1. Nelle sentenze in commento, che per la contiguità delle questioni affrontate possono essere trattate congiuntamente, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso del P.M. avverso la decisione del Tribunale del riesame, che aveva disposto l’annullamento del decreto di sequestro preventivo dell’azienda basato sul fumus boni iuris della commissione del delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” di cui all’art. 603 bis c.p.
Nella prima pronuncia (45615/2021)[1], l’indagato, datore di lavoro, era accusato della commissione del delitto di cui all’art. 603 bis c.p., comma 1, n. 2 c.p. perché, utilizzava, assumeva ed impiegava presso un’azienda agricola manodopera in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno di soggetti che si trovavano in situazioni economiche precarie. In particolare, si rilevava la reiterata corresponsione di retribuzioni difformi dai contratti collettivi nazionali o territoriali e, comunque, sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato, la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria e alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza e alloggi degradanti. Allo stesso sono state anche contestate le aggravanti di avere utilizzato lavoratori in numero superiore a tre nonché dell'avere commesso il fatto esponendoli a situazioni di grave pericolo per la loro incolumità.
Nella seconda pronuncia (7861/2022)[2], analogamente, si contestava il 603 bis comma 1 n. 2) c.p. al datore di lavoro perché utilizzava i lavoratori in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno. In particolare, in tal caso si contestava la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato, la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro. Inoltre, si contestavano le aggravanti del reclutamento di un numero di lavoratori superiore a tre e dell’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.
In entrambi i casi, il P.M. ricorreva avverso la decisione del Tribunale del riesame per violazione di legge in relazione alla lettura dell’art. 603 bis c.p., nonché per motivazione assente o meramente apparente. La Suprema Corte, pur ritenendo i motivi di ricorso in parte manifestamente infondati ed in parte non consentiti in sede cautelare[3], ha ritenuto necessario compiere comunque alcune importanti puntualizzazioni a partire dalle questioni sollevate dal P.M. in relazione all’interpretazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all'art. 603-bis c.p.
2. Come ricordato dalla stessa Corte nella prima pronuncia in commento[4], la norma è stata introdotta con decretazione d’urgenza nel 2011 al fine di far fronte al sempre più allarmante fenomeno del caporalato agricolo[5]. In particolare, l’intervento era volto a colmare quel vuoto di tutela creatosi fra, da un lato, la più grave ipotesi di riduzione in schiavitù di cui all'art. 600 c.p. (che include anche forme di lavoro forzato o obbligatorio) e, dall'altro, gli illeciti contravvenzionali previsti dal D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. Legge Biagi) volti a reprimere alcune forme di intermediazione e interposizione illecita[6].
L'art. 603-bis c.p., nella sua originaria formulazione, puniva chiunque svolgesse "un'attività organizzata di intermediazione, reclutandone manodopera o organizzandone l'attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori". La condotta tipica, dunque, era quella di intermediazione, che poteva essere espletata solo dal caporale; il datore di lavoro, invece, avrebbe potuto concorrere nel delitto ex art. 110 c.p. soltanto nel caso in cui lo sfruttamento del lavoro fosse posto in essere attraverso l’attività di intermediazione. Inoltre, era necessario che l’attività di intermediazione illecita fosse organizzata[7] ed esercitata mediante violenza, minaccia o intimidazione[8].
Così congegnata, tuttavia, la norma ha subito nei suoi pochi anni di vigenza una scarsa applicazione[9], alla quale ha certamente contribuito, oltre alla mancata incriminazione diretta delle condotte del datore di lavoro, la difficoltà di prova della violenza, minaccia o intimidazione nonché la non agevole delimitazione dei confini rispetto alle ipotesi più gravi tipizzate dall'art. 600 c.p.[10]. L'art. 603-bis c.p., nel testo previgente, finiva per assumere, così, una funzione residuale e un ambito di operatività molto ridotto.
Con la L. 29 ottobre 2016 n. 199 il legislatore ha riformulato la fattispecie, ampliandone indubbiamente l’ambito applicativo sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo[11].
