ISSN 2704-8098
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  Scheda  
04 Dicembre 2020


Cessione di immagini pedopornografiche autoprodotte ('selfie'): la Cassazione rivede la propria lettura dell’art. 600-ter c.p.

Cass., Sez. III penale, sent. 21 novembre 2019 (dep. 12 febbraio 2020), n. 5522, Pres. Izzo, Rel. Macrì



1. Con la sentenza qui in esame, la terza sezione penale della Cassazione rivede l’interpretazione finora data all’art. 600 ter c.p. Per la configurabilità delle ipotesi di cui ai commi da due a cinque (nel caso in oggetto: la cessione di materiali pedopornografici) non viene più richiesto che il materiale pedopornografico sia stato prodotto da persona diversa dal soggetto minorenne ritratto. Anche immagini pornografiche autoscattate dalla persona offesa, e poi illegittimamente da altri diffuse, rientrano pertanto nell’alveo di tale disposizione. Il requisito dell’alterità tra soggetto ritratto e autore delle immagini rimane invece per il reato di produzione di pornografia minorile, di cui al primo comma.

 

2. Uno studente universitario, durante una gita con amici, scatta delle foto di gruppo utilizzando il telefono della persona offesa. All’insaputa di questa trattiene per qualche momento l’apparecchio e vi rinviene alcuni selfie che la giovane, minorenne, si era scattata in pose intime. L’imputato fotografa quindi con il proprio smartphone tali immagini, per poi inviarle – sempre all’insaputa della persona offesa – a un comune amico, che a sua volta le diffonde in un gruppo whatsapp composto da una ventina di soggetti. Questi divulgano le immagini tramite altri canali, finché la persona offesa non se ne avvede e, tramite il padre, presenta denuncia.

Il Pubblico Ministero di Salerno propone l’azione penale unicamente nei confronti dello studente universitario. A questi viene contestata la cessione di materiale pedopornografico (art. 600 ter, comma 4, c.p.) e l’appropriazione indebita dei selfie della persona offesa (art. 646 c.p.). Il giudice dell’udienza preliminare assolve tuttavia l’imputato con riguardo ad entrambi i capi (G.U.P. Salerno, sent. 19 ottobre 2017, inedita). Il comma 4 dell’art. 600 ter rinvia infatti al “materiale pornografico di cui al primo comma”, ovverosia al materiale realizzato “utilizzando minori di anni diciotto”. Recenti pronunce della Cassazione hanno sancito a proposito come tale “utilizzazione” vada intesa nel senso di richiedere che il produttore di tali scatti sia persona diversa dal minorenne ritratto (Cass., sez. III penale, sent. 18 febbraio 2016, dep. 21 marzo 2016, n. 11675, pres. Amoresano, rel. Mengoni; Cass., sez. III penale, sent. 11 aprile 2017, dep. 13 luglio 2017, n. 34357, pres. Cavallo, rel. Macrì)[1]. Qualora le immagini siano state in origine liberamente autoscattate dal minore, come nel caso di specie, tale requisito d’alterità non sussiste, con conseguente irrilevanza delle stesse nell’ambito dell’art. 600 ter c.p. Con riguardo al secondo capo d’imputazione, il G.U.P. ritiene che i selfie della persona offesa non possano essere oggetto di appropriazione, non essendo cose materiali passibili di impossessamento e anche in quanto la giovane era rimasta nella disponibilità degli stessi[2].

Tale decisione non viene condivisa in sede d’appello (C. app. Salerno, sent. 14 marzo 2019, inedita). Nel chiedersi se l’imputato abbia ceduto immagini pedopornografiche realizzate utilizzando la minore non andrebbe indagato il momento in cui queste sono originariamente giunte ad esistenza, tramite l’autoscatto della persona offesa, bensì il momento del nuovo scatto fotografico ad opera dell’imputato. Di conseguenza, questi è stato condannato per il reato di cui al quarto comma dell’art. 600 ter c.p. La Corte d’appello condanna pure per il reato di appropriazione indebita, nonostante su tale profilo il P.M. non avesse presentato appello.

 

3. Al centro della decisione analizzata si pone la corretta interpretazione dei richiami interni all’art. 600 ter c.p., su cui la Cassazione è più volte intervenuta negli ultimi anni. Il caso in esame, come i giudici della Suprema Corte osservano, risulta pertanto emblematico “dell’assenza di una stabilizzazione delle interpretazioni in materia”.

