Cass., Sez. II, sent. 25 novembre 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37818, Pres. Imperiali, est. Messini D'Agostini, ric. Antinori e Carabetta
1. Con la sentenza in epigrafe, la Seconda Sezione della Cassazione statuisce, evocando la teoria della c.d. “mobilizzazione”, che gli ovociti acquistano lo status di “cosa mobile” al termine del processo di asportazione dal corpo umano, così ritenendo configurabile il delitto di rapina, e non quello di violenza privata, nell’ipotesi in cui il soggetto, dopo una prima condotta violenta, si adoperi per sottrarre ed impossessarsi degli ovociti della vittima. La vicenda, ben nota all’opinione pubblica, riguardava un noto medico, accusato di aver anestetizzato un’infermiera contro la sua volontà, prelevandole in seguito sei ovuli con l’intento di impiantarli nell’utero di una paziente della propria clinica privata, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, nonché causandole, infine, un disturbo post-traumatico ed una sindrome depressiva atipica, quale conseguenza non voluta della propria condotta.
In relazione a tali fatti, il Tribunale di Milano condannava il soggetto per i reati di rapina pluriaggravata, lesione personale, falsità ideologica nella redazione del certificato di dimissioni della persona offesa, lesione personale quale conseguenza non voluta del delitto di rapina e tentata estorsione. In parziale riforma, la Corte di appello di Milano dichiarava il soggetto colpevole anche di un’ulteriore rapina di un telefono cellulare e riqualificava l’estorsione da tentata a consumata. Infine, la Cassazione interviene annullando la sentenza impugnata limitatamente alla rapina del cellulare e riqualificando l’estorsione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, confermando la condanna per i restanti capi di imputazione.
2. Prima di occuparsi della “rapina degli ovociti”, la Corte affronta una preliminare questione di carattere processuale, sollevata dal ricorrente, circa l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla vittima in qualità di testimone, ma essendo tuttavia al contempo sottoposta ad indagini per i reati di calunnia e di false informazioni al pubblico ministero, in relazione alle dichiarazioni rese sugli stessi fatti oggetto della sentenza in commento. La Cassazione, richiamando i principi già espressi dalle Sezioni Unite Lo Presti, ne statuisce l’utilizzabilità, escludendo l’ipotesi di collegamento probatorio ex art. 371, c. 2 lett. b) c.p.p. prospettata dalla difesa[1].
3. Superato l’ostacolo di ordine processuale, la sentenza prosegue sviscerando la questione della riconducibilità degli ovociti al concetto di “cosa mobile”, così affrontando un tema che costituisce un vero e proprio unicum nel panorama giurisprudenziale italiano. Se è infatti vero che l’estensione interpretativa della nozione di “cosa mobile” nei delitti contro il patrimonio costituisce problema ermeneutico affatto nuovo nell’esperienza giuridica nostrana[2], tuttavia è la prima volta che la Cassazione viene chiamata a pronunciarsi con riguardo a quale delitto risulti configurabile in caso di sottrazione e successivo impossessamento di ovuli[3].
4. Con argomentazione precisa e lineare, la Corte muove dalla considerazione che il concetto penalistico di “cosa mobile” non coincide necessariamente con quello civilistico, potendo il primo risultare al contempo tanto più ristretto quanto più ampio del secondo.
In primo luogo, è più ridotto laddove non vengono considerate mobili le entità prive di un sostrato materiale, come le opere d’ingegno e i diritti soggettivi, che invece l’art. 813 c.c. assimila ai beni mobili. L’esclusione dei c.d. beni immateriali dalla nozione penalistica di “cosa mobile” si trae essenzialmente da un duplice ordine di considerazioni. Anzitutto, perché il perimetro definitorio dell’oggetto materiale, nei delitti contro il patrimonio, è influenzato dal modo di atteggiarsi delle condotte penalmente rilevanti, e tale assunto è in particolare vero per quanto concerne i delitti di furto e rapina, la cui condotta è scindibile concettualmente in due fasi (alle quali se ne aggiunge, per quanto concerne il solo art. 628 c.p., una terza, data dalla violenza o minaccia nei confronti della persona): la sottrazione della cosa a chi la detiene ed il successivo impossessamento, che implicano l’esercizio di un potere di signoria sulla res. Infine, a conferma di tale assunto si richiama anche l’eccezione stabilita dall’art. 624 c. 2 c.p., che ricomprende espressamente nella nozione di cosa mobile anche le energie dotate di valore economico[4].