In particolare, si prevedono chiaramente due distinte ipotesi di reato, equiparate sul piano sanzionatorio: al comma 1 n. 1, rimane l'ipotesi di intermediazione illecita, c.d. caporalato, che può essere integrata da parte di chi recluta lavoratori al fine di destinarli allo sfruttamento; al comma 2 n. 2 si reprime invece la condotta propria del datore di lavoro che utilizza, assume o impiega manodopera, anche – ma non solo – mediante l'attività di intermediazione. Gli elementi costitutivi su cui si fondano entrambe le ipotesi sono le condizioni di sfruttamento e l'approfittamento dello stato di bisogno. L’espletamento della condotta tipica mediante violenza o minaccia costituisce ora circostanza aggravante.
A seguito della riforma, si è registrata una maggiore operatività in concreto della norma, che ha trovato applicazione non solo nel contesto del caporalato agricolo che ne aveva ispirato l’originaria introduzione, ma anche nel settore industriale e in quello dei servizi[12], motivo per il quale la Corte ha ritenuto di doversi soffermare sulla peculiare tecnica di incriminazione utilizzata (v. infra §3) e sugli elementi cardine su cui ruota il disvalore della fattispecie (v. infra § 4-5).
3. La Suprema Corte, in entrambe le pronunce in commento, si sofferma innanzitutto sulla peculiarità della tecnica di incriminazione: il legislatore, infatti, non definisce il concetto di sfruttamento (su cui v. infra §4)[13] in modo diretto, ma lo indicizza[14]. I giudici di legittimità si riferiscono, in particolare, all’elencazione, al comma III, di una serie di indici, elementi di contesto[15] dalla cui violazione è possibile desumere la sussistenza delle condizioni di sfruttamento. In particolare, essi sono: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Ciò che alla Corte preme di chiarire è la natura di tali indici di sfruttamento, che, come già parte della dottrina aveva rilevato[16], non fanno parte del fatto tipico. Tutt'al più, la funzione da attribuire a tali indici è quella di orientamento probatorio: costituirebbero delle linee guidache, secondo le intenzioni del legislatore, possono essere utilizzate dal giudice – e prima ancora dall’accusa – per riconoscere in concreto le forme di manifestazione del fenomeno dello sfruttamento; pertanto, la loro genericità non costituisce un vulnus alle garanzie sottese al principio di legalità[17], come si chiarirà meglio in seguito (v. infra §6). D’altro canto, altrettanto errato sarebbe considerarli come delle presunzioni, assolute o relative, di sussistenza delle condizioni di sfruttamento che sarebbero in contrasto con i principi di garanzia che presiedono alla materia processuale[18].
4. Chiarita la natura degli indici, la Corte svolge alcune puntualizzazioni relative alle modalità di accertamento del primo elemento costitutivo della fattispecie, ossia la condizione di sfruttamento.
In primo luogo, si sottolinea che, come si può dedurre dalla stessa dizione normativa, basterebbe in teoria anche la ricorrenza di un solo indice sintomatico per individuare la condotta tipica[19]. Peraltro, si specifica che in relazione alla violazione dei contratti collettivi in tema di salario e delle disposizioni relative all'orario (siano esse di natura pattizia o normativa) è necessaria la reiterazione della condotta. Il mero ed isolato inadempimento di tale normativa non potrebbe, dunque, integrare la fattispecie[20].
In secondo luogo, si sottolinea che la condotta tipica può essere posta in essere anche nei confronti di un solo lavoratore.
Tale dato dà conferma di quale sia il bene giuridico sotteso alla fattispecie incriminatrice: l’oggetto della tutela non è un bene collettivo, ma piuttosto è la dignità della singola persona, lavoratore o lavoratrice. D’altronde, l'art. 603-bis c.p. è collocato nell'ambito del Titolo XII, dedicato ai delitti contro la persona, e più specificamente nel Capo III, avente ad oggetto i delitti contro la personalità individuale.