La sentenza si apre ricordando ampiamente gli sviluppi che hanno portato al testo normativo vigente, e sottolineando il ruolo che, a riguardo, hanno avuto gli atti dell’Unione europea (in primis la decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio e quindi la direttiva 2011/93/UE) e le specifiche indicazioni internazionali (in particolare il Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti dei bambini, ratificato nel 2002, e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali, c.d. di Lanzarote, ratificata nel 2012)[3].

In particolare il concetto di utilizzazione del minore, di cui al primo comma, è stato negli anni oggetto di importanti interventi giurisprudenziali e legislativi. La formulazione originaria dell’art. 600 ter c.p., risalente alla l. 269/1998, richiedeva che il minore venisse “sfrutta[to]”. Tale concetto, inizialmente interpretato nel senso di richiedere l’uso del minore con finalità lucrative, fu oggetto di lì a poco di una pronuncia a sezioni unite (Cass., SS.UU. pen., sent. 5 luglio 2000, dep. 31 maggio 2000, n. 13, pres. Vessia, rel. Onorato). Queste si espressero contro tale lettura restrittiva, richiedendo tuttavia – per l’integrazione della fattispecie – la presenza di un pericolo concreto di diffusione del materiale. Nel 2006 il legislatore fece propria tale ampia lettura del concetto di sfruttamento, sostituendo tale potenzialmente equivoco termine con quello di “utilizzazione”[4]. Ulteriori interventi normativi hanno avuto luogo negli anni a seguire. Per quanto qui di rilievo, nel 2016 e 2017 fu la stessa sezione terza della Suprema Corte a stabilire che requisito logico di tale “utilizzazione” fosse che a realizzare il materiale pornografico sia una persona terza, e non l’offeso stesso (Cass., sent. 11675/2016, cit., confermata da Cass., sent. 34357/2017, cit.). Qualora le immagini vengano realizzate dal minore stesso in modo “autonomo, consapevole, non indotto o costretto”, non sarebbe infatti possibile rinvenire alcuna sua “utilizzazione”.

Tale requisito di alterità tra l’autore dello scatto e la persona minore ritratta si riverbera all’interno di tutta la disposizione, facendo i capoversi riferimento al “materiale pornografico di cui al primo comma”. Conseguenza di ciò, sostiene la Cassazione nel 2016 e nel 2017, è che – affinché si possano applicare le fattispecie previste nei capoversi – oggetto del reato non dovrebbe essere “materiale pornografico minorile ex se, quale ne sia la fonte, anche autonoma, ma soltanto materiale alla cui origine vi sia stato l’utilizzo di un infradiciottenne – necessariamente da parte di un terzo – con il pericolo di diffusione dello stesso” (Cass., sent. 11675/2016, cit.). Si noti a riguardo la particolare interpretazione adottata, nel procedimento qui oggetto d’analisi, dalla Corte di appello salernitana, la quale sostiene che per verificare tale utilizzazione non andrebbe indagato il momento in cui le immagini sono originariamente giunte ad esistenza, bensì il momento del nuovo, indebito scatto fotografico ad opera dell’imputato. Quest’ultimo è stato infine condannato per il reato di offerta o cessione di materiale pedopornografico di cui al comma 4 dell’art. 600 ter c.p. A parere di chi scrive, tuttavia, qualora si accetti tale lettura si sarebbe dovuti giungere alla diversa conclusione che l’imputato, nel momento in cui ha fotografato i selfie della giovane, abbia prodotto materiale pedopornografico ex comma primo, condannandolo pertanto per tale reato e non invece per la meno grave previsione del quarto comma[5].

La Cassazione, nella sentenza qui in commento, osserva come la dottrina abbia lodato l’aderenza al testo normativo dei suoi precedenti arresti giurisprudenziali, lamentando però al contempo il grave vuoto di tutela in cui versa la diffusione illecita dei materiali autoprodotti. Il sempre più diffuso fenomeno del c.d. “sexting”, ovvero l’autoproduzione di immagini intime e il loro scambio consensuale con altri soggetti, inverte infatti il momento di strumentalizzazione del minore: rispetto ai casi di pedopornografia come tradizionalmente intesi, esso si sposta dal momento della produzione a quello dell’eventuale diffusione non consensuale dell’immagine[6]. Qualora si escluda che l’illecita distribuzione di scatti intimi autoprodotti possa rientrare nell’alveo dell’art. 600 ter c.p., risulta arduo punire adeguatamente tali condotte, pur perniciosissime per il minore. Su tale scorta, il G.U.P. del caso in esame aveva assolto l’imputato, nonostante le evidenti conseguenze rovinose per la minore, le cui immagini intime erano finite in possesso di decine di conoscenti e terzi.

