.d. distorsione retrospettiva del giudizio.
[12] È il tema della precomprensione, ben presente nell’ermeneutica: è il retrostante scenario dei giudizi e delle conoscenze antecedenti derivanti sia dalla memoria culturale che appartiene al soggetto-giudicante, sia dal suo personale ambito di attese e prospettive, in base ai quali il soggetto-giudicante stesso tenta di cogliere il significato globale dell'oggetto di indagine. In proposito si vedano le profonde riflessioni di D. Canale, La precomprensione dell’interprete è arbitraria?, Ars Interpretandi, 2006, 327 e la vasta bibliografia ivi citata.
[13] Indubitabile che l’accertamento giudiziario sia indefettibilmente legato al singolo caso e che in questo senso sia del tutto corretto il riferimento al “caso per caso”. A non essere condivisibile è invece il diverso approccio per il quale le regole ermeneutiche per apprezzare il singolo caso possono essere tratte da quel medesimo caso. Sovente neppure tematizzato, un simile approccio è un esempio manifesto di cattiva empiria, poiché nasconde dietro la connessione con la fattispecie concreta l’assenza dell’indispensabile paradigma metodologico necessario per esprimere giudizi razionali (in quanto verificabili), qualunque sia il contenuto del giudizio che occorre formulare. Al di fuori di un siffatto paradigma, il giudizio non va oltre l’opinione soggettiva che, si badi, è tuttavia anch’essa fondata su strumenti interpretativi – poiché diversamente non potrebbe essere – che però non trovano riscontro all’esterno del soggetto che esprime l’opinione stessa, essendo per ciò solo non verificabili. In questo senso di pensi allo stilema “secondo buon senso”, copertura dialettica incontrollabile del vuoto argomentativo, quando non venga sorretta da precise indicazioni sulle ragioni costitutive del ‘buon senso’ evocato (non differenti considerazioni valgono quando la figura retorica consista nell’invocazione del “senso comune”). Banalizzando con un esempio (forse più ricorrente di quanto non appaia in questa versione metaforica e paradossale), sarebbe come dire che “conosco i problemi della scuola elementare in Italia perché me ne ha parlato mia cugina che fa la maestra elementare”.
[14] Il riferimento a fatti destinati ad avvenire non può che essere incardinata a un’informazione avente a oggetto un fatto del presente o del passato: si consideri, in proposito, la chiarissima esemplificazione di C. Pedrazzi, Aggiotaggio bancario, in P. Ferro Luzzi – G. Castaldi (a cura di) La nuova legge bancaria, 1996, 2044-2045, «la previsione di fatti futuri (un dissesto, un commissariamento) vale come notizia in quanto radicata nel presente, ossia in quanto ricollegata, almeno per implicito, ad anomalie in atto».
[15] Con identità di significato, parla di “segnali anticipatori”, A. Cerase, Rischio e comunicazione, Teorie, modelli, problemi, Milano, 2017, 87 e di “segnali fattuali immanenti” G. Fletcher, The Theory of Criminal Negligence: A Comparative Analysis, University of Pennsylvania Law Review, 1971, 119, 423. Analogamente J. Horder, Ashworth’s Principles of Criminal Law, Oxford, 2016, 205. Per notazioni di carattere generale intorno alla nozione di ‘segnali d’allarme’, si vedano D. Kahneman, A. Tversky, Prospect Theory: An Analysis of Decision under Risk, Econometrica, 47 (2) 1979, 263; A. Tversky, D. Kahneman, The Framing of Decisions and the Psychology of Choice, Science, New Series, vol. 211, 1981, 453; D. Kahneman, Thinking, Fast and Slow (trad. di L. Serra), Pensieri lenti e veloci, Milano, 2012. Sul versante penalistico, con riguardo anche alle posizioni soggettive, senza pretesa di esaustività, cfr F. Centonze, Controlli societari e responsabilità penale, Milano, 2009; F. Centonze, Il problema della responsabilità penale degli organi di controllo per omesso impedimento degli illeciti societari (una lettura critica della recente giurisprudenza), Riv. Soc.., 2012, 317; A. Crespi, La giustizia penale nei confronti dei membri degli organi collegiali, Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1147; A. Crespi, Note minime sulla posizione di garanzia dell’amministratore delegante nella riforma introdotta dal d.lgs. n. 6/2003, Riv. Società., 2009, 1419; F. Stella, D. Pulitanò, La responsabilità penale dei sindaci di società per azioni, RTDPE, 1990, 553. Per una critica alla prassi giurisprudenziale di ascrivere a sindaci ed amministratori non esecutivi una responsabilità “di posizione” o “per fatto altrui” si veda M. Pelissero, Il concorso doloso, cit., Giur. it., 2010, 981. In giurisprudenza v. in particolare Cass. pen. – Sez. V, 4 maggio 2007 – 19 giugno 2007, n. 23838, pres. Colonnese, rel. Sandrelli, che fissa in modo netto caratteristiche e funzione dei ‘segnali d’allarme’, cogliendone in modo perspicuo due momenti essenziali (peraltro già segnalati da C. Pedrazzi, Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. pen. proc., 2000, 1265), collegati alla loro (eventuale) valenza dimostrativa del momento intellettivo del dolo: la percettibilità oggettiva e soggettiva come «perspicui e peculiari in relazione all’evento illecito». La sentenza è commentata da D. Pulitanò, Amministratori non operativi e omesso impedimento di delitti commessi da altri amministratori, Le società, 2008, 899 e da F. Centonze, La Suprema Corte di cassazione e la responsabilità omissiva degli amministratori non esecutivi dopo la riforma del diritto societario, Cass. pen., 2008, 103. Successivamente si veda altresì Cass. pen., Sez. V, 8 giugno 2012 - 2 novembre 2012, n. 42519, con nota di A. Ingrassia, La Suprema Corte e il superamento, cit., Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2, 2013, 173.
[16] Sul punto paiono conclusive le parole di C. Pedrazzi, Tramonto, cit. «Quando “la ragionevole possibilità per l’amministratore estraneo alla concreta gestione delegata di rilevare l’illiceità lato sensu del comportamento distrattivo addebitabile al delegato” viene letteralmente “senz’altro (sic) equiparata alla consapevolezza concretamente raggiunta dal singolo componente del collegio”, passando disinvoltamente dal piano della possibilità (sempre tale anche se “ragionevole”) al piano dell’attualità psicologica, quasi fossero unum et idem, altro non si fa che rivestire la colpa delle mentite spoglie del dolo». Sul punto si veda anche G.P. De Muro, Sulla flessibilità concettuale del dolo eventuale, Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1, 2012, 142.