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22 Maggio 2020


Aggressione di giornalisti da parte di un membro del clan Spada di Ostia: la Cassazione riconosce l'aggravante del metodo mafioso

Cass., Sez. V, sent. 13 novembre 2019 (dep. 20 febbraio 2020), n. 6764, ...



1. Con la pronuncia in epigrafe la Corte di Cassazione ha concluso la vicenda giudiziaria, oggetto di forte attenzione mediatica, relativa all’aggressione subita, nel corso di un’intervista, dal giornalista Daniele Piervincenzi e dal cineoperatore Edoardo Anselmi da parte di un membro della famiglia Spada di Ostia nel novembre 2017. L’aggressione è stata oggetto di notevole rilievo mediatico in quanto si innestava nell’ambito di un filone di inchiesta giornalistica che portava alla luce il diffuso ‘controllo mafioso’ del territorio ostiense da parte di taluni clan autoctoni con l’avallo della politica locale[1].

La sentenza, oltre a ribadire che, a determinate condizioni, siano configurabili delitti mafiosi anche in territori tradizionalmente non mafiosi, è occasione per chiarire il perimetro applicativo dell’aggravante oggettiva del c.d. metodo mafioso di cui all’art. 416 bis.1 c.p. (già art. 7, D.L. 13.5.1991, n. 152, conv. in L. 12.7.1991, n. 203)[2], differenziandola dall’aggravante di agevolazione dell’associazione mafiosa disciplinata dal medesimo articolo, oggetto della pronuncia resa nel dicembre 2019 a Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

 

2. In punto di fatto, la vicenda – come ricostruita dai gradi di merito – si sviluppa a Ostia nel novembre 2017. Una troupe Rai si reca presso una palestra locale, una tra le attività economiche gestite dagli Spada, per intervistare un membro della famiglia, Roberto, fratello del Carmine Spada già condannato per estorsione aggravata dal metodo mafioso. L’imputato, nel corso dell’intervista, dopo che il giornalista gli aveva rivolto alcune domande in ordine al sostegno palesato dallo stesso ad una forza politica in occasione delle consultazioni elettorali per il X municipio di Roma (Ostia), improvvisamente lo colpisce con una violenta testata sul setto nasale, che gli cagiona una frattura. Nel contempo un sodale – coimputato la cui posizione è stata successivamente stralciata – che spalleggiava l’intervistato aggredisce, colpendolo con calci, pugni e schiaffi, il cineoperatore che, caduto a terra, viene ulteriormente colpito a calci (capo d’imputazione A).

Inoltre, l’imputato insegue l’aggredito, colpendolo ripetutamente con un manganello, e proferendo frasi minacciose, costringendo così la troupe ad interrompere l’intervista ed allontanarsi velocemente dalla zona (capo d’imputazione B).

L’imputazione avallata dai gradi di merito del giudizio consiste, per il capo A), nel reato di lesioni personali aggravate ex artt. 582, 583 n.1, 585 c. p., e, per il capo B), nel reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p., aggravati dall’uso del metodo mafioso di cui all’art. 7 d.l. 152/91 (ora art. 416 bis.1 c.p.).

 

3. Per quanto qui di maggiore interesse, il ricorrente deduce che l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/91 sia stata erroneamente addebitata nei gradi di merito sulla base di indici presuntivi, occorrendo, invece, la prova della concreta esistenza di un sodalizio mafioso di cui il reo sia, quantomeno, partecipe. Inoltre, il ricorrente si duole per la mancanza di riscontri estrinseci alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, e comunque l’inattendibilità degli stessi, nonché per la violazione del divieto di bis in idem, essendo stata la stessa condotta sanzionata sia come lesioni che come violenza privata.

