Cass., Sez. V, sent. 9 novembre 2021 (dep. 16 marzo 2022), n. 8973, ric. M.G.
1. Come ben si ricorderà, la prima fase dell’epidemia da Coronavirus nel nostro Paese è stata segnata, oltre che da una grave crisi del sistema sanitario e dalla conseguente imposizione di misure pesantemente restrittive delle libertà individuali su tutta la collettività, da una riacutizzazione del problema carcerario. I detenuti sono, in effetti, tra i soggetti su cui le prescrizioni imposte dall’emergenza sanitaria hanno inciso più pesantemente, in termini di limitazioni agli spostamenti e alle attività all’interno del carcere e soprattutto ai contatti con l’esterno; tali privazioni, aggiuntive rispetto a quelle fisiologicamente connesse all’esecuzione della pena detentiva, unite a un diffuso – e comprensibile – timore dei reclusi per la propria salute e incolumità individuale in un contesto carcerario caratterizzato da patologico sovraffollamento, hanno alimentato un clima di forti tensioni, esplose, in diversi casi, in proteste e rivolte, spesso violente[1].
In questo già complesso quadro, diverse indagini penali hanno portato allo scoperto episodi particolarmente gravi, che vedrebbero come protagonisti gli stessi agenti della polizia penitenziaria: fatti caratterizzati da violenze brutali e gratuite commesse in danno dei detenuti, qualificabili come vere e proprie “torture di stato”, cui corrisponderebbero altrettanti tentativi di insabbiamento.
Nel caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), nello specifico, il 6 aprile 2020 oltre trecento detenuti – come emergerebbe anzitutto dalla diffusione di alcune immagini provenienti dal circuito di videosorveglianza dell’istituto – sarebbero stati vittime di «atti di ingiustificabili violenze e umiliazioni», per usare le parole della Ministra della Giustizia Marta Cartabia, recatasi in visita presso l’istituto penitenziario insieme al Presidente Mario Draghi alcuni mesi dopo i fatti[2]. Il procedimento penale avviato in ordine a tale vicenda ha visto l’applicazione di decine di misure cautelari ad agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria, tra cui l’allora Comandante della polizia penitenziaria del carcere in questione, al quale si riferisce la sentenza della Cassazione che può leggersi in epigrafe[3].
2. Entrando nel merito del caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, va premesso che nel luglio 2021 il Tribunale del Riesame di Napoli aveva confermato l’ordinanza del G.i.p. che applicava la misura degli arresti domiciliari a M.G., Comandante della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, cui la Procura aveva provvisoriamente contestato numerosi reati di lesioni e torture, oltre ai reati di calunnia, falso e depistaggio.
Secondo quanto emergeva dagli atti di indagine, M.G., nell’esercizio della propria funzione, aveva concorso a organizzare un’operazione di “perquisizione straordinaria”, condotta il 6 aprile 2020 all’interno del reparto “Nilo” dell’istituto carcerario, per rispondere alle proteste svolte dai detenuti nei giorni precedenti. L’operazione aveva visto il dispiego di un numero ingentissimo di forze da parte della polizia penitenziaria – agli agenti operanti presso l’istituto si era infatti aggiunto un corpo speciale di duecento persone, provenienti dalle carceri di Secondigliano e Avellino e giunte in tenuta antisommossa – ed era durata per quattro ore, durante le quali tutti i detenuti del reparto erano stati indiscriminatamente sottoposti a violenze e umiliazioni[4]. Successivamente, peraltro, un gruppo di quattordici detenuti, considerati promotori delle proteste, dopo essere stato trasferito in un altro reparto per ben cinque giorni era stato vittima di ulteriori vessazioni e altrettanto brutali violenze fisiche e psicologiche[5].
3. A seguito dell’ordinanza del Tribunale del Riesame la difesa di M.G. presentava ricorso per cassazione, articolandolo in tre motivi.
