Scheda  
04 Febbraio 2020


La Cassazione interviene sull’applicabilità della legge penale italiana ai reati commessi nei campi di detenzione in Libia


Giulia Mentasti

Cass., Sez. V, sent. 12 settembre 2019 (dep. 27 novembre 2019), n. 48250, Pres. Vessichelli, Est. Pistorelli


1. Con la sentenza in commento la quinta sezione penale della Corte di cassazione ha affrontato una questione relativa all’estendibilità della giurisdizione penale italiana a gravi reati commessi in Libia da soggetti stranieri nei confronti di altri stranieri. Pur essendo la ricostruzione in punto di fatto assai succinta, le fattispecie di reato che vengono in rilievo – sequestro di persona a scopo di estorsione, tortura, violenze sessuali, nonché associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – consentono di inquadrare la vicenda nell’ambito delle violenze sistematicamente perpetrate all’interno dei campi di detenzione libici nei confronti dei migranti.

Nel caso specifico, la Corte è stata chiamata ad esprimersi circa la capacità del criterio della ‘stretta connessione’ tra fattispecie delittuose ad estendere la giurisdizione italiana a condotte gravissime e, apparentemente, prive di collegamenti con il nostro ordinamento. Come si vedrà, la Corte ha rigettato il ricorso del Pubblico Ministero, escludendo l’operatività di tale criterio in materia di giurisdizione con un’argomentazione, però, che lascia spazio a considerazioni più ampie e generali sulla concreta estensione dei confini spaziali del diritto penale italiano.

 

2. La ricostruzione del procedimento cautelare che siamo in grado di offrire è piuttosto scarna in quanto basata solo su quanto sinteticamente riportato nella sentenza della Cassazione. Emerge che il G.i.p. di Catania aveva rigettato la domanda di custodia cautelare nei confronti dell’indagato – un cittadino straniero – con riferimento ai reati di sequestro di persona a scopo di estorsione pluriaggravato (art. 630 c.p.), tortura aggravata (art. 613-bis c.p.) e violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) commessi in Libia a danno di altri cittadini stranieri, verosimilmente in uno dei tanti campi di detenzione dove migliaia di migranti vengono privati della libertà e sottoposti a continue violenze nell’attesa di affrontare l’ultimo segmento del viaggio verso l’Europa. Nello stesso provvedimento il G.i.p. aveva invece applicato all’indagato la misura cautelare della custodia in carcere per altri reati che gli venivano contestati, ossia l’associazione per delinquere (art. 416 c.p.) ed il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12 T.U. imm.). Rispetto a questi ultimi – come riferisce la Cassazione – la giurisdizione italiana veniva riconosciuta sulla base della transnazionalità della fattispecie associativa finalizzata al compimento di gravi delitti del territorio dello Stato ai sensi degli artt. 5 e 15 par. 2 lett. c) della Convenzione di Palermo del 12-15 dicembre 2000, nonché dell’ipotesi di cui all’art. 54 co. 3 c.p.p.[1].

Rigettato dal Tribunale di Catania anche l’appello ex art. 310 c.p.p. proposto dal PM, quest’ultimo ha dunque proposto ricorso in Cassazione articolando un unico motivo nel quale ha lamentato la violazione di norme processuali in materia di giurisdizione, in particolare sostenendo che precedenti sentenze della stessa Cassazione avevano riconosciuto la giurisdizione italiana al ricorrere di un rapporto di stretta connessione tra gli illeciti perpetrati (da stranieri) interamente all’estero e quelli rispetto ai quali possa invece pacificamente esplicarsi la pretesa punitiva del nostro Stato.

Proprio questo filone interpretativo richiamato e attribuito dal ricorrente alla giurisprudenza della Cassazione (Cass. Sez. I, n. 325/2001 del 20/11/2001, Duka e altri, Rv. 220435, nonché Cass. Sez. I, n. 5157/2018 del 22/11/2017, Khmelyk e altri, Rv. 272414), avrebbe dovuto essere applicato alla vicenda in esame nella quale, a parere del PM, era evidente una connessione di tipo teleologico tra i delitti contro la persona commessi in Libia e quelli contro l’ordine pubblico per i quali era invece stata applicata la misura cautelare: sequestri, torture e violenze sessuali, infatti, erano stati posti in essere al fine di costringere le famiglie dei migranti a pagare il prezzo del viaggio verso l’Italia ai membri dell’associazione che avrebbe poi provveduto a organizzare il ‘viaggio’ (così integrando i reati di associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione illegale).