 

4. La Suprema Corte rigetta in toto le doglianze della parte ricorrente e coglie l’occasione per ribadire un orientamento già consolidato in giurisprudenza: l’aggravante del metodo mafioso attiene esclusivamente al comportamento oggettivo ed esteriorizzato dell’agente; ex adverso, non dipende dalla percezione soggettiva della persona offesa, né, però, all’opposto, presuppone l’esistenza di un’organizzazione mafiosa come invece postulato dall’aggravante di agevolazione mafiosa

Il principio di diritto contenuto nella sentenza in esame è il medesimo enunciato nel procedimento di gravame avverso la misura cautelare applicata allo stesso imputato, ossia: per configurare l’aggravante dell’utilizzazione del metodo mafioso, prevista dall’art.7 d.l. 13 maggio 1991 n.152 (conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203), non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa.

 

5. La comprensione dell’arresto oggetto di commento presuppone un breve approfondimento sull’ art. 416 bis.1 c.p., articolo che dal 2018, con la riforma della riserva di codice, disciplina organicamente nel codice penale le numerose circostanze ’mafiose’, prima disseminate nella legislazione speciale. In particolare, il comma 1 dell’articolo in esame (già art. 7, D.L. 13.5.1991, n. 152, conv. in L. 12.7.1991, n. 203) punisce più severamente colui che si sia avvalso delle condizioni previste dall'articolo 416 bis, ovvero abbia agito al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.

Tale disposizione, comunemente definita aggravante del metodo mafioso, disciplina, leggendo con attenzione, due aggravanti, entrambe comuni e ad effetto speciale, nonché accomunate dall’ambito di operatività limitato ai soli delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo. È opportuno un preliminare cenno all’ambito soggettivo, comune alle due circostanze, per poi soffermarsi sull’ambito oggettivo che richiede una disamina individuale.

5.1 Circa l’ambito soggettivo di applicazione della norma, il dibattito ermeneutico[3] vede tradizionalmente contrapposti due orientamenti. Una tesi restrittiva esclude l’applicabilità dell’aggravante al soggetto, già condannato ex art. 416 bis c.p. per il reato associativo, che sia responsabile altresì di delitti-fine realizzati con metodo mafioso: gli interpreti aderenti a tale orientamento ritengono che ammettendo il cumulo si sanzionerebbe due volte la stessa condotta. Altra tesi, invece, ritiene possibile il cumulo della sanzione per l’associazione e dell’aumento di pena dovuto all’aggravante del metodo mafioso nella commissione del reato-fine in quanto la responsabilità per il delitto fine è pienamente autonoma da quella per il reato associativo, e la sua commissione esprime un autonomo disvalore di azione e di evento. Questa seconda tesi è stata poi accolta dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella nota sentenza Cinalli del 2001[4], che ha riconosciuto l'applicabilità dell'aggravante, in entrambe le versioni, anche all'associato. È importante chiarire che questo, secondo l’opinione maggioritaria, non comporta un’automatica applicazione dell’aggravante ai membri dell’associazione per i reati-fine. Dottrina e giurisprudenza maggioritaria, infatti, precisano che mentre nell’accertamento dell’imputazione per associazione mafiosa il "metodo mafioso" e l' "agevolazione mafiosa" vanno riferiti all’attività complessiva dell’organizzazione, per la contestazione dell’aggravante nel delitto-fine essi devono essere riscontrati nella specifica condotta criminosa. Sugli indici di riscontro di tale metodo ci si soffermerà diffusamente in prosieguo.

 

5.2 Una delle due aggravanti consiste nello scopo di agevolare, con il delitto posto in essere, l'attività dell'associazione. Sulla natura di tale circostanza si è molto discusso[5]. Il dibattito è sostanzialmente riducibile a due tesi contrapposte, una soggettiva ed un’altra oggettiva.

Secondo i sostenitori della tesi tradizionale[6], si tratta di una circostanza di carattere oggettivo poiché riguarda una modalità dell'azione rivolta ad agevolare l'attività dell'associazione mafiosa.

Secondo gli orientamenti ermeneutici più recenti[7], si tratta di una circostanza di carattere soggettivo in quanto attinente all’elemento psicologico del reato. In tale ambito si distinguono, poi, posizioni che vi ravvisano un dolo intenzionale da quelle che vi ravvisano un dolo specifico. È importante sottolineare che la Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno da ultimo, nel dicembre 2019, riconosciuto natura soggettiva all'aggravante, in quanto inerente ai motivi a delinquere e caratterizzata da dolo specifico.