Per ovviare a tale lacuna, la Cassazione propone ora una nuova lettura della disposizione. Mentre viene confermato il requisito dell’alterità (solo) con riguardo alle condotte di produzione di cui al primo comma, si rigetta invece l’interpretazione precedentemente data in relazione al riferimento che a tale comma fanno i capoversi successivi. Tali richiami, infatti, non si riferirebbero alla condotta delittuosa del primo comma, bensì soltanto all’oggetto materiale del reato: si intende dunque richiamare “il materiale pedopornografico prodotto e non il reato di produzione di materiale pedopornografico”. Conseguentemente, nell’ambito dei capoversi non deve rilevare la modalità di produzione delle immagini pedopornografiche, che possono pertanto essere tanto eteroprodotte quanto autoprodotte dal minore.

A ragione di tale profondo revirement giudiziario, i giudici ricordano che una definizione normativa di “pornografia minorile” è stata introdotta nel testo dell’art. 600 ter soltanto nel 2012[7]. I richiami al primo comma intendevano pertanto permettere, prima di tale innovazione legislativa, una chiara identificazione dell’oggetto del reato, non proponendosi invece di restringere la portata applicativa della disposizione. Al contempo, viene evidenziato come le sezioni unite (Cass., SS. UU. pen., sent. 31 maggio 2018, dep. 15 novembre 2018, n. 51815, pres. Carcano, rel. Andronio)[8] abbiano recentemente affermato l’unitarietà del concetto di materiale pedopornografico di cui alla definizione del 2012, che esplica pertanto effetti con riguardo all’intera normativa. Tale sentenza viene menzionata anche in quanto ha espunto il requisito del pericolo di diffusione del materiale, elaborato con la citata sent. SS.UU. 13/2000, e ha sancito, in un obiter dictum, la liceità della “pornografia domestica minorile”. Quest’ultima andrebbe infatti ricondotta all’autonomia privata sessuale dei minorenni, qualora abbia luogo tra soggetti che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale, all’interno di un rapporto privo di abusività, e i materiali realizzati siano unicamente a uso privato delle persone coinvolte. In tale campo, il discrimine non sarebbe pertanto – sottolinea la Corte nel 2018 – il consenso del minore in quanto tale, ma la configurabilità o meno dell’utilizzazione dello stesso. A riguardo, i giudici della sentenza in commento notano tuttavia come, con riguardo al ruolo dell’eventuale consenso del minore alla realizzazione delle immagini, finora considerato irrilevante, non sia da escludersi in futuro un maggiore approfondimento giurisprudenziale. In aggiunta, viene osservato come già ora la disposizione punisca condotte in cui il requisito dell’alterità non si rinviene: la realizzazione di spettacoli pornografici, punita al primo comma assieme alla creazione di materiale pornografico, potrebbe infatti ben realizzarsi per il tramite di spettacoli autoprodotti dal minore.

I giudici si premurano infine di specificare che tale nuova interpretazione dell’art. 600 ter non integra né un’applicazione in malam partem della norma, né un overruling in malam partem, in quanto era ragionevole che il dato normativo potesse venir letto in tal senso e non si era formato a riguardo un consolidato orientamento giurisprudenziale. La Cassazione conferma pertanto la decisione di appello, annullandola soltanto con riguardo alla condanna per appropriazione indebita, non essendo la relativa assoluzione in primo grado stata oggetto di impugnazione.