Ciò implica che, se, in linea generale, non si può escludere che dal contesto entro il quale si colloca la prestazione del singolo lavoratore possano trarsi elementi sintomatici dello sfruttamento proprio di quest'ultimo, è necessario – e sufficiente – ai fini dell'integrazione del reato, che venga accertata la peculiare condizione di sfruttamento del singolo lavoratore. A riprova di ciò, l’avere sottoposto a tale trattamento un numero di lavoratori superiore a tre costituisce, invece, circostanza aggravante.
Non sussiste, dunque, lo sfruttamento, nei casi di mera sommatoria di condotte consistenti in singoli inadempimenti della normativa lavoristica che si siano realizzati episodicamente nei confronti di una molteplicità di soggetti. La reiterazione deve avvenire nei confronti del singolo soggetto passivo[21].
Infine, specificamente nella seconda sentenza in commento, la Corte mette in risalto un ulteriore rilevante dato: l’enucleazione, da parte del legislatore, di una serie di indici sintomatici non chiude la strada dell'interprete all'individuazione di altre circostanze che integrino la condotta di sfruttamento del lavoratore, che – secondo l’interpretazione della Supremo Collegio - potrebbe risultare diversamente, purché si concreti la coartazione[22] a condizioni di lavoro di cui si subisce l'imposizione.
Con tale affermazione, come si dirà meglio in sede conclusiva, la Corte sembra intervenire sulla questione posta in dottrina circa il carattere tassativo o esemplificativo degli indici sintomatici (v. infra § 6)[23].
Peraltro, l’utilizzo dell’espressione “coartazione” ricorda come sussista tuttora la necessità di delimitare chiaramente i confini con il lavoro forzato, incriminato ex art. 600 c.p. A tal fine, si significativo è ruolo del secondo elemento costitutivo della fattispecie: l’approfittamento dello stato di bisogno.
5. Come anticipato, entrambe le sentenze si soffermano a precisare il contenuto tipizzante dell'approfittamento dello stato di bisogno. Il legislatore, con riferimento a tale elemento costitutivo, non fornisce una definizione, né elabora degli “indici”[24] come quelli relativi alle condizioni di sfruttamenti elencati al comma III. Tuttavia, di per sé, già la scelta lessicale non è irrilevante dal punto di vista ermeneutico, in quanto sottende la necessità di distinguere tale locuzione dalla condizione di vulnerabilità, nozione di matrice sovranazionale menzionata dall’art. 600 c.p.[25]. Ciò comporta che lo stato di bisogno non deve intendersi come uno stato di necessità tale da annientare qualunque libertà di scelta: in altri termini, non sarà necessario indagare sull’assenza di un’altra effettiva ed accettabile scelta, diversa dall'accettazione dell'abuso, ma sarà sufficiente riscontrare una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose[26].
Ma vi è un altro dato che viene messo in particolare in evidenza dalla seconda delle sentenze in commento, ossia che lo stato di bisogno deve essere necessariamente distinto dallo sfruttamento. Tale condizione ulteriore deve essere nota al reclutatore o all'utilizzatore, che se ne devono servire per imporre condizioni lavorative che integrano lo sfruttamento[27].
La Suprema Corte evidenzia, infatti, come il legislatore abbia scelto di punire non lo sfruttamento in sé, ma solo l'approfittamento di una situazione di grave inferiorità del lavoratore, sia essa economica o di altro genere, che lo induca a svilire la sua volontà contrattuale sino ad accettare condizioni proposte dal reclutatore o dall'utilizzatore, cui altrimenti non avrebbe acconsentito[28]. Non basta, dunque, raggiungere la prova, mediante il ricorso agli indici del comma III, delle condizioni di sfruttamento, ma occorre riscontrare un abuso della condizione esistenziale della persona, che non coincide solo con la mera conoscenza, ma proprio con il vantaggio che da quella situazione volontariamente si trae.