 

3. L’argomentazione presentata dal ricorrente si fonda su una presunta errata interpretazione del Tribunale di Catania della giurisprudenza di legittimità cristallizzatasi sugli istituti del diritto di inseguimento e della presenza costruttiva. Il primo, disciplinato dall’art. 23 della Convenzione di Ginevra concernente l’alto mare del 1958 nonché dall’art. 111 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, prevede che sia consentito l'inseguimento fuori dalle acque territoriali di una nave straniera quando le competenti autorità dello Stato costiero abbiano fondati motivi di ritenere che essa abbia violato le leggi e i regolamenti dello Stato stesso. Due sono le condizioni imposte: l'inseguimento deve iniziare quando la nave straniera si trova nelle acque territoriali dello Stato che lo mette in atto e deve proseguire senza soluzione di continuità fino al raggiungimento delle acque internazionali.

La seconda, cd. presenza costruttiva, è invece un istituto di matrice internazionale che consente di ritenere legittimo l’inseguimento (e l’esercizio dei poteri conseguenti) della nave che non sia entrata nelle acque territoriali quando, però, vi abbia fatto ingresso un’altra imbarcazione che possa essere considerata parte della stessa flotta, operante secondo le medesime modalità criminali. Per il ricorrente, infatti, ha errato il Tribunale nel ritenere che, per l’estensione della giurisdizione italiana, fosse necessario l’esercizio del diritto di inseguimento o la presenza costruttiva, essendo al contrario sufficiente il criterio della ‘stretta connessione’ tra i reati pacificamente sottoposti alla giurisdizione italiana (associazione per delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione illegale) e quelli ad essi certamente connessi (sequestro di persona, tortura e violenza sessuale) ma privi del richiesto aggancio normativo ai sensi dell’art. 7  co. 1 n. 5 c.p.

 

4. Arrivando al cuore della questione, la Corte ha rigettato il ricorso sulla scorta di una diversa lettura delle stesse sentenze richiamate dal ricorrente e, in particolare, del caso Duka nel quale, effettivamente, si faceva cenno al criterio di connessione richiamato dal Pubblico Ministero. Al riguardo la Corte ha sottolineato che tale pronuncia, lungi dal far ritenere sufficiente il requisito della stretta connessione per l’estensione della giurisdizione italiana, afferma unicamente che il contatto tra la nave straniera e l’ambito territoriale sottoposto alla giurisdizione italiana determina l’estensione della potestà punitiva italiana ai reati commessi nelle acque internazionali, qualora strettamente connessi a quelli perpetrati negli spazi assoggettati alla giurisdizione del Paese costiero. La connessione cui si fa riferimento, dunque, è ben qualificata dal punto di vista dei principi di diritto internazionale e, soprattutto, è sempre subordinata all’esistenza di un previo ‘contatto’ con le acque nazionali. Infatti – rileva il collegio – è proprio «il previo instaurarsi di un collegamento (ravvisabile nel contatto con le acque nazionali) con l’ambito spaziale sottoposto alla giurisdizione dello Stato rivierasco (…) a giustificare l’estensione della potestà punitiva anche a fatti commessi in acque non territoriali (…) caratterizzati da una connessione di particolare rilevanza con quelli perpetrati nel mare territoriale».

La Corte inoltre nega di aver affermato il principio che il ricorrente vorrebbe attribuirle, vale a dire quello per cui la mera connessione assurgerebbe a criterio autonomo di individuazione della giurisdizione italiana per fatti commessi al di fuori del territorio dello Stato da e ai danni dello straniero: «Principio di cui peraltro non si comprende quale sarebbe la base normativa fondante», conclude perentoriamente sul punto il collegio. In altre parole, ad avviso dei giudici di legittimità il ricorrente ha confuso il concetto di competenza con quello di giurisdizione. Se, infatti, ipotesi di connessione sono certamente contemplate dal codice di procedura penale (art. 12 c.p.p.), esse servono però ai fini dell’individuazione del giudice competente, non determinando effetto alcuno in tema di giurisdizione (se non nel caso del riparto di attribuzioni tra il giudice ordinario e quelli speciali, come avviene con l’art. 13 c.p.p.).