In secondo luogo, è più ampio nelle ipotesi in cui la giurisprudenza fa applicazione della teoria della mobilizzazione, secondo cui la nozione in questione ricomprende non solo le cose mobili in senso stretto, bensì anche quelle che possono essere rese mobili tramite attività materiale posta in essere dallo stesso soggetto agente. Ciò in quanto determinati beni divengono sottraibili, e di conseguenza suscettibili di appropriazione, solamente in seguito ad un’attività di asportazione, enucleazione o avulsione.
La sentenza, poste tali premesse, ripercorre in particolare le diverse tappe giurisprudenziali che hanno portato al consolidarsi di quest’ultima teoria, richiamando alcuni propri precedenti, tramite i quali la Cassazione ha stabilito che rientrano nella nozione di “cosa mobile” ex art. 624 c.p.: le pertinenze di un immobile, pur se la legge civile le assoggetta a regime immobiliare (Sez. I, 12 febbraio 1974, n. 8514); gli oggetti che, pur non avendo attitudine ad essere trasportati oppure a muoversi da sé, possono tuttavia essere “mobilizzati” dallo stesso ladro, tramite avulsione o enucleazione, come nel caso di sottrazione di una protesi dentaria da un cadavere (Sez. II, 07 giugno 1984, n. 9802); la deviazione del corso di un fiume al fine di trarne un ingiusto profitto, condotta riconducibile al furto continuato dell’acqua che vi scorre, e non alla diversa fattispecie disciplinata dall’art. 632 c.p.; infine, lo stesso principio è stato applicato per il furto d’alberi, pur se originariamente piantati nel terreno (Sez. IV, 24 novembre 2016, n. 6617) e di colonnine telefoniche radicate sul marciapiede (Sez. V, 13 dicembre 2018, n. 7559, dep. 2019).
5. Muovendo da tali presupposti, la Cassazione conferma la tesi proposta sia dal primo che dal secondo Giudice, secondo la quale è possibile parlare di “reificazione” anche con riferimento agli ovociti, che divengono “cosa mobile” nel momento della loro separazione, seppur sottolineandone una peculiarità: trattandosi di un distacco da corpo umano e non da bene immobile, è solo da quel momento che si può correttamente parlare di detenzione degli ovociti, e non anche con riferimento a quello precedente, in cui gli stessi sono sì “mobilizzabili”, ma non ancora mobili. Pertanto, gli ovuli acquisiscono lo status di cosa mobile solo con il distacco, divenendo così suscettibili di sottrazione ed impossessamento solo a partire da tale momento. Una simile conclusione risulta inoltre coerente con quanto precedentemente affermato dalla stessa Cassazione nella fase cautelare della presente vicenda, ove la stessa aveva escluso che gli ovociti potessero essere ricompresi nel concetto di “cosa mobile”, poiché originariamente il capo di imputazione contestava solo la separazione e non anche la successiva condotta di impossessamento[5].