3.1. Con il primo motivo, si deduceva l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza dei reati contestati.
In relazione ai delitti di lesioni e tortura, in particolare, la tesi difensiva era volta a sostenere l’estraneità dell’indagato (oggi imputato) alla catena di comando inerente al concreto svolgimento dell’operazione, la quale sarebbe stata interamente nelle mani del corpo speciale (c.d. “Gruppo di supporto agli interventi”) convenuto presso l’istituto su disposizione del Provveditorato regionale; il Comandante, invero, non era presente nel reparto al momento dei fatti, e si sarebbe perciò limitato a coordinare la riunione svoltasi il giorno precedente per organizzare una perquisizione straordinaria, la quale era operazione di per sé lecita e, anzi, “atto necessario e necessitato” al fine di ripristinare l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto a seguito delle proteste. In altri termini, la difesa sosteneva che M.G. aveva previsto e voluto solo la perquisizione straordinaria, non essendo a conoscenza – né ex ante, né al momento dei fatti – delle concrete modalità con cui questa si sarebbe svolta, non avendo in particolare autorizzato in alcun modo l’utilizzo di modalità violente e illecite, neanche implicitamente.
La difesa sottolineava inoltre la mancanza dei presupposti ex art. 40 c. 2 c.p. per addebitare i fatti di lesione e tortura all’indagato; il Tribunale del Riesame, infatti, aveva inquadrato le condotte a lui ascritte nell’ambito della responsabilità omissiva, considerato che egli non aveva direttamente partecipato alle violenze perpetrate dagli agenti. A giudizio della difesa, tuttavia, M.G. non sarebbe stato titolare di una posizione di garanzia effettiva, proprio perché egli non rivestiva alcun ruolo concreto nella gestione dell’operazione e, conseguentemente, non era in possesso di alcun potere impeditivo.
In aggiunta a ciò, si adduceva l’insussistenza dei requisiti costitutivi del delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p., mancando il requisito dell’abitualità, oltre che l’elemento soggettivo.
Per quanto concerne i reati di calunnia, falso e depistaggio, si metteva in luce che nei giorni successivi ai fatti M.G. era stato assente dal servizio e che quindi le condotte poste in essere successivamente all’operazione non potevano essergli addebitate; l’unica relazione a sua firma, del resto, era stata redatta lo stesso 6 aprile 2020 e di per sé doveva ritenersi un “atto assolutamente neutro”, in quando meramente compositivo delle relazioni redatte dagli agenti di polizia penitenziaria.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso, si contestava l’assenza delle esigenze cautelari, dovendosi in particolare desumere la mancanza di un concreto pericolo di reiterazione del reato dall’assoluta eccezionalità del contesto in cui si erano verificati i fatti contestati, che aveva condotto a un vero e proprio “cortocircuito del sistema”.
Le esigenze cautelari, peraltro, apparivano in concreto escluse anche in relazione al fatto che M.G. era già stato sottoposto in sede disciplinare alla misura della sospensione cautelare dal servizio; tale elemento doveva ritenersi dirimente, in quanto le condotte contestate apparivano riconducibili unicamente alle funzioni da lui al tempo svolte di Comandante della polizia penitenziaria.
3.3. In terzo luogo, veniva censurato il mancato rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza nella scelta della misura degli arresti domiciliari, potendo il giudice disporre una misura meno afflittiva, quale il divieto di allontanamento dal Comune di residenza in cui non fossero presenti istituti penitenziari.
4. La Suprema Corte reputa infondati tutti i motivi di ricorso enunciati.
4.1. Con riferimento al primo motivo, anzitutto, la Cassazione osserva come le doglianze difensive mirassero a una valutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sollecitando una diversa lettura degli elementi di fatto emersi nell’indagine e posti a fondamento della decisione cautelare. Conseguentemente, i giudici di legittimità rammentano che tra le loro prerogative rientra esclusivamente una verifica della logicità e coerenza della motivazione dell’ordinanza impugnata, elementi che a loro giudizio devono andare esenti da censure nel caso in esame, in quanto il Tribunale del Riesame avrebbe adeguatamente individuato una serie significativa di elementi volti a dimostrare una piena e consapevole partecipazione di M.G. alle operazioni di “perquisizione straordinaria” –concretatasi in una vera e propria spedizione punitiva – e alle vessazioni riservate nei giorni successivi ai quattordici detenuti trasferiti[6].
