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  Scheda  
28 Aprile 2021


La Cassazione “completa” la tutela penale del lavoratore vittima di mobbing: configurabile il delitto di stalking ex art. 612 bis c.p.

Cass., Sez. V, sent. 14 settembre 2020 (dep. 9 novembre 2020), n. 31273, Pres. Pezzullo, Est. Tudino



1. Con la sentenza in epigrafe, la Cassazione si pronuncia sulla configurabilità del delitto di atti persecutori in caso di mobbing, aggiungendo così un importante tassello alla tutela penale del lavoratore vittima di condotte persecutorie sul luogo di lavoro.

La Quinta Sezione della Corte, infatti, afferma che “nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo di cui all’art. 612 bis cod. pen. laddove quella mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice[1].

 

2. Viene, pertanto, ritenuto infondato il secondo motivo di ricorso proposto avverso l’ordinanza del Tribunale di Torino, che, in riforma dell’ordinanza del Gip, aveva applicato la misura degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art. 612 bis c.p. in riferimento alle plurime condotte persecutorie, culminate in un licenziamento pretestuoso, poste in essere dall’indagato, amministratore delegato della società, in danno di un dipendente, responsabile dell’ufficio delle risorse umane.

Secondo la ricostruzione del ricorrente, in particolare, il Tribunale del riesame avrebbe erroneamente sovrapposto il mobbing allo stalking occupazionale in quanto la condotta contestata, esaurendosi esclusivamente nell’ambito del rapporto di lavoro, non si è esplicata nella vita privata della persona offesa.

Ed invero, con l’espressione stalking occupazionale ci si riferisce ad una forma di stalking in cui l’effettiva attività persecutoria sia esercitata nella vita privata della vittima, pur provenendo la motivazione dall’ambiente di lavoro[2], con la conseguenza che – secondo quanto affermato dal ricorrente – le condotte persecutorie, tenute unicamente sul luogo di lavoro, non potevano correttamente inquadrarsi nell’alveo dell’art. 612 bis c.p.

 

3. Tale rilievo, tuttavia, afferma la Corte di Cassazione, è del tutto infondato e non può essere accolto in quanto “volto a ritagliare una sorta di zona franca dalla ravvisabilità dello stalking in ambito lavorativo”, che, oltre ad obliterare la natura di reato di danno della fattispecie in questione, finisce col prospettare “una visione atomistica” della libertà morale, dalla stessa tutelata, limitandola nei diversi contesti della vita in cui si esprime la personalità individuale.

Secondo quanto chiaramente affermato dalla Cassazione, infatti, una volta che la condotta persecutoria abbia arrecato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612 bis c.p., il contesto entro il quale la stessa si situa è del tutto irrilevante.

In altri termini, precisa la Cassazione, il riferimento a diverse declinazioni del reato, correlate a specifiche “ambientazioni” – come il cd. stalking condominiale, giudiziario ecc. – assume una mera valenza descrittiva, che “registra ma non limita la varietà degli ambiti fenomenologici” in cui si può manifestare una condotta persecutoria penalmente rilevante ai sensi dell’art. 612 bis c.p.

In maniera efficace, dunque, la Corte, riprendendo un orientamento già sostenuto in dottrina[3], sgombra il campo da qualsiasi precomprensione volta a circoscrivere l’ambito applicativo dell’art. 612 bis c.p. ai soli scenari amoroso-affettivi considerati dal legislatore storico al momento della sua introduzione ed in relazione ai quali, indubbiamente, la fattispecie incriminatrice trova il suo terreno applicativo d’elezione.

La norma, infatti, benché introdotta per fronteggiare una specifica fenomenologia criminosa ed al fine di apprestare un più elevato livello di tutela[4], sia sul piano repressivo che su quello preventivo[5], soprattutto, alle donne vittime di condotte persecutorie da parte di ex partner[6], prevede un delitto comune, che può essere realizzato da chiunque ed in qualsiasi contesto[7].

 

4. La Cassazione, in particolare, giunge a tale condivisibile conclusione muovendo dall’analisi dei tratti caratterizzanti il mobbing lavorativo che, in assenza di un’espressa disciplina normativa, sono stati individuati dalla giurisprudenza giuslavoristica in tema di tutela delle condizioni di lavoro.

Questi ultimi si ravvisano, segnatamente, nella pluralità di comportamenti vessatori, da un lato, e nell’intento persecutorio che unifica la condotta, dall’altro.