6. Determinante ai fini della qualificazione giuridica del fatto, una volta tracciato il limes oltre il quale gli ovociti possono essere identificati come “cosa mobile”, è infine il rapporto fra l’iniziale condotta violenta, posta in essere in un momento in cui gli ovuli erano ancora parte del corpo umano, e la successiva condotta di impossessamento, intervenuta invece in seguito alla “reificazione” degli ovociti. Sul punto, la Corte disattende la tesi del ricorrente, secondo cui, dal momento che l’azione violenta sarebbe stata realizzata quando ancora non esisteva la cosa mobile, essa sarebbe al più qualificabile come una mera violenza privata, consistita nell’imporre alla vittima di tollerare l’asportazione degli ovociti, ritenendo invece che il fatto integri gli estremi dell’art. 628 c.p.[6]
Al contrario, muovendo dalla natura plurioffensiva della rapina, la Corte evidenzia che fra la condotta violenta, commessa quando non sussisteva l’oggetto materiale della rapina, ed il successivo impossessamento degli ovociti sussiste un nesso di immediatezza e strumentalità, sicché la prima condotta si risolve in una violenza esercitata sulla persona, necessaria per integrare il delitto di rapina, non essendovi alcuna soluzione di continuità causale fra la violenza esercitata sulla vittima, la sua successiva sedazione, l’asportazione e l’impossessamento degli ovociti.
7. Sia infine consentita una breve considerazione: la conclusione raggiunta dalla Seconda Sezione tocca un tema che da sempre è stato al centro di un vivace e mai sopito dibattito all’interno della dottrina penalistica, ossia quello dell’interpretazione agli effetti penali degli elementi del possesso e della detenzione, tema già attenzionato sin dalla prima metà del secolo scorso e che ha contribuito all’affermarsi della teoria dell’autonomia interpretativa del diritto penale rispetto alle altre discipline giuridiche[7].
Per quanto interessa in questa sede, la definizione che il legislatore fornisce del fatto tipico degli artt. 624 e 628 c.p., fa leva sui tre requisiti della detenzione, della sottrazione e dell’impossessamento, ed è proprio in relazione al primo, costituente il presupposto logico degli ultimi due, che si registra quantomeno una perplessità.
Tale elemento, espressamente previsto dal legislatore, è oggetto di contrasti in dottrina con riferimento alla sua estensione applicativa, dal momento che l’approccio interpretativo penalistico presenta diverse tesi autonomistiche rispetto all’omonimo concetto civilistico, al fine di renderlo più conforme alle esigenze repressive proprie del diritto penale[8]. È noto infatti che la definizione di detenzione tradizionalmente accolta in sede civile è finalizzata a risolvere questioni attinenti alla tematica del possesso, evocando un potere di signoria sulla res accompagnato da un corrispondente animus detinendi. Eppure, una simile accezione non sarebbe in grado di ricomprendere diverse ipotesi che la dottrina e la giurisprudenza penalistica riconducono pacificamente alle fattispecie di furto e di rapina, come i casi in cui la res non risulta essere posseduta da nessuno (si pensi, a titolo d’esempio, al furto commesso su cadavere), ovvero quelli in cui il bene è sottratto dallo stesso soggetto che materialmente lo detiene.
Sul punto, l’orientamento maggioritario risolve tali ipotesi-limite accedendo ad un concetto lato di detenzione, che va oltre alla pura relazione fisica fra soggetto e cosa, coincidente con tutte quelle situazioni di fatto che denotano un’appartenenza della cosa a terzi, che su di essa possono esercitare un potere di disponibilità.
Una simile soluzione risulta tuttavia solo in parte appagante per quanto riguarda l’ipotesi di rapina di ovociti. Se è vero infatti che la donna né ha la disponibilità, potendo donarli a coppie con problemi di fertilità, non ci si può esimere dal sottolineare che la scelta operata dalla Cassazione rischia di estendere ulteriormente la nozione di detenzione, le cui maglie già risultano di per sé allentate dall’interpretazione dominante: l’esigenza di considerarli res solo una volta separati dal corpo comporta che se certamente la condotta di impossessamento insiste su una “cosa mobile”, si potrebbe tuttavia opinare che l’altra condotta, quella di sottrazione, non abbia invero ad oggetto la res, ma, più propriamente, la “crei”, trasformando con la separazione una parte del corpo in una cosa mobile[9].