 

4. La sentenza appare lodevole per lo sforzo di porre rimedio a un grave vuoto di tutela con riguardo all’illecita diffusione di immagini intime autoscattate dalla persona offesa. Prima dell’introduzione, nell’estate 2019, dell’art. 612 ter c.p., tale condotta era priva di adeguata sanzione. La lettura dei richiami interni all’art. 600 ter c.p., data dalla stessa sezione della Cassazione nel 2016 e 2017, impediva infatti di ricondurle alle fattispecie di contrasto alla pedopornografia. A riguardo potevano forse venire invocate altre disposizioni, ad es. il trattamento illecito di dati personali (art. 167 codice privacy) o l’accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615 ter c.p.). Tali norme si propongono tuttavia di tutelare specificamente altri beni giuridici, sicché la presenza degli elementi richiesti per la loro integrazione non è affatto scontata. Evidente è tuttavia la gravità di tali condotte per il/la minore, che ritrova proprie immagini intime – destinate a rimanere segrete o tutt’al più condivise all’interno di un rapporto sentimentale – alla mercé di decine di persone, conosciute e non, e mai più rimuovibili dalla rete. Una possibilità sanzionatoria da poco esistente è offerta dall’art. 612 ter c.p. (rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”), pur non prevedendo tale norma  un’aggravante qualora la vittima sia un minore[9]. Tale disposizione non era tuttavia applicabile al caso oggetto di esame, non esistendo al momento dei fatti di causa.

La coraggiosa scelta della Corte di rivedere profondamente un proprio recente orientamento, sì da dare tutela a tali situazioni, è pertanto da apprezzare. Non sono tuttavia da tacere le difficoltà interpretative che i giudici hanno dovuto affrontare per superare il dato testuale della disposizione. In tal senso essi si richiamano agli sviluppi storici della fattispecie per sostenere che il legislatore, con i richiami “al materiale pornografico di cui al primo comma”, non volesse restringere l’ambito di applicabilità della disposizione alle sole immagini c.d. eteroprodotte. Si tratta, chiaramente, della volontà astratta del legislatore, e non delle intenzioni del legislatore storico che ha concretamente adottato la disciplina. Pare infatti a chi scrive che il Parlamento non abbia in dettaglio esaminato le specificità che la sempre più diffusa autoproduzione di immagini pornografiche da parte dei minori presenta, invertendo tale situazione – come anche la Corte ricorda – il momento dell’offensività: non è tanto la realizzazione consensuale del materiale pornografico ad essere lesiva degli interessi del minore, quanto la sua illecita diffusione. Opposta è invece la situazione nelle costellazioni “tradizionali” di pedopornografia, dove correttamente è la produzione a venire più seriamente punita (da sei a dodici anni di reclusione) rispetto all’eventuale diffusione o cessione (da uno a cinque anni nel caso del comma 3, e fino a tre anni nel caso di cessione ex comma 4; tali condotte vengono inoltre assorbite nella più grave ipotesi di cui al primo comma, qualora a commetterle sia lo stesso soggetto). A conferma di tale disinteresse del legislatore, e forse anche di un’eccessiva idealizzazione del minore, l’Italia non ha voluto implementare la clausola di non punibilità per il sexting consensuale, prevista dall’art. 3 comma 3 lit. b della decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio dell’UE, dall’art. 20, para. 3, della Convenzione di Lanzarote, e dall’art. 8 comma 3 della direttiva 2001/93/UE.

Non si può neanche tacere che l’interpretazione che la Cassazione qui dà dei richiami interni all’articolo consiste in sostanza in un’interpretatio abrogans. Se da un punto di vista storico si può essere d’accordo che i riferimenti al materiale “di cui al primo comma” volevano inizialmente determinare l’oggetto del reato, compito che a seguito della novella del 2012 è stato assunto dalla definizione legale di cui all’ultimo comma, e se pure sembra ragionevole sostenere che il legislatore del tempo abbia omesso di espungere tali riferimenti, rimane comunque un dato di fatto che essi sono tuttora compresi nella lettera della legge.