Ciò significa che, da un lato, l'assunzione di una persona in stato di bisogno non è di per sé sintomatica di sfruttamento, laddove siano rispettate le prerogative retributive ed orarie del lavoratore e sia garantita la sua sicurezza sul luogo di lavoro; dall’altro, che lo sfruttamento– potrebbe non derivare dall'approfittamento dello stato di bisogno, quando quest'ultimo non sia configurabile in capo al lavoratore che accetta liberamente le condizioni di lavoro delineate dall'art. 603 bis c.p., comma III. Secondo la Corte, si tratterebbe di un'ipotesi di scuola[29], o quantomeno residuale, avuto riguardo al fatto che lo sfruttamento lavorativo normalmente è accompagnato dalla grave difficoltà del lavoratore che accetta condizioni degradanti pur di sostentarsi.
6. Riassumendo, la Cassazione, nelle pronunce in commento, ha fissato alcuni punti fermi per una corretta interpretazione della fattispecie che, soprattutto a seguito della riforma del 2016 sta registrando una significativa applicazione nella prassi, anche al di fuori del settore agricolo che ne aveva ispirato l’originaria introduzione.
(i) Innanzitutto, si mette in luce la peculiarità della tecnica normativa utilizzata, dal momento che, a conferma della posizione espressa dalla dottrina maggioritaria[30], gli indicatori elaborati ex ante dal legislatore non devono essere considerati elementi costitutivi della fattispecie.
In quest’ottica, sebbene non siano direttamente soggetti al principio di legalità, nei termini, in particolare, di precisione e determinatezza della fattispecie incriminatrice, nonché di prevedibilità dell’esito giudiziario, si può rilevare come essi contribuiscano, in realtà, a soddisfare indirettamente tali principi, in quanto forniscono delle linee guida di ausilio all'interprete per meglio per riconoscere in concreto della condotta tipica di sfruttamento, concetto di per sé non facilmente definibile.
(ii) Al contempo, specialmente nella seconda sentenza in esame (v. infra §4), la Corte sembra intervenire su un’altra questione dibattuta, ossia sul carattere tassativo o esemplificativo degli indici[31], laddove sottolinea l’elencazione di tali condizioni al comma III non preclude l’individuazione di altre condotte che integrino la fattispecie.
Invero, l’intento della Corte sembra essere non tanto quello di evidenziare la possibilità di provare la sussistenza di sfruttamento a prescindere da tali elementi, il che pare anche concretamente difficile data la varietà di elementi forniti dagli indicatori[32], ma di evitare un appiattimento acritico sulla dicitura legislativa nell’accertamento del reato. In altri termini, si ribadisce che, non essendo di per sé né elementi costitutivi né presunzioni, gli indici devono essere adeguatamente contestualizzati tenendo conto in motivazione delle caratteristiche del caso concreto.
(iii) Ancora, si sottolinea come, ai fini dell’integrazione del delitto in esame, sia necessario e sufficiente che la condotta sia commessa nei confronti anche di un singolo lavoratore, purché se ne dia conto attraverso autonoma prova dei due elementi costitutivi su cui ruota la tipicità della fattispecie: le condizioni di sfruttamento e l’approfittamento dello stato di bisogno.
Si conferma dunque come, all’esito della riforma del 2016, il 603-bis c.p., si configuri come un reato contro lo sfruttamento del lavoratore[33], a tutela le condizioni minime di dignità che devono essere assicurate conformemente ai principi costituzionali (art. 4 e 36 Cost.) e con un ambito di operatività che investe potenzialmente qualsiasi settore economico.
(iv) Ciò posto, particolarmente importante per circoscrivere il perimetro applicativo della fattispecie si ritiene essere la valorizzazione, nella seconda sentenza in esame[34], di quest’ultimo requisito. Infatti, nella giurisprudenza precedente era emersa la tendenza a considerarlo sussistente in re ipsa ogni qualvolta il lavoratore accettasse condizioni di lavoro al di sotto degli standard di dignità fissati dalla norma[35]. Al contrario, la Corte afferma la necessità di un’autonoma valutazione di tale elemento, considerato come sia astrattamente possibile che la prova delle condizioni di sfruttamento non si accompagni alla prova dell'approfittamento dello stato di bisogno, quando rispetto a tale elemento difetti il dolo, anche nella forma eventuale, del soggetto attivo, sia esso intermediario o datore di lavoro.