Il corollario di tale impostazione teorica è che, in caso di concorso di persone nel reato, è applicabile l'aggravante anche al concorrente non animato dallo scopo di agevolazione, ma solo se sia consapevole dell'altrui finalità di agevolare l'associazione mafiosa.

 

5.3 L’altra aggravante disciplinata dalla norma in esame, di metodo mafioso in senso stretto, consiste nell’avvalersi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. per la commissione del reato. Essa è tradizionalmente considerata di carattere oggettivo[8], cioè si ritiene che attenga alla concreta modalità di realizzazione delle attività delittuose che ne costituisce il presupposto applicativo. La norma determina per relationem tali modalità, rinviando all’art. 416 bis c.p., dal quale, secondo alcuni autori, critici sulla tale tecnica di tipizzazione indeterminata[9], mutua una patologica indeterminatezza.

I profili caratterizzanti dell'azione propria dell'associazione di tipo mafioso sono specificati dal terzo comma dell’art. 416 bis c.p., e consistono nell'impiego della forza di intimidazione del vincolo associativo e nella condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, mentre gli ulteriori aspetti presi in considerazione dall'art. 416 bis non assumono valore qualificante[10].

La forza di intimidazione viene tradizionalmente definita come capacità di un’organizzazione o di un singolo di incutere timore in base all'opinione diffusa della sua forza e della sua predisposizione ad esercitare sanzioni o rappresaglie. Quanto maggiore essa è, tanto più ingenera insicurezza, inferiorità soggezione e vera e propria condizione di assoggettamento.

Dal ricorso alla forza intimidatrice deve derivare una condizione di assoggettamento e omertà: l'uno e l'altra rappresentano "le due facce di una stessa medaglia" e si differenziano per il riferimento dell'assoggettamento ad uno stato di sottomissione e di soccombenza che si manifesta nelle potenziali vittime dell'intimidazione; mentre l'omertà si concretizza in un comportamento caratterizzato dal favoreggiamento, dalla reticenza e dal rifiuto generalizzato a collaborare con la giustizia.

E’ discusso se possa parlarsi di piena coincidenza tra la tipizzazione delle condotte associative di cui all’art. 416 bis c.p. e la tipizzazione dell’aggravante che alle stesse fa riferimento.

A fronte di posizioni minoritarie che tendono a sovrapporre tout court i presupposti applicativi dei due istituti, la dottrina prevalente[11] individua una profonda differenza nel fatto che tali elementi strutturali nell’ambito dell’imputazione associativa vanno riferiti ad un’attività associativa complessivamente considerata, e non ai singoli reati fine dell’associazione, mentre nel caso dell’aggravante essi vanno rapportati alla fattispecie delittuosa concreta verificatasi. In punto di prova deriva l’importante conseguenza che non è sufficiente dimostrare la generale capacità intimidatrice dell’associazione ed il generico contesto omertoso, ma è necessario dimostrare che proprio la condotta imputata sia connotata, per le modalità concrete di esecuzione, da capacità intimidatrici ed abbia ingenerato intimidazione nelle persone offese ed una reazione omertosa negli astanti.

Da queste considerazioni deriva un’ulteriore osservazione, e cioè che il metodo mafioso, secondo un’opinione univoca in dottrina e ampiamente diffusa in giurisprudenza, non può essere contestato esclusivamente sulla base dell’effetto psicologico sulla vittima. Tale corollario è particolarmente rilevante in punto di prova laddove si tratti di coercizione derivante dal contesto ambientale (c.d. mafia silente)[12]: l’aggravante non può essere contestata se in concreto non vi sia stata esteriorizzazione da parte del soggetto agente di condotte specificamente evocative di forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo. In altre parole, non vi è automatismo applicativo della circostanza nel caso di soggetti affiliati al clan, ma è sempre necessaria la concreta dimostrazione delle modalità dell’azione[13].