La giurisprudenza, infatti, definisce il mobbing come “un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”[8].

Nonostante, dunque, il mobbing si caratterizzi per la presenza di una specifica finalità di emarginazione del lavoratore, con ciò differenziandosi dallo stalking, che è punito a titolo di dolo generico, presenta rispetto a quest’ultimo evidenti elementi di contatto, fondandosi entrambi sulla reiterazione di condotte, di per sé anche lecite, ma che complessivamente considerate risultano moleste e lesive, oltre che dell’integrità psicofisica, anche della personalità della vittima[9].

Ed invero, sebbene la Corte non si soffermi su tale aspetto, appare necessario precisare sin da subito cha la molestia, individuata dal legislatore quale modalità realizzativa del reato alternativa alla minaccia, può essere integrata da una pluralità di comportamenti.

Secondo l’orientamento unanime della dottrina e della giurisprudenza, infatti, le singole condotte che vanno ad integrare il fatto tipico possono non essere di per sé penalmente rilevanti, ma assumere, nel loro insieme, la valenza di molestia, da intendersi quale risultato di qualsiasi comportamento[10] che comprometta la tranquillità della persona[11].

Da qui, l’affermazione che il delitto di atti persecutori, in realtà, è solo parzialmente a forma vincolata[12], potendo la molestia essere cagionata in qualsiasi modo e dunque – per quel che rileva in questa sede – anche da condotte vessatorie tenute sul luogo di lavoro.

Queste ultime, a loro volta, possono esplicarsi in qualsiasi modalità e concretizzarsi nell’adozione di comportamenti e atti, anche di per sé leciti e legittimi, ma che, in quanto posti in essere in maniera sistematica e prolungata, rivelano un intento persecutorio nei confronti del lavoratore, il quale subisce significative conseguenze sul piano morale e psicofisico[13].

 

5. Dopo aver ricostruito brevemente i tratti caratterizzanti del mobbing e prima di affermarne la riconducibilità nell’alveo dell’art. 612 bis c.p., la S.C. richiama i precedenti orientamenti giurisprudenziali che ne hanno affermato la rilevanza penale ritenendo integrata la fattispecie di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. “qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia risposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia”[14].

L’orientamento seguito dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, dunque, se, da un lato, assicurava un’efficace tutela alla vittima delle condotte mobbizzanti, inquadrandole nel delitto di maltrattamenti in famiglia[15], dall’altro, ne circoscriveva significativamente l’ambito di applicazione, limitandola ai soli contesti in cui fosse ravvisabile la natura para-familiare del rapporto lavorativo.

Anche in presenza di un chiaro fenomeno di mobbing, infatti, si escludeva la configurabilità del delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. quando non risultava sussistente, in forza delle caratteristiche della singola realtà aziendale, quella “stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, che determina una comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare”[16].

In particolare – prosegue la Corte –, sempre valorizzando il piano della relazione verticale tra le parti, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che integra il delitto ex art. 572 c.p. la condotta del datore di lavoro che ponga nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da determinare nel dipendente una situazione di disagio psichico, configurandosi, viceversa, il delitto di abuso di mezzi di correzione o di disciplina cui all’art. 571 c.p. laddove la condotta del datore di lavoro superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere[17].

 

6. Richiamati i precedenti giurisprudenziali in materia di mobbing, la Corte sottolinea che “siffatta visione, tutta incentrata sulla tutela dell’integrità psico-fisica della vittima (…) non esclude – ma, anzi, confermala riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui all’art. 612 bis cod. pen., ove ricorrano gli elementi costitutivi di siffatta fattispecie e, in particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati”.

Il percorso logico-argomentativo su cui si fonda tale decisione, dunque, muove dalla valorizzazione della natura di reato abituale e di danno[18] del delitto di stalking, integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice, causalmente orientati alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla stessa, quali il perdurante e grave stato di ansia o di paura; il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; l’alterazione delle proprie abitudini di vita.

Si tratta, precisa la Corte, di eventi che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione della vittima della condotta persecutoria, che ben può “esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purché sia idonea a ledere il bene giuridico tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa”.