Peraltro, se è vero che, come notano i giudici di legittimità, spesso alla sussistenza di condizioni di sfruttamento si accompagni l’approfittamento dello stato di bisogno, vi sono, a ben vedere, alcuni rapporti di lavoro che potrebbero essere esemplificativi dei casi che fuoriescono da tale schema: si pensi, ad esempio, al contesto della libera professione, in cui sorgono dei rapporti di subordinazione “di fatto”, in cui un soggetto si sottopone “liberamente” a condizioni che potrebbero anche integrare lo sfruttamento.
In ultima analisi, la Corte ha chiarito l’ambito di operatività del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all’art. 603 bis c.p., mettendo soprattutto in luce l’utile esperibilità in concreto della tecnica di redazione della norma per “indicatori”, che consente di orientare ex ante l’attività del giudice – e prima ancora dell’accusa – nell’individuazione del contesto di riferimento che assume rilevanza penale, a fronte di un fenomeno di non facile definizione quale lo sfruttamento del lavoro. Cosicché, sebbene i mutamenti storico-sociali possano portare ad estenderne la portata applicativa, il nucleo centrale della tipicità della fattispecie, che ruota attorno alle condizioni di sfruttamento e all’approfittamento dello stato di bisogno, non venga comunque tradito, conformemente alle esigenze di legalità costituzionale e convenzionale.
[1] Cass. pen., sez. IV, sent. 11 novembre 2021 (dep. 13 dicembre 2021), n. 45615, Pres. Dovere, rel. Pezzella, proc. Mazzotta.
[2] Cass. pen., sez. IV, sent. 11 novembre 2021 (dep. 4 marzo 2022), n. 7861, Pres. Dovere, rel. Nardin, proc. Cirigliano.
[3] In particolare, alcuni motivi di ricorso, seppure rubricati formalmente come violazione di legge, contestavano in realtà la tenuta del tessuto motivazionale del provvedimento impugnato, il che non è consentito in sede cautelare, salvo che non si tratti di motivazione assente o apparente, eventualità non riscontrabile nel caso di specie. (Cfr. Cass. pen., sez. Un. 25932/2008).
[4] Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 45615, p. 8.
[5] È stata introdotta con il d.l. n. 138 13/08/2011 Conv. in legge n. 148 14/09/201 a fronte della crescente consapevolezza del problema sociale esistente a seguito del noto sciopero di Nardò del 2011, la prima rivolta dei braccianti agricoli contro lo sfruttamento guidata da Yvan Sagnet, che ha contribuito all’emersione del fenomeno, cfr. A. Bonanno A. – J. S. B., Cavalcanti, Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati, Roma 2012.
[6] G. Morgante, "Quel che resta" del divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro dopo la "Riforma Biagi", Dir. pen. e proc., 1/2006, p. 736-748. Peraltro, a seguito di una serie di successivi interventi di depenalizzazione, l’unica ipotesi contravvenzionale ad oggi vigente resta la somministrazione di lavoro fraudolenta v. A. Rapacciuolo – G. Bongiovanni, Illecita interposizione, somministrazione fraudolenta e reazione degli organi ispettivi, in Diritto & Pratica del Lavoro 42/2019, p. 2582 ss.
[7] L'attività organizzata" di intermediazione come modalità della condotta non richiedeva necessariamente la forma associativa ma doveva svolgersi in modo non occasionale, attraverso una strutturazione che comporti l'impiego di mezzi, così Cass. Pen., Sez. V, n. 6788 del 23/11/2016, dep. 2017, Vecchio ed altri.