Necessario pare pertanto un intervento legislativo in materia. Non soltanto per cancellare gli elementi sostanzialmente non più vigenti della fattispecie, ma anche per ulteriori ragioni di politica criminale. Fondamentale è infatti prevedere un quadro normativo coordinato, che si riveli effettivamente dissuasivo di tali gravi condotte e al tempo stesso assicuri coerenza tra le varie disposizioni penali interessate a proposito. Si pensi, innanzitutto, all’apparato sanzionatorio. Mentre il quarto comma dell’art. 600 ter c.p. prevede – con riguardo all’offerta o cessione di materiale pedopornografico – la reclusione fino a tre anni e la multa fino a 5.164 euro, il 612 ter c.p. punisce la cessione di materiali sessualmente espliciti, a prescindere dall’età della persona offesa, con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 5.000 a 15.000 euro. Più in generale, è da chiarire il rapporto intercorrente tra l’art. 600 ter c.p. e l’art. 612 ter c.p. In seguito alla pronuncia appena commentata, che ha nuovamente ricondotto la diffusione o cessione illecita di immagini autoscattate dal minore nell’alveo dell’art. 600 ter c.p., ci si chiede infatti che ambito applicativo permanga a riguardo per l’art. 612 ter c.p. Pure da chiarire è come vada intesa pro futuro la clausola di salvaguardia ivi prevista (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato”): come visto, infatti, perlomeno con riguardo alla cessione il 612 ter c.p. prevede un trattamento sanzionatorio più severo. Un intervento normativo che ridefinisca sistematicamente la disciplina potrebbe inoltre dare seguito a ulteriori stimoli recentemente offerti a riguardo dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ad esempio in riferimento agli spazi di liceità della c.d. “pornografia minorile domestica” e all’invio non richiesto di immagini sessualmente connotate a minori di età[10].

Indiscutibile è la delicatezza della materia, e i relativi possibili abusi che a riguardo vanno prevenuti[11]. Proprio per tali ragioni, tuttavia, è importante che di tale questione si occupi, con equilibrio e informata determinazione, il legislatore democratico, evitando per quanto possibile un intervento casistico delle corti di merito e legittimità. La sentenza analizzata risulta pertanto emblematica della necessità di un intervento normativo che offra, in tale contesto, piena tutela ai minori di età, al contempo assicurando alla disciplina coerenza ed efficacia.

 

 

[1] Per un commento alla prima si veda Bianchi, Il “sexting minorile” non è più reato?, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2016, pp. 138-154.

[2] Il GUP accenna alla possibilità di far rientrare il fatto nell’alveo dell’art. 615 ter c.p., che punisce l’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, senza tuttavia approfondire ulteriormente tale possibilità.

[3] Sull’implementazione di tali disposizioni nei vari Stati membri dell’UE e del Consiglio d’Europa si veda l’utile raffronto proposto da Chatzinikolaou/Lievens, A legal perspective on trust, control and privacy in the context of sexting among children in Europe, Journal of Children and Media, 2019, p. 13.

[4] Su tali sviluppi si rimanda a Helfer, Sulla repressione della prostituzione e pornografia minorile, Cedam, Torino 2007, pp. 145 ss.

[5] Tale aspetto viene notato anche dalla Cassazione nell’annotata sentenza al pt. 6.5.

[6] Per tali osservazioni sia consentito rinviare già a Rosani, «Send nudes». Il trattamento penalistico del sexting in considerazione dei diritti fondamentali del minore d’età, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2019, p. 16.

[7] Con pornografia minorile si intende “ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali”. Tale definizione è stata introdotta con la l. 172/2012, che ha ratificato la Convenzione di Lanzarote.

[8] Per un commento si vedano Picotti, La pedopornografia nel Cyberspace: un opportuno adeguamento della giurisprudenza allo sviluppo tecnologico ed al suo impatto sociale riflessi nell’evoluzione normativa, in Diritto di Internet, 1/2019, pp. 187-192; Bianchi, Produzione di materiale pedo-pornografico: il nuovo principio di diritto delle Sezioni unite, in Archivio penale, 1/2019, pp. 1-25.

[9] Per una relativa lettura critica si veda Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di internet. L’art. 612-ter c.p. e l’incriminazione della pornografia non consensuale, Riv. it. dir. proc. pen., 4/2019, pp. 2045-2090.

[10] Con riguardo alla prima si veda la già citata Cass., SS. UU. pen., sent. 51815/2018; con riguardo al secondo aspetto, sebbene inquadrato in un più ampio contesto di violenza psicologica e minacce, compresa la richiesta di scatti intimi della persona offesa, Cass., sez. III penale, sent. 2 luglio 2020, dep. 8 settembre 2020, n. 25266, pres. Rosi, rel. Macrì, che ha confermato l’ordinanza che aveva applicato all’uomo la misura della custodia cautelare in carcere per violenza sessuale.

[11] A proposito si vedano, fra i vari, Salvadori, L’adescamento di minori, Giappichelli, Torino, 2018; Bianchi, I confini della repressione penale della pornografia minorile, Giappichelli, Torino, 2019.