Non rileva, viceversa, in senso contrario alla riconducibilità dei fatti di mobbing nell’alveo dell’art. 612 bis c.p., il contesto entro il quale la condotta persecutoria si esprime, né tantomeno – sebbene la Corte non si soffermi espressamente sul punto – la circostanza che i comportamenti vessatori e prevaricatori posti in essere dal datore di lavoro siano sorretti dalla specifica finalità di emarginazione del lavoratore, non richiedendo la fattispecie ex art. 612 bis c.p. un dolo specifico incompatibile con le finalità del mobbing[19].

Il delitto di stalking, infatti, è un delitto a dolo generico, sicché, una volta provata la volontà e la consapevolezza delle condotte realizzate e degli eventi cagionati, la circostanza che l’agente persegua una particolare finalità – quella di emarginazione della vittima in ambito lavorativo – non esclude la ricorrenza dell’elemento soggettivo del reato.

 

7. La Corte, pertanto, ritenendo che l’ordinanza impugnata abbia ampiamente dato atto dei plurimi atti vessatori perpetrati in danno della persona offesa e delle comprovate conseguenze dalla stessa subite, quale lo stato di ansia e di paura nonché la modifica delle abitudini di vita, rigetta il ricorso perché complessivamente infondato.

 

8. La rilevanza e la crescente diffusione del fenomeno del mobbing, che ancora oggi, nonostante le sollecitazioni provenienti dal Parlamento Europeo[20], rimane sfornito di misure legislative idonee a prevenire e reprimere efficacemente le condotte vessatorie sui luoghi di lavoro, rende opportune alcune considerazioni in merito alla pronuncia in epigrafe.

Va segnalato, infatti, come la decisione della Corte, oltre ad essere condivisibile sul piano strettamente giuridico, ha opportunamente individuato – come suggerito dalla più attenta dottrina[21] – una fattispecie di carattere abituale, ulteriore a quella prevista dall’art. 572 c.p., ma parimenti idonea a cogliere il disvalore unitario del fenomeno del mobbing, superando in tal modo le discrasie venutesi a creare nel recente passato giurisprudenziale, che, di fatto, finivano per fornire una risposta sanzionatoria disomogenea alle condotte di mobbing.

Sotto il primo versante, in particolare, appare corretta l’opzione ermeneutica seguita che, facendo leva sulla natura di reato di danno del delitto di atti persecutori, ritiene configurabile il delitto in parola ogniqualvolta le reiterate condotte vessatorie, finalizzate ad isolare il lavoratore, determinino uno degli eventi previsti dall’art. 612 bis c.p.

In astratto, infatti, nulla esclude che il mobbing, caratterizzato da una serie reiterata di comportamenti vessatori e prevaricatori idonei a cagionare al lavoratore rilevanti conseguenze sul piano morale e psicofisico, possa concretizzarsi in molestie tali da cagionare un grave e perdurante stato di ansia, un fondato timore l’incolumità fisica o il costringimento a cambiare le abitudini di vita.

È in concreto, quindi, che occorrerà procedere, nonostante le ineludibili difficoltà connesse alla verifica di una correlazione causale di natura prettamente psichica[22], ad un accertamento processuale, quanto più rigoroso possibile, circa l’effettiva sussistenza di un rapporto di condizionamento tra le condotte mobbizzanti ed uno degli eventi, di tipo psicologico, descritti.

Altrettanto apprezzabile è il chiarimento, da parte della Corte, circa la valenza meramente descrittiva del riferimento, invalso nella prassi, alle diverse declinazioni del reato connesse a specifiche “ambientazioni” dello stalking.

La fattispecie in parola, infatti, in assenza di un dato testuale[23] che imponga di circoscriverla entro uno specifico ambito relazionale[24], può trovare applicazione in qualsiasi contesto in cui si esplichi la condotta persecutoria pregiudizievole della serenità psichica della vittima.

In tal senso, del resto, sembrerebbe deporre anche un argomento interpretativo di tipo sistematico e, segnatamente, la previsione da parte del legislatore di una circostanza aggravante speciale ad effetto comune al comma 2 dell’art. 612 bis c.p.[25], che imperniandosi sul “preesistente rapporto di vicinanza con la vittima[26], lascia intendere, ex adverso, che la fattispecie semplice possa applicarsi anche al di fuori di contesti relazionali di natura strettamente privata.

Sotto il secondo versante, la condivisibilità delle conclusioni cui è giunta la Cassazione può cogliersi volgendo lo sguardo allo scenario giurisprudenziale in cui si inserisce e rispetto al quale muove un importante passo in avanti, ponendo la basi per garantire una tutela penale omogenea alle vittime di condotte vessatorie subite nell’ambiente di lavoro, a prescindere dalle dimensioni del contesto aziendale in cui si inseriscono e dal ruolo ricoperto dal soggetto agente.