Si aggiunge in chiusura che, qualora vengano in luce «fatti commessi interamente all’estero, seppur connessi ad altri che abbiano radicato la giurisdizione italiana, in assenza di un fondamento normativo idoneo a derogare al principio della territorialità, quali i menzionati istituti del diritto di inseguimento e della presenza costruttiva, non può dunque ritenersi giustificabile una tale espansione della potestà punitiva».

 

* * *

 

5. L’impressione che si ricava dalla lettura della pronuncia è che il grande assente dell’intera vicenda esaminata sia l’art. 10 co. 2 c.p., ossia la disposizione che, solitamente, consente di affermare la sussistenza della giurisdizione italiana su fatti di rilevanza penale avvenuti all’estero tra stranieri. A differenza dell’art. 7 c.p. che prevede in ipotesi tassativamente determinate l’applicazione incondizionata della legge italiana (ossia non subordinata ad alcuna condizione di procedibilità)[2], l’art. 10 c.p. assoggetta, invece, alla legge penale italiana i delitti comuni commessi all’estero dallo straniero, entro alcuni limiti e condizioni. In particolare, l’art. 10 co. 2 c.p. precisa che i delitti comuni commessi all’estero dallo straniero a danno di uno straniero possono essere puniti secondo la legge italiana solo quando sia prevista la pena della reclusione nel minimo non inferiore a 3 anni, vi sia la presenza dell’agente nel territorio dello Stato, sia stata presentata querela (per reati perseguibili a querela) o istanza di procedimento (per reati perseguibili d’ufficio), sia pervenuta la richiesta del Ministro della Giustizia e, infine, vi sia stata non concessione o non accettazione dell’estradizione dello straniero.

 

6. Orbene, di questa norma non si fa menzione nel caso in esame anche se in ben noti casi precedenti – uno per tutti la vicenda del carceriere Matammud, autore di torture ed omicidi in un campo di detenzione libico, al quale la Corte d’assise d’appello di Milano ha recentemente confermato una pesante condanna[3] – hanno fatto pacificamente ricorso a questa strada per affermare la giurisdizione italiana per reati commessi all’estero da cittadini stranieri a danno di altri stranieri.

Ipotizzando l’applicazione di questa norma al caso in esame certamente sarebbe integrato il requisito relativo alla pena (reclusione nel minimo superiore a tre anni) trattandosi di reati di sequestro di persona a scopo di estorsione, tortura e violenza sessuale; lo stesso potrebbe dirsi per il requisito della presenza dell’agente sul territorio italiano poiché, anche se effettivamente non si fa espresso rimando a tale situazione nella sentenza della Cassazione, è verosimile ritenere che lo stesso fosse presente dal momento che nei suoi confronti è stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione illegale e associazione a delinquere; quanto all’estradizione, la giurisprudenza maggioritaria in una condivisibile lettura dell’art. 10 c.p. ritiene che non esista per lo Stato alcun obbligo di offrire l’estradizione, avendo in concreto tale requisito il carattere della eventualità, dipendente dall’effettivo attivarsi dello Stato di nazionalità[4]; infine, maggiori perplessità potrebbe destare la necessaria richiesta del Ministero della Giustizia che, in quanto atto assolutamente discrezionale e interamente rimesso al Ministro[5], potrebbe non essere mai pervenuto portando così il Pubblico Ministero a inerpicarsi per la ben più scivolosa (e respinta dalla Corte) via della ‘stretta connessione’.

Ci si potrebbe al più interrogare, a questo punto, circa la proponibilità tardiva di tale richiesta, nell’ipotesi in cui il Ministro – meglio informato dei precedenti che hanno in passato legittimamente ravvisato la giurisdizione italiana (ex art. 10 co. 2 c.p.) sui reati commessi all’interno dei lager libici dai carcerieri che poi raggiungevano le coste italiane ‘mascherati’ da loro stesse vittime – decidesse di presentare la richiesta nelle forme dell’art. 342 c.p.p.