Ciò nondimeno, la Corte ritiene di non poter aderire integralmente alla ricostruzione del Tribunale del Riesame di Napoli, censurando in particolare la scelta del giudice di qualificare la responsabilità dell’indagato in termini di concorso omissivo nei fatti di torture e lesioni aggravate. Tale ricostruzione, osserva la Cassazione, appare fondata sul fatto che M.G. non partecipò fisicamente alle violenze contestate, ma sembra poggiare sull’equivoco che il concorso materiale possa essere ascritto al solo co-autore del fatto, ossia a chi ponga in essere atti esecutivi della fattispecie tipica: al contrario, la funzione dell’art. 110 c.p. è specificamente quella di attribuire rilevanza a condotte atipiche, tanto di soggetti ausiliari, quanto di determinatori o istigatori. La condotta addebitata a M.G., pertanto, viene (a nostro giudizio correttamente) riqualificata in termini di concorso commissivo e non omissivo, sostanziandosi in un contributo attivo alla causazione dei contestati fatti di reato, di carattere tanto materiale, quanto morale[7].
Prive di fondamento sono considerate anche le – generiche – doglianze relative all’insussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p. A tal proposito, la Suprema Corte si richiama ai principi di diritto già sanciti in alcune precedenti pronunce di legittimità in materia, che evidenziano, da un lato, come il reato in questione sia solo eventualmente abituale (non solo perché può essere integrato anche da un’unica condotta che costituisca “trattamento inumano e degradante”, ma anche perché la locuzione “mediante più condotte” può essere riferita anche a una pluralità di atti violenti realizzati in un medesimo contesto cronologico[8]), dall’altro come la fattispecie non richieda un “dolo unitario”, essendo necessaria e sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte[9].
4.2. Anche per quanto riguarda i delitti di calunnia, falso e depistaggio la Suprema Corte evidenza come le censure difensive siano prive di fondamento. L’impianto accusatorio, infatti, si fondava proprio sulla relazione, redatta e firmata da M.G. lo stesso 6 aprile 2020, in cui questi accusava falsamente i quattordici detenuti trasferiti e trattenuti in altro reparto di condotte di resistenza e minaccia a pubblico ufficiale, oltre che su una serie di elementi che apparivano idonei a dimostrare che l’indagato, anche nei giorni in cui era assente dal servizio, interloquiva costantemente con gli agenti incaricati di predisporre relazioni di servizio e materiale fotografico falso.
4.3. Infondate sono, da ultimo, anche le doglianze relative alle esigenze cautelari e al rispetto dei principi di proporzione e adeguatezza.
La Suprema Corte, infatti, rammenta che il “pericolo di reiterazione di reati della stessa specie” di cui all’art. 273 lett. c) c.p.p. non coincide con la reiterazione degli stessi fatti-reato contestati, sicché non rileva l’eccezionalità del contesto in cui questi si sono verificati; per quanto riguarda l’attualità delle esigenze cautelari, pure a fronte della sospensione dal servizio dell’indagato disposta in sede disciplinare, viene addotto che la cessazione del rapporto non potrebbe rivestire rilevanza determinante, in quanto la fattispecie contestata – il delitto di tortura – è delineata dal codice penale italiano come reato comune, sicché «il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non può essere eliso dalla sospensione della qualifica giuridica»[10].
L’adeguatezza della misura degli arresti domiciliari, invece, viene motivata alla luce della gravità dei fatti e del ruolo primario, organizzativo e decisionale, assunto da M.G. nella vicenda.
* * *
5. Seppure solo in sede cautelare, la grave vicenda oggetto della pronuncia in esame ha portato davanti alla Suprema Corte – per la prima volta dall’introduzione dell’art. 613-bis c.p. – il fenomeno della “tortura di Stato”, espressione che richiama alla memoria pagine dolorose della storia della nostra Repubblica[11].
Come noto, la scelta operata dal legislatore con il d.l. 110/2017 è stata quella di attribuire alla nuova fattispecie di tortura un ambito di applicazione ampio, comprensivo anche delle condotte perpetrate nell’ambito di rapporti di carattere inter-privatistico, così delineando un reato comune; nei casi in cui i fatti siano commessi da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, nondimeno, il secondo comma prescrive l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più severo (la pena della reclusione da cinque a dodici anni, in luogo della reclusione da quattro a dieci anni).