L’art. 612 bis c.p., infatti, si presta ad essere applicato sia ai casi di cd. mobbing verticale discendente – perpetrato dal datore di lavoro in danno del sottoposto – anche laddove non si riscontri la natura para-familiare del rapporto lavorativo – quanto ai casi di cd. mobbing orizzontale – realizzato tra colleghi – e di cd. mobbing verticale ascendente – realizzato dal lavoratore nei confronti del suo superiore – rispetto ai quali, in assenza di una posizione di autorità rivestita dal soggetto agente, non ha potuto trovare applicazione l’art. 572 c.p.

Ed invero, in siffatti casi, la tutela penale del mobbing lavorativo coincideva con l’integrazione di condotte autonomamente punibili mediante l’applicazione delle relative fattispecie incriminatrici, che, tuttavia, in quanto caratterizzate da una condotta istantanea, non erano in grado di cogliere il disvalore unitario della condotta mobbizzante[27].

In conclusione, non resta che interrogarsi sulla perdurante rilevanza penale ai sensi dell’art. 572 c.p.[28] del mobbing verticale discendente in presenza di un rapporto lavorativo di natura para-familiare, giacché, una volta affermata la sovrapponibilità tra mobbing e stalking, non può escludersi che il diritto vivente riconduca anche quest’ultimo nell’alveo dell’art. 612 bis c.p., eventualmente aggravato dall’aver commesso il fatto con abuso di autorità ex art. 61 n. 11 c.p., con tutte le rilevanti conseguenze applicative derivanti dalla differente qualificazione giuridica delle condotte mobbizzanti in termini di maltrattamenti in famiglia o di atti persecutori, mutando non solo le cornici edittali della pena, ma anche il regime di procedibilità ed i termini di prescrizione[29].

 

 

[1] N.b. il grassetto nei passi della sentenza riportati testualmente è nostro.

[2] Si pensi, ad esempio, al soggetto risentito che agisce per vendicare un torto subito sul luogo di lavoro, spaventando o perseguitando l’autore di tale torto nella sua vita privata. Sul punto cfr. A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 202 ss.

[3]A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, cit., pp. 202 ss.; D. Pulitanò, Diritto penale. Parte speciale, Vol. I, Tutela penale della persona, Torino, Giappichelli, 2011, p. 251; R. Bartoli – M. Pelissero – S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Torino, Giappichelli, 2021, p. 153.

[4] Il d.l. 20 febbraio 2009, n. 11, convertito con legge n. 38 del 2009, introducendo nel nostro ordinamento la fattispecie di atti persecutori ex art. 612 bis c.p. non ha colmato un deficit di tutela, ma una lacuna di disciplina, apportando una risposta sanzionatoria più adeguata rispetto a quella già fornita dalle preesistenti fattispecie incriminatrici di minaccia ex art. 610 c.p. e di molestia ex art. 660 c.p.

[5] Sul versante della prevenzione il legislatore è intervenuto introducendo, da un lato, l’istituto dell’ammonimento del Questore, al quale la vittima, che non abbia ancora proposto querela, può chiedere di ammonire oralmente l’autore della condotta, “invitandolo a tenere una condotta conforme a legge” e, dall’altro, la nuova misura cautelare personale del “divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa” ex art. 282 ter c.p.p., che si aggiunge alla misura dell’“allontanamento dalla casa familiare” ex art. 282 bis c.p.p. È stata altresì prolungata fino a un anno la durata massima dell’“ordine di protezione” del giudice civile ex art. 342 ter c.c.

[6] Le motivazioni che muovono lo stalker a perseguitare la sua vittima, infatti, quasi sempre sono rinvenibili nel rifiuto di rassegnarsi alla fine di una relazione intima, con conseguente tentativo, assillante, di ripristinarla.

[7] Come chiaramente precisato in dottrina “Ciò non toglie che, come comprovano gli studi criminologici, la tipologia prevalente di autori sia costituita a tutt’oggi da autori di sesso maschile legati alle vittime da precedenti rapporti” G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, Vol. II, tomo primo, I delitti contro la persona, 5° ed., Bologna, Zanichelli, 2020, p. 292.