[8] La formulazione previgente era ben compendiata da Cass. Pen., sez. V, n. 14591 del 4/2/2014, Stoican, che chiariva come, in tema di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, il reato di cui all'art. 603-bis, c.p. punisse tutte quelle condotte distorsive del mercato del lavoro che, in quanto caratterizzate dallo sfruttamento mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, non si risolvessero nella mera violazione delle regole relative all'avviamento al lavoro sanzionate dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 18.
[9] Tanto che alcuni autori con uno sforzo ermeneutico avevano tentato di affermare la punibilità anche del datore di lavoro già prima della riforma del 2016, così A. di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2015, p. 106.
[10] Tra l’altro, in seguito alla modifica apportata dal D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 24, l'art. 600 c.p., aveva previsto quale elemento tipico dello stato di soggezione anche l'approfittamento di una situazione di vulnerabilità, ampliando così lo spazio di illiceità riconducibile alla riduzione o al mantenimento in schiavitù o servitù e rendendo più difficile circoscrivere i confini con la fattispecie delineata dall'art. 603-bis. V. sul punto C. Assise Lecce, 13/07/2017, n. 2 in Giur. it., 2018, n. 7, p. 1703 ss., con nota di G. Morgante, Caporalato, schiavitù e crimine organizzato verso corrispondenze (quasi) biunivoche.
[11] Per un raffronto tra vecchia e nuova formulazione si consenta il rinvio a F. Vitarelli, Commento agli artt. 603.bis c.p., 603.bis 1 c.p., 603.bis 2 c.p., in T. Padovani (a cura di), Codice penale, Milano, 2019, pp. 4130-4145.
[12] Sul tema, v. i contributi monografici di A. di Martino, Sfruttamento del lavoro. Il valore del contesto nella definizione del reato, Bologna, 2019; A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e del caporalato dai braccianti ai riders, Torino 2020. Per i più recenti sviluppi applicativi della fattispecie nell’ambito dello sfruttamento dei riders da parte dei gestori delle piattaforme digitali v. P. Brambilla, Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo al banco di prova della prassi: spunti di riflessione sui confini applicativi della fattispecie alla luce della prima condanna per caporalato digitale nel caso Uber, in questa Rivista, 31 marzo 2022.
[13] Tale condizione che deve caratterizzare tanto l’attività di reclutamento (art. 603 bis, comma 1 n. 1), quanto quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera (art. 603 bis, comma 1 n. 2).
[14] Così Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 45615, p. 11 ma v. anche Cass. pen., sez. IV - 11/11/2021, n. 7861, p. 6.
[15] In questi termini Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 45615, p. 11, che sembra mettere in risalto le peculiarità già rilevato in dottrina da A. di Martino, Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell’art. 603-bis c.p., in Arch. Pen., 3/2018.
[16] Sul tema in dottrina v. A. di Martino, Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell’art. 603-bis c.p., cit., che ne parla in termini di orientamento probatorio per il giudice, ma v. anche S. Fiore, (Dignità degli) uomini e (punizione dei) caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Scritti in onore di A.M. Stile, Napoli 2013, p. 886 ss. secondo cui la tipizzazione attraverso i suddetti indici avvenga attraverso la selezione di ambiti probatori predefiniti.
[17] Così Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 45615, p. 11, che riprende anche la relazione ministeriale di accompagnamento alla legge per evidenziare il carattere di “linee guida” degli indici.
[18] Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 45615, p. 11.
[19] Cfr. in tal senso Cass. Pen., Sez. V, n. 17936 del 12/1/2018, Svolazzo, che ha ritenuto sufficiente anche la prova di un solo indice, purché significativo della condizione di sfruttamento.
[20] Problematica sollevata da T. Padovani, Un nuovo intervento per superare i difetti di una riforma zoppa, Guida dir., 2016, n. 48, p. 48 ss., con particolare riferimento alle violazioni antinfortunistiche, dal momento che nella nuova formulazione della norma non vi è più il riferimento alla circostanza che la violazione deve essere “tale da esporre il lavoratore a pericolo per la saluta, la sicurezza o l’incolumità personale”.
[21] Così Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 45615, p. 14.
[22] Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 7861, p. 7.