Non vi è dubbio che le condotte di tortura commesse da agenti di polizia penitenziaria nei confronti di soggetti detenuti vadano inquadrate nell’ambito di quest’ultima figura[12], la cui applicazione, in particolare, non può essere esclusa dalla presenza del delitto di abuso di autorità contro arrestati o detenuti di cui all’art. 608 c.p., il quale è posto a tutela non dell’integrità psico-fisica, ma della libertà personale residua della persona ristretta, e dunque non può essere considerato figura speciale[13]. Ci sembra pertanto necessario esprimere alcune riserve con riferimento al passaggio in cui la Corte, nel motivare la persistenza dell’esigenza cautelare del pericolo di reiterazione di reati pure a fronte dell’intervenuta sospensione disciplinare di M.G. dal servizio, attribuisce rilievo dirimente al fatto che il delitto di tortura sia un reato comune; tale argomento, invero, non ci pare esauriente, considerato che i fatti oggetto di contestazione nel caso di specie appaiono strettamente connessi alla presenza della qualifica pubblicistica in capo al soggetto agente e all’abuso del potere da questi esercitato, in ragione di tale qualifica, sul soggetto detenuto[14].
La Suprema Corte, in questo arresto, non si è tuttavia espressa sulla natura giuridica della fattispecie di cui all’art. 613-bis c. 2 c.p., la cui qualificazione in termini di circostanza aggravante o reato autonomo appare tuttora controversa. La stessa Corte di legittimità, che finora ha affrontato il problema solo in obiter dictum, ha aderito ora all’una, ora all’altra ricostruzione[15]: la vicenda in esame, pertanto, verosimilmente fornirà ai giudici un’occasione per riflettere in maniera più meditata su tale rilevante questione[16].
[1] Per una rapida, ma efficace, analisi del clima di preoccupazione che circondava le carceri italiane nei primi mesi del 2020 si può rimandare, per tutti, a G.L. Gatta, Carcere e coronavirus: che fare?, in questa Rivista, 12 marzo 2020.
[2] I testi dei loro interventi sono stati pubblicati in questa Rivista: “Mai più violenza!". Gli interventi del Presidente del Consiglio Draghi e della Ministra della Giustizia Cartabia in occasione della visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere, 15 luglio 2021. Nel luglio 2021 è stata altresì istituita presso il DAP una Commissione ispettiva d’inchiesta per far luce sulle origini e sulle dinamiche delle rivolte dei detenuti dell’anno precedente.
[3] Il processo penale ha avuto inizio lo scorso dicembre 2021 con l’apertura dell’udienza preliminare e vede 108 imputati, tra cui il citato Comandante.
[4] Nella sentenza in commento, a p. 8, si parla di «una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro; i detenuti, costretti ad attraversare il c.d. “corridoio umano” (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venivano colpiti violentemente con i manganelli, o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle. Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti - far bere l'acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l'incontinenza urinaria».
[5] Nella pronuncia si legge che i detenuti erano «costretti senza cibo, e, per 5 giorni, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant'è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati».
[6] Senza entrare nel merito degli elementi di prova posti a fondamento della decisione cautelare, atteso che il processo penale che condurrà all’accertamento dei fatti e all’ascrizione delle correlate responsabilità è ancora in corso, ci limitiamo a rinviare alle pp. 12-13 della sentenza in commento, in cui vengono sinteticamente elencati gli elementi che hanno indotto il Tribunale del Riesame a considerare “inverosimile” la tesi dell’interruzione della catena di comando e della buona fede dell’indagato.
[7] Tra le condotte attive materiali addebitate all’indagato si annovererebbero, ad esempio, l’aver richiesto l’intervento del gruppo di supporto e l’averne autorizzato l’ingresso nel carcere; l’aver coordinato la riunione organizzativa preliminare; l’aver personalmente individuato i quattordici detenuti da trasferire e trattenere in altro reparto. A queste si aggiungerebbero contributi di carattere morale, di carattere istigatorio.
[8] Cfr. Cass., Sez. V, sent. 8 luglio 2019 (dep. 20 novembre 2019), n. 47079, e Cass., Sez. V, sent. 11 ottobre 2019 (dep. 11 dicembre 2019), n. 50208, entrambe oggetto di commento da parte di A. Colella, La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di 'tortura' (art. 613 bis c.p.), in questa Rivista, 16 gennaio 2020.