[8] Corte Cost. 359 del 2003; Ex plurimis, Cass. civ., Sez. Lav., 4 marzo 2021 n. 6079; Cass. civ., Sez. Lav., 29 dicembre 2020 n. 29767; Cass. civ., Sez. Lav., 6 agosto 2014 n. 17698.

[9] Si annoverano, infatti, tra le rilevanti conseguenze pregiudizievoli derivanti dalle condotte di mobbing, la lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente Cfr., ex plurimis, Cass. Civ., Sez. Lav., 23 marzo 2020 n. 7487; Cass. Civ., Sez. Lav., 20 gennaio 2020 n. 1109; Cass. civ., Sez. Lav., 17 dicembre 2019 n. 33392.

[10] Ad esempio: telefonate notturne, mute, anonime; invio di messaggi ossessivi; invio di doni indesiderati; corteggiamento non gradito ecc.

[11] Così, in particolare, A. Valsecchi, in E. Dolcini – G. L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, Tomo III, 4° ed., Wolters Kluwer, p. 552.

[12] In tal senso si afferma efficacemente in dottrina che “è vero, infatti, che l’evento deve essere cagionato necessariamente minacciando o molestando la vittima, ma è anche vero che la molestia a sua volta è un evento che può essere cagionato il qualsiasi modo. Pertanto, fuori dai casi in cui è attuata con minaccia, la persecuzione potrà essere attuata con qualsiasi mezzo che provochi una molestia (da cui poi derivi la verificazione di uno degli eventi ulteriori previsti dalla norma)” F. Viganò, Reati contro la persona, Giappichelli, Torino, 2015, p. 272; E. Dolcini – G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, cit., p.552.

[13] Sul punto, si veda diffusamente A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, cit., p. 199 ss.

[14] La stessa decisione richiama Cass. pen., Sez. VI, 13 febbraio del 2018. In senso conforme cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. VI, 6 giugno 2016 n. 23358; Cass. pen., Sez. VI, 15 settembre 2015 n. 44589; Cass. pen., Sez. VI, 9 giugno 2014 n. 24057.

[15] Si ritiene, infatti, che la relazione tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, in quanto caratterizzata da poteri direttivi e disciplinari che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo, sia ascrivibile ai rapporti di soggezione alla altrui «autorità» ovvero a quelli instaurati «per l'esercizio di una professione», espressamente considerati dal legislatore all’art. 572 c.p.

[16] Cass. pen., Sez. VI, 20 marzo 2014, n. 13088. In senso conforme, ex plurimis, Cass. pen., Sez. VI, 07 giugno 2018, n.39920; Cass. pen., sez. VI, 13 febbraio 2018, n.14754; Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2018, n. 7639; Cass. pen., Sez. VI, 26 febbraio 2016, n. 23358; Cass. pen., sez. VI, 23 giugno 2015, n.40320.

[17] La stessa decisione in commento richiama Cass. pen., Sez. VI, del 28 settembre 2016, n. 51591, secondo cui “non è dubbio che il datore di lavoro sia titolare del potere di correzione e di disciplina, intesi come poteri di indicare le modalità adeguate di esecuzione della prestazione di lavoro, necessarie, o anche solo opportune, perché la complessiva attività posta in essere dal soggetto organizzato per raggiungere un risultato economico (che sia un bene o un servizio, privato o pubblico) possa essere efficace allo scopo che ne giustifica, e consente, l’esistenza. In tali limiti è possibile sussumere il lavoratore dipendente nella nozione di soggetto sottoposto all’autorità del datore di lavoro”.

[18] La giurisprudenza è oramai orientata unanimemente in tal senso Cfr., da ultimo, Cass. pen., Sez. V, 06 ottobre 2020 (dep. 18 gennaio 2021) n. 1757. In senso conforme, ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, 8 giugno 2016, n. 54920; Cass. pen., Sez. V, 27 maggio 2016, n. 48268; Cass. pen., Sez. V, 6 ottobre 2015, n. 47195; Cass. pen., Sez. V, 3 luglio 2015, n. 45453; Cass. pen., Sez. V, 5 novembre 2014, n. 51718; Cass. pen., Sez. V, 5 giugno 2013, n. 4633; Cass. pen., Sez. V, 27 novembre 2012, n. 20993. In dottrina, viceversa, è maggiormente discussa la natura giuridica del delitto di stalking. In senso conforme a quanto sostenuto in giurisprudenza Cfr. F. Viganò, Reati contro la persona, cit., p. 272; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 292; E. Dolcini – G. Marinucci (a dura di), Codice penale commentato, cit., p. 554. In senso contrario, favorevoli all’interpretazione della fattispecie in termini di reato di pericolo concreto Cfr. D. Pulitanò, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 249; A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, cit., p. 153.