Ciò comporta, oltre ad una rarefazione del concetto di detenzione, che tale requisito, generalmente considerato come presupposto delle condotte di sottrazione e impossessamento, finisca tuttavia per essere una condicio del solo impossessamento[10].
Invero il problema non è nuovo, poiché non rappresenta altro che un particolare aspetto di un tema più ampio, ossia quello del difficile rapporto fra innovazione tecnologica e rispetto dei principi di tassatività e determinatezza, che spesso comporta la difficoltà di adattare “vecchie formulazioni normative” ai nuovi problemi dell’epoca moderna[11].
In definitiva, v’è da chiedersi se il dato legislativo di cui all’art. 628 c.p. risulti veramente rispettato, pur se attraverso un’interpretazione estensiva dei requisiti ivi previsti, oppure se le necessità di adattare la fattispecie al tempo che cambia stia comportando una sempre più progressiva dequotazione dei requisiti della detenzione e della sottrazione in favore del solo elemento dell’impossessamento, che in questo modo diverrebbe la sola essenza dei delitti di furto e di rapina[12].
[1] Cass. Sez. Un., 26 marzo 2015, n. 33583, Lo Presti, con nota di M.L. Di Bitonto, Un caso di inutilizzabilità dubbio o inconfutabile?, in Cass. Pen., 12/2015, p. 4310. Gli ermellini, nel risolvere una diversa questione attinente alle interferenze fra le qualità di imputato e testimone, escludono al contempo che il reato consistente in false dichiarazioni versate nel processo (come ad esempio la calunnia, le false informazioni al pubblico ministero o il favoreggiamento personale) possa determinare l’insorgenza di una incompatibilità rispetto alla posizione di testimone. A sostegno di tale conclusione, le Sezioni Unite richiamano quella giurisprudenza di legittimità relativa all’interpretazione dell’art. 63 c.p.p. secondo cui le dichiarazioni indizianti sono solo quelle rese dal teste su fatti da cui emerga una sua responsabilità penale, e non anche quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi un fatto tipico di una determinata figura di reato. In questo senso, la testimonianza risulta immune da vizi di incompatibilità, essendo la stessa al più censurabile sotto il diverso aspetto della sua attendibilità.
[2] Il problema, ben noto ed evidenziato in dottrina, riguarda la progressiva e tendenziale estensione della nozione di “cosa mobile” rispetto alla canonica e tradizionale visione del bene in senso puramente materiale, che oggi finisce per abbracciare anche entità differenti, come l’energia e, più di recente, i documenti informatici. Sul punto, ex multis, G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, Vol. II, Bologna, 2015, p. 27; L. Grossi, I tormenti della “cosa mobile” penalmente rilevante: la Corte di cassazione ne estende la portata ai documenti informatici (files), in Giur. pen. web., 10/2020; N. Pisani, La nozione di “cosa mobile” agli effetti penali e i files informatici: il significato letterale come argine all’applicazione analogica delle norme penali, in Dir. pen. proc., 5/2020, p. 651 ss.
[3] Una simile questione è stata infatti affrontata solo da un’altra sentenza della Cassazione (Sez. F., n. 39541/2016), intervenuta tuttavia nella fase cautelare della medesima vicenda processuale interessata dal provvedimento in commento.
[4] Si veda in particolare i Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale. Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del guardasigilli On. Alfredo Rocco, Vol. V, parte II, Roma, 1929, 439. In dottrina, si veda in particolare, G. Fiandaca, E. Musco, cit., p. 27; F. Mantovani, voce Furto, in Dig. disc. Pen., V, Torino, 1991, p. 366; A. Pagliaro, voce Appropriazione Indebita, in Dig. disc. Pen., I, Torino, 1987, p. 229.
[5] Cfr. Sez. F., n. 39541/2016, ove si afferma, più in generale, che qualsiasi parte del corpo diviene “cosa” solo dopo essere stata separata da quest’ultimo.