[23] A favore del carattere tassativo degli indici v. S. Fiore, (Dignità degli) uomini e (punizione dei) caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cit., p. 886, mentre secondo A. di Martino, Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell’art. 603-bis c.p., cit., p. 48, gli indici previsti sembrano talmente onnicomprensivi da consentire un giudizio di essenziale esaustività della dimensione tipologica, semmai a restare aperta è la varietà dei fatti concreti che possono rientrarvi.
[24] Gli indici si riferiscono all’elemento costitutivo della condizione di sfruttamento, ma non allo stato di bisogno. Sulla necessità di ancorare questo requisito a parametri oggettivi, conformemente al principio di materialità, v. G. Morgante, Caporalato, schiavitù e crimine organizzato verso corrispondenze (quasi) biunivoche, cit. e A. di Martino, Stato di bisogno o condizione di vulnerabilità tra sfruttamento lavorativo, tratta e schiavitù. Contenuti e metodi fra diritto nazionale e orizzonti internazionali, in Arch. Pen., 1/2019, che, data l’intrinseca indeterminatezza del requisito dello stato di bisogno, propone di replicare per questo elemento costitutivo la tipizzazione mediante indici, in questo caso “indici di vulnerabilità”, così come avvenuto per gli indici di sfruttamento.
[25] Tale nozione, che è stata mutuata per la prima volta in ambito comunitario con la decisione-quadro del 19 luglio 2002, sulla lotta alla tratta di esseri umani, cui l’Italia ha dato attuazione con l. 11 agosto 2003, n. 228 e riproposta nell’art. 2 direttiva 2011/36/EU, trova il suo principale riferimento internazionale nel Protocollo di Palermo in materia di tratta di persone, all’art. 3 e viene definita come quella situazione in cui la persona non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all'abuso di cui è vittima. Cfr. UNODC Guidance Note on ‘abuse of a position of vulnerability’ as a means of trafficking in persons in Article 3 of the Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children, supplementing the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, 15 novembre 2000, 2012 (reperibile in: www.unodc.org).
[26] Su questo punto già Cass. pen. sez. IV, n. 24441 del 16/3/2021, Sanitrasport.
[27] Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 7861, p. 7.
[28] La Corte menziona anche il consolidato orientamento secondo cui la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603-bis c.p. Così Cass. pen, Sez. IV, n. 27582 del 16/09/2020, Savoia; Cass. Pen., Sez. IV, n. 11546 del 18/2/2020, Sarker; Cass. pen., Sez. IV, n. 49781 del 09/10/2019.
[29] Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 7861, p. 8.
[30] V. nota 16.
[31] V. nota 23.
[32] Già A. di Martino, Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell’art. 603-bis c.p., cit., p. 48, rilevava che gli indici previsti sembrano talmente onnicomprensivi da consentire un giudizio di essenziale esaustività della dimensione tipologica, semmai a restare aperta è la varietà dei fatti concreti che possono rientrarvi.
[33] È stato giustamente sottolineato che tale norma, pur avendo ad oggetto rapporti di lavoro, non può essere catalogata come “norma di diritto penale del lavoro”, ma sarebbe forse da ascrivere alla tutela delle “precondizioni essenziali per l’operatività di tutte le disposizioni di diritto penale del lavoro”, in quanto assurge a baluardo di elementari condizioni di dignità senza il rispetto delle quali non soltanto un rapporto di lavoro non potrebbe essere considerato lecito, ma in realtà non sarebbe neppure propriamente tale, costituendo invece per l’appunto uno “sfruttamento”. In questi termini A. di Martino, La nuova disciplina del cd. Caporalato, cit., p.6. Cfr. sul tema S. Orlando, Il delitto di “caporalato” tra diritti minimi della persona e tutela del mercato del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. econ., 3-4/2020, p. 622 ss.
[34] Così Cass. pen., sez. IV, 11/11/2021, n. 7861, p. 7.
[35] Per un’analisi della giurisprudenza recente, cfr. A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e del caporalato dai braccianti ai riders, cit., p. 83 ss.