[19] Con la conseguenza che “nulla impedisce che nel caso concreto la condotta di atti persecutori che normalmente si realizza per imporre un rapporto sulla vittima, venga realizzata da soggetti in posizione superiore, ma anche inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità, come strumento per allontanarla o indurla ad allontanarsi dalla struttura lavorativa” A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, cit., p. 203. Nella medesima direzione cfr. anche D. Pulitanò, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 251; G. Montanara, voce Atti persecutori, in Enc. Dir. (web), 2013, p. 70-71.

[20] Il Parlamento europeo, con la risoluzione 2001/ 2339 (INI) del 20 settembre 2001, ha richiamato l’attenzione sugli effetti devastanti del mobbing sulla salute fisica e psichica delle vittime, esortando gli Stati membri a completare la propria legislazione sotto il profilo della lotta contro il mobbing.

[21] A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, cit., p. 203 ss.; R. Bartoli – M. Pelissero – S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, cit., p. 153; G. Montanara, voce Atti persecutori, cit., p. 70-71; D. Pulitanò, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 251.

[22] La dottrina, invero, non ha mancato di sottolineare le notevoli difficoltà probatorie, concernenti sia gli eventi ipotizzati che il nesso di causalità rispetto alle condotte di stalking, cui va incontro l’interpretazione della fattispecie in termini di reato di evento D. Pulitanò, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 247;

[23] Sottolineano come la descrizione legislativa delle condotte tipizzate dall’art 612 bis c.p. presenti diverse zone di indeterminatezza, il cui riempimento resta affidato ad una attività di concretizzazione da parte degli interpreti G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 289. In maniera più approfondita, segnala le perduranti perplessità circa la compatibilità del delitto di atti persecutori con il principio di determinatezza di cui all’art. 25 co. 2 Cost. G. Amarelli, Il principio di determinatezza e il delitto di atti persecutori alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 172/2014, in Studium Iuris, 2015, p. 824-825.

[24] Secondo quanto efficacemente sostenuto in dottrina “Il nucleo del fatto tipizzato può adattarsi però anche a contesti diversi: l’assenza, sia nella condotta che nell’evento, di una caratterizzazione sessuale consente infatti di estendere la norma ad atti persecutori realizzati in ambiti lavorativi (cd. mobbing) o all’interno di rapporti interpersonali (ad es. di condominio o di gruppi).” R. Bartoli – M. Pelissero – S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, cit., p. 153

[25] Si prevede che “la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (…)”.

[26] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 297, secondo cui “la ratio del più severo trattamento sanzionatorio è stata verosimilmente individuata dal legislatore nella maggiore vulnerabilità e conseguente maggiore sofferenza delle vittime che subiscono atti persecutori da parte di persone alle quali sono state legate da precedenti rapporti affettivi”.

[27] Ricorrendone i rispettivi elementi costitutivi, infatti, hanno trovato applicazione in giurisprudenza: i delitti di lesioni personali, dolose e colpose ex artt. 582 e 590 c.p.; ingiuria ex art. 594 c.p.; diffamazione ex art. 595 c.p.; violenza privata ex art. 610 c.p.; minaccia ex art. 612 c.p.; molestia ex art. 660 c.p.; violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. nonché il delitto di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. in presenza di un rapporto di pubblico impiego.

[28] In tal senso sembra deporre la dottrina che ritiene maggiormente idonea a “rispecchiare in maniera più tassativa le condotte di mobbing verticale realizzate nell’ambito di un rapporto continuativo, come quello lavorativo, con abuso della posizione di supremazia come quella del datore di lavoro o del superiore” A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica cit., p. 206.

[29] Il delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. è punito con della reclusione da tre a sette anni, è procedibile d’ufficio ed è previsto, ex art. 157 co. 6, il raddoppio dei termini di prescrizione. Di contro, il delitto di atti persecutori ex art. 612 bis c.p. è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi, è procedibile a querela di parte (salvo che nelle ipotesi aggravate di cui al co. 4) e si prescrive negli ordinari termini previsti dall’art. 157 c.p.