Resta da chiarire se sia necessaria la dimostrazione dell’esistenza di un clan mafioso di riferimento, accertata in via incidentale o in altro processo, o sia sufficiente l’evocazione della sua potenza intimidatrice. Su tale dubbio fa chiarezza la sentenza in commento.

 

7. Nell’arresto in esame la Corte, chiarito preliminarmente che l’aggravante venuta in considerazione nel caso di specie non è quella di agevolazione ma quella di metodo mafioso in senso stretto, offre una pregevole ricostruzione della ratio dell’istituto, ed arriva per tale via argomentativa all’enunciazione della sua natura oggettiva, ponendosi nel solco già tracciato da consolidata giurisprudenza.

Il presupposto sociale e criminologico considerato dal legislatore nella redazione delle norme di contrasto alla criminalità mafiosa, spiega la Corte, è quello delle forme di criminalità promananti da soggetti in grado di intimidire e coartare vittime – le quali acconsentono “spontaneamente” alle imposizioni dell’aggressore – per la fama criminale del contesto delinquenziale in cui si muovono. La capacità di resistenza della vittima viene meno di fronte ad un soggetto che ha alle spalle un manipolo di uomini pronti ad aiutarlo e vendicarlo, cosicché l’aiuto dello Stato si mostra inadeguato rispetto alla necessità di difesa.

In tale contesto sociale interviene lo Stato non solo con l’incriminazione delle associazioni di tale fatta, ma anche con l’aggravio di pena per i delitti che a tale atteggiamento antisociale altamente pericoloso ricorrono. La ratio dell’art. 7 (oggi art. 416 bis.1 c.p.) è, quindi, quella di contrastare l’atteggiamento di coloro che, partecipi o meno in reati associativi, si comportino ‘da mafiosi’, ostentino in maniera evidente condotte idonee ad esercitare sui soggetti passivi quella intimidazione – e conseguente coartazione – propria delle organizzazioni criminose [14]. Ciò in quanto anche tale tipo di criminalità, particolarmente aggressiva nelle metodologie di azione benché eventualmente non sorretta da un reale cartello criminale, alimenta il senso di sfiducia dei cittadini nella capacità statuale di controllo del territorio, di esercizio della iurisdictio e di tutela dei cittadini. Viene cioè minato il senso di fiducia nelle istituzioni che è la base della vita civile: vi è, quindi, un elevato disvalore di azione.

Così ricostruita la ratio della norma, la Corte ribadisce – in linea, come si è detto, con un orientamento ormai consolidato – che l’aggravante del metodo mafioso non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione ex art. 416 bis c.p., essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso, ed è applicabile tanto ai reati-fine commessi dai membri dell’organizzazione, quanto a reati posti in essere da soggetti estranei al sodalizio criminale[15].

D’altro canto, anche nella giurisprudenza meno recente è ricorrente l’affermazione secondo la quale la contestazione non presuppone necessariamente un’associazione di tipo mafioso costituita, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa[16]. Basta che l’associazione appaia sullo sfondo, poiché evocata dall’agente, sicché la vittima sia spinta ad adeguarsi al volere dell’aggressore – o ad abbandonare ogni difesa – per timore di più gravi conseguenze.

 

8. Il riflesso sul piano probatorio è immediato. Non occorre prova dell’esistenza di un’associazione, ma è sufficiente il riscontro di indici fattuali che rievochino la stessa: il carattere plateale e teatrale dell’aggressione, la presenza di un guardaspalle, ma anche e soprattutto la rivendica della potestà di controllare il territorio, la rievocazione di soggetti terzi, il contesto ambientale omertoso.

Nel caso di specie gli indici erano perfettamente visibili nella dinamica della vicenda, essendosi trattato praticamente del prototipo di aggressione mediante metodologia mafiosa: aggressione in luogo pubblico e durante le ore di luce, presenza di un guardaspalle, rievocazione di una collettività in grado di cooperare nell’aggressione, prospettazione della potestà d’imperio sul territorio, contesto ambientale fortemente omertoso, essendosi tutte le persone circostanze rifugiatisi al riparo nelle propri esercizi commerciali ed abitazioni, chiudendo gli usci e le finestre.