[6] Ad avviso del ricorrente, l’unica condotta avente ad oggetto un bene mobile posta in essere dal medico sarebbe stata pertanto quella di mera apprensione, come tale assorbita dal delitto di cui all’art. 610 c.p., ovvero al più idonea ad integrare il solo reato di furto.
[7] Si veda in particolare, in chiave storica, P. Nuvolone, Il possesso nel diritto penale, Milano, 1942; R. Pannain, Il possesso nel diritto penale, Roma, 1946; nonché, da ultimo, I. Salvadori, I reati di possesso. Un’indagine dogmatica e politico-criminale in prospettiva storica e comparata, Napoli, 2016. Per un’efficace sintesi delle diverse posizioni della concezione autonomista, v. G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., 33. Oltre all’affermarsi del principio di autonomia del diritto penale, le criticità dei concetti di possesso e detenzione, hanno inoltre portato parte della dottrina ad interrogarsi sull’opportunità di elaborare, al di là della specifica questione attenzionata in questa sede, una categoria autonoma dei “reati di possesso”, analizzandone i rapporti con il principio di offensività e le tecniche di anticipazione della tutela penale, ed in particolare con le figure dei reati di sospetto, di pericolo ed il tentativo. Sul punto, cfr. in particolare M. Mantovani, La struttura dei reati di possesso, in Dir. pen. cont., 7 novembre 2012; I Salvadori, ibidem.
[8] Per una più approfondita disamina delle diverse impostazioni, con annessi riferimenti bibliografici, si rimanda a G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., p. 57; A. Lanzi, Il possesso in diritto penale, la posizione di Nuvolone e la «soluzione generale» del problema, in Studi Nuvolone, I, Milano, 1991, 43 ss.; G. Marini, voce Possesso (Diritto penale), in Dig. disc. pen., IX, Torino, 1995, 630.
[9] La stessa Corte sembra esserne consapevole, nel momento in cui si preoccupa proprio del problema della detenzione, sottolineando che «la peculiarità dell'intervento di pick up (che comporta l'aspirazione del liquido follicolare contenente gli ovociti attraverso un sottile ago e il trasferimento del liquido in laboratorio, ove viene esaminato al microscopio per recuperare gli ovociti, poi posti in speciali terreni di coltura) non è di ostacolo alla configurabilità in capo alla donna della detenzione dei gameti femminili, che la stessa può anche donare a coppie con problemi di fertilità, in presenza di determinati presupposti». Cfr. punto 4 delle considerazioni in diritto.
[10] Tale assunto sembrerebbe confermato indirettamente dalla Cassazione stessa, nella già menzionata decisione della Sezione Feriale, che aveva negato che gli ovociti rientrassero nel concetto di cosa mobile sul presupposto che il capo di imputazione contestava solo la condotta di separazione degli ovociti dal corpo della donna, e non anche quella di impossessamento. Cfr. Sez. F., n. 39541/2016, punto 2 delle considerazioni in diritto.
[11] Tale criticità, che interessa anche il già citato problema della qualificazione come “cosa mobile” dei files informatici, investe diversi altri settori del diritto penale, riproponendo il mai sopito problema del confine fra interpretazione estensivo-evolutiva ed analogia in malam partem. Sul punto, v. in particolare, da ultima, A. Massaro, Determinatezza della norma penale e calcolabilità giuridica, Napoli, 2020.
[12] In dottrina contesta il ruolo del requisito della detenzione A. Lanzi, voce, furto, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma, 1989, p. 5 s.; nonché, sostenendo la superfluità anche dell’elemento della sottrazione, G. Neppi Modona, Un aspetto problematico del furto: la detenzione, in Riv. it. dir. proc. Pen., 1962, p. 1169. Per una critica a queste impostazioni v. ex multis, G. Fiandaca, E. Musco, op cit., p. 58.