 

7. In conclusione, la sentenza in commento pur, di fatto, non aggiungendo alcun tassello alla giurisprudenza penale sulle responsabilità nella gestione dei campi di detenzione in Libia, è occasione di riflessione sul ruolo e sulle responsabilità dell’Italia in merito a quanto accade sull’altra sponda del Mediterraneo. Se, infatti, sono al vaglio del Procuratore presso la Corte penale internazionale possibili responsabilità per crimini contro l’umanità a carico di esponenti delle autorità italiane ed europee in relazione alle conseguenze delle politiche migratorie di “esternalizzazione delle frontiere” e di collaborazione con la Guardia costiera libica[6], pronunce come quella in esame riportano invece l’attenzione su questioni tecniche e ‘più vicine’ alla quotidianità del penalista.

La conferma in sede di giudizio di legittimità dell’esclusione della giurisdizione italiana sui fatti avvenuti in Libia è condivisibile poiché ancorata, come d’obbligo, alle precise doglianze del Pubblico Ministero che ha ancorato l’estensione della giurisdizione italiana – riconosciuta per i reati di favoreggiamento e associazione a delinquere – a un non meglio definito criterio di ‘stretta connessione’ che i giudici di legittimità non hanno esitato a escludere e riportare nell’ambito della competenza.

Meno comprensibile appare, dunque, la scelta del ricorrente di tentare la via della stretta connessione, fonte di uno sforzo argomentativo certamente maggiore rispetto a quello che si sarebbe e dovuto affrontare se, optato per la via dell’art. 10 co. 2 c.p. e giunta la richiesta del Ministro della Giustizia, si fosse unicamente dovuta giustificare l’applicabilità della legge penale italiana sulla base della presenza dell’agente in Italia, dei requisiti di pena e di eventuali questioni inerenti all’estradizione. Non è chiara la ragione che ha portato il P.M. a scartare la via dell’art. 10 co. 2 c.p. e non si può nemmeno escludere che, pur sollecitata dal PM come è prassi, la richiesta del Ministro non sia mai giunta, così ‘costringendo’ il PM a ‘tentare' la via (rivelatasi errata) della interpretazione estensiva dei requisiti.

 

8. Quel che è certo è che un errore in punto di ricostruzione dei presupposti giuridici della giurisdizione, come quello ravvisato dalla Cassazione nella vicenda in esame, rischia di avere ripercussioni anche al di là della fase cautelare, lasciando cioè impuniti delitti contro la persona molto gravi; ben più gravi, anche solo dal punto di vista della pena comminata, di quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La punizione da parte dell’ordinamento italiano delle violenze commesse nei campi di detenzione libici, lungi dall’essere una forzatura dettata da afflati universalistici del giudice penale, appare, quando ve ne sono i presupposti dettati dalla legge, espressione della legittima pretesa dello Stato italiano di raggiungere attraverso la sanzione penale alcune delle più gravi violazioni intenzionali dei diritti dell’uomo di cui siamo oggi purtroppo testimoni.

 

 

[1] Benché non espressamente riportato dalla sentenza della Cassazione, è ragionevole ritenere che con riferimento ai reati di associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la giurisdizione italiana si sia radicata tramite il disposto dell’art. 7 co. 1 n. 5 c.p.  che rende punibile secondo la legge penale italiana (il cittadino o) lo straniero che commette all’estero un reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana. A tal riguardo, non mancano in dottrina voci che affermano la sostanziale inutilità dell’art. 7 co. 1 n. 5., alla luce del fatto che il richiamo alle speciali disposizioni di legge o alle convenzioni internazionali potrebbe apparire superfluo poiché le prime dispongono autonomamente della propria applicabilità, le seconde prevedono necessariamente un meccanismo di adattamento al diritto interno, vuoi in base a un generico exequatur, vuoi con specifico inserimento di norma penale interna (cfr. S. Aprile, sub art. 7 c.p. in E. Dolcini – G.L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, IV ed., 2015, pp. 256 ss.