[9] Cfr. Cass., Sez. V, sent. 15 ottobre 2019 (dep. 4 febbraio 2020), n. 4755.
[10] Cfr. p. 19 della pronuncia in esame, in cui la Suprema Corte si richiama all’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui «con riferimento ai reati contro la p.a. (…), il giudice di merito può ritenere sussistente il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie ex art. 274, comma primo, lettera c), cod. proc. pen. pure quando il soggetto in posizione di rapporto organico con la p.a. risulti sospeso o dimesso dal servizio, purché fornisca adeguata e logica motivazione in merito alla mancata rilevanza della sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono a evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell'imputato nella mutata veste di soggetto ormai estraneo all'amministrazione, in situazione, perciò, di concorrente in reato proprio commesso da altri soggetti muniti della qualifica richiesta».
[11] Fin troppo scontato è il riferimento, tra gli altri, ai fatti avvenuti durante il G8 di Genova del 2001 all’interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, per i quali il nostro Paese è stato plurime volte condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazioni di carattere sostanziale e procedurale dell’art. 3 Cedu: cfr. C. edu, sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia (ric. n. 6884/11); C. edu, sent. 22 giugno 2017, Bartesaghi e altri c. Italia (ricorsi nn. 12131/13 e 43390/13); C. edu, sent. 26 ottobre 2017, Azzolina ed altri c. Italia (ric. nn. 28923/09 e n. 67599/10); C. edu, sent. 26 ottobre 2017, Blair e altri c. Italia (ric. nn. 1442/14, 21319/14 e 21911/14). Tali condanne, del resto, hanno avuto un ruolo determinante nel velocizzare l’iter parlamentare che ha condotto all’emanazione della l. 14 luglio 2017, n. 110, introduttiva del delitto di tortura.
[12] Cfr. però A. Colella, sub Art. 613-bis, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, p. 1977, la quale considera che l’utilizzo dell’espressione “fatti” al plurale all’interno dell’art. 613-bis c. 2 dovrebbe deporre nel senso di configurare questa fattispecie, a differenza di quella di cui al comma 1, come reato necessariamente abituale.
[13] Sul punto può rimandarsi, per tutti, a F. Viganò, sub Art. 608, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, pp. 1656-1659, il quale osserva come il delitto in questione attribuisca rilevanza alle sole condotte abusive volte a determinare illegittime restrizioni della libertà residua del detenuto.
[14] In questo senso anche E. Florio, “Perquisizione e forza”: le violenze sui detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere al vaglio della Cassazione, in Giurisprudenza penale web, 26 marzo 2022, il quale ritiene che i giudici avrebbero dovuto motivare nel merito l’irrilevanza della sopravvenuta sospensione del rapporto ai fini della sussistenza delle esigenze cautelari, per esempio in ragione di una dimostrata permanenza di rapporti del soggetto estromesso dai ranghi della p.a. con i colleghi, idonei a consentire l’agente di fornire un valido contributo ab externo alla commissione di ulteriori fatti di reato della stessa specie.
[15] In particolare, la citata Cass., Sez. V, sent. 11 ottobre 2019 (dep. 11 dicembre 2019), n. 50208, aveva qualificato la fattispecie di cui al comma 2 come circostanza aggravante (critica sul punto A. Colella, La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di 'tortura' (art. 613 bis c.p.), cit.), mentre, più di recente, Cass., Sez. III, sent. 25 maggio 2021 (dep. 31 agosto 2021), n. 32380, § 3.2. (con commento di F. Garisto, Quando i maltrattamenti divengono anche tortura: la Cassazione riconosce il concorso tra 572 e 613-bis c.p. in un caso di violenze reiterate ai danni della partner, in questa Rivista, 28 ottobre 2021) ha aderito alla tesi del reato autonomo.
[16] A riguardo, osserva A. Colella, sub Art. 613-bis, cit., p. 1986, che la soluzione interpretativa volta ad attribuire alla fattispecie di cui al c. 2 natura di reato autonomo appare maggiormente rispettosa degli obblighi di tutela penale costituzionali e sovranazionali, che impongono la criminalizzazione della “tortura di Stato”.