L’art. 7 c.p. è infatti uno degli strumenti attraverso i quali il legislatore ha temperato il carattere territoriale della pretesa punitiva statale delineato dall’art. 6 c.p., orientandola verso una ‘tendenziale universalità’ (G. Marinucci – E. Dolcini - G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale. Parte generale, VIII ed., Giuffrè Francis Lefebvre, 2019, pp. 150 ss.). Quando si opera tramite l’art. 7 co. 1 n. 5 c.p. diventa, quindi, indispensabile individuare un preciso fondamento normativo, di diritto nazionale o internazionale, idoneo a giustificare l’affermazione della giurisdizione italiana. È ciò che avviene, ad esempio, quando i reati di pirateria previsti dagli artt. 1135 e 1136 del codice della navigazione vengono commessi in acque territoriali altrui o in alto mare a danno, però, dello Stato, di cittadini o beni italiani: potranno essere puniti secondo la legge italiana ai sensi dell’art. 7 co. 1 n. 5 c.p. in combinato disposto, di volta in volta, con le apposite leggi che regolano, ad esempio, la partecipazione italiana alle missioni internazionali. Il riferimento è a quanto avvenuto con le missioni cui l’Italia ha attivamente partecipato Atalanta e Ocean Shield e promosse, rispettivamente, da Unione europea e NATO al fine di condurre operazioni di contrasto alla pirateria in mare, con particolare riguardo alle coste somale. Gli atti di pirateria commessi ai danni dello Stato, dei beni o militari italiani nel corso di queste missioni sono stati puniti in virtù del combinato disposto, per la missione Atalanta, dell’art. 7 co. 1 n. 5 c.p. e dell’art. 5 co. 4 d.l. 12/2008 conv. in l. 12/2009 (tale articolo stabilisce che: i reati previsti dagli articoli 1135 e 1136 del codice della navigazione e quelli ad essi connessi ai sensi dell'articolo 12 del codice di procedura penale, inclusi i reati a danno dello Stato o dei cittadini italiani che partecipano alla missione di cui all'articolo 3, comma 14, commessi in alto mare o in acque territoriali altrui e accertati durante la medesima missione sono puniti ai sensi dell'articolo 7 del codice penale e la competenza è attribuita al tribunale di Roma) e, per la missione Ocean Shield, dell’art. 7 d.l. 107/2011 conv. in l. 12/2009. Per un approfondimento si rinvia alle sezioni specificamente dedicate a queste operazioni sul sito del Ministero della Difesa (www.difesa.it).  

Anche lo schema del cd. reato transnazionale applicato alla fattispecie associativa ex art. 416 c.p. – presente nel caso concreto – permette di raggiungere il medesimo risultato individuando il fondamento normativo, però, nella Convenzione di Palermo che all’art. 5 impone allo Stato Parte la “penalizzazione” (letteralmente: l’adozione delle misure legislative e di altra natura necessarie a conferire il carattere di reato) della partecipazione ad un gruppo criminale organizzato e, all’art. 15, invece, richiede sempre allo Stato l’adozione delle misure necessarie per la determinazione della propria giurisdizione in relazione ai reati di cui all’ art. 5 della Convenzione.

[2] Ai sensi dell’art. 7 c.p., è punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero (nn. 1-4) delitti contro la personalità dello Stato italiano; delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto; delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano; delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni ovvero (n. 5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge (quali ad esempio l’art. 591 c.p. – abbandono di persone minori, o l’art. 583 bis c.p. – mutilazioni genitali femminili) o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge penale italiana (è questo il caso, ad esempio, dei delitti in materia di tortura, pene e trattamenti crudeli, disumani o degradanti).

[3] Sia consentito il riferimento a G. Mentasti, I campi di detenzione dei migranti in Libia e il caso Matammud.  La Corte d’assise d’appello di Milano conferma la condanna per il gestore di Bani Walid e aggiunge una pagina al racconto delle violenze perpetrate nei confronti dei migranti che attendono di raggiungere l’Europa, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza (in corso di pubblicazione).

[4] Approfonditamente sul punto, A. Di Martino, “Pasticciaccio brutto in alto mare. Questioni di giurisdizione, estradizione, necessità, traduzione d’atti”, nota a Cass. Sez. I, 23 gennaio 2014 n. 3155, in Dir. pen. proc., n. 6/2014, pp. 721-736.

[5] Codice di Procedura penale commentato, a cura di A. Giarda, G. Spangher, sub art. 342 c.p.p., tomo II, Commentari IPSOA, Wolters Kluwer, 2017.

[6] Si veda a tal proposito la comunicazione al Procuratore della CPI siglata da O. Shatz. e J. Branco, EU Migration Policies in the Central Mediterranean and Libya (2014-2019). Il documento è frutto della collaborazione con gli studenti della Clinica legale International Law and migration policies - Capstone on Counter-Terrorism and International Crimes della facoltà di Scienze Politiche della Public School of International Affair (PSIA) di Parigi negli anni accademici 2017/2018 e 2018/2019.