Questi indici esprimono appieno il metodo mafioso, che si basa sulla forza dell’intimidazione promanante dall’associazione malavitosa imperante sul territorio.

Non rileva che l’esistenza di un clan e l’adesione allo stesso non sia stata ancora accertata (nel caso di specie il processo sull’associazione era ancora in corso). Quello che conta è che il clan sia stato evocato nella specie e che tale evocazione sia stata effettuata per perpetrare il reato.

Sulla base di tali argomentazioni la Corte, riportandosi al principio di diritto già pronunciato anche in sede di gravame avverso la misura cautelare cui era sottoposto l’imputato, esclude che nel caso di specie sia stata erroneamente applicata la circostanza aggravante e, vista l’infondatezza degli altri motivi di gravame, rigetta il ricorso confermando l’impugnata sentenza.

 

 

 

[1] La vicenda processuale lambisce solo esternamente la questione assai delicata della contiguità tra politica e malavita organizzata. L’oggetto processuale di questo procedimento è unicamente l’aggressione con metodologia mafiosa, e non essendoci espresso intervento della Corte sulla contiguità tra i clan ostiensi e la politica locale, questione oggetto di altri procedimenti, si ritiene per sinteticità di trattazione di non affrontare tale tema rinviando per tutti in argomento a G. Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi, Roma, 2017.

[2] Per l’analisi dell’istituto si rinvia a E. Reccia, L’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 13 maggio 1991: una sintesi di “inafferrabilità del penalmente rilevante”, in Dir. pen. cont. Riv. trim., 2015, 2, p. 251 ss. In precedenza, si sono espressi sullo stesso tema L. Della Ragione, L’aggravante della “ambientazione mafiosa” (art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152), in F. Palazzo, C. E. Paliero (a cura di), Trattato teorico-pratico di diritto penale, XII, La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misura di prevenzione ed armi (a cura di V. Maiello), Torino, 2015, p. 69 ss.; E. Squillaci, La circostanza aggravante della c.d. agevolazione mafiosa nel prisma del principio costituzionale di offensività, in Arch. pen., 2011, p. 591 ss.; L. Tumminello, La mafia come metodo e come fine: la circostanza aggravante di cui all’art. 7 del d.l. 152/1991, convertito nella l. 203/1991, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2008, p. 903 ss.; G. De Vero, La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 42 ss; A. Alberico, L’aggravante dell’agevolazione mafiosa ed il problema della sua estensione concorsuale, in Leg. pen., 2017, p. 221 ss; Id., Alle sezioni unite la questione sulla natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Nota a Cass., Sez. II, ord. 10 settembre 2019 (dep. 4 ottobre 2019), n. 40846, in questa Rivista, 12/12/2019, pp. 127 e ss.

[3] Per una trattazione sintetica della questione di rinvia a M. Ronco (a cura di), Lombardo, voce Art. 416 bis in Codice penale commentato, Milano, 2020.

[4] Si tratta di Cass., Sez. un., 28/03/2001 Ud. (dep. 27/04/2001) Rv. 218377. Per un’approfondita disamina della questione si rinvia ad S. Ardita, Partecipazione all'associazione mafiosa e aggravante speciale dell'art. 7 D.L. n. 152 del 1991. Concorso di aggravanti di mafia nel delitto di estorsione. Problemi di compatibilità tecnico-giuridica e intenzione del legislatore, in Cass. pen., 2001 pag. 2662.

[5] Per un’accurata disamina del dibattito si rinvia ad A. Alberico, Alle sezioni unite la questione sulla natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, cit., pp. 127 e ss., S. Finocchiaro, La natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e il problema dell’estensione ai concorrenti: la questione rimessa alle Sezioni unite, in questa Rivista, 2019, 11, p. 49 ss, nonché a Lombardo, op. cit., p. 26.

[6] A favore della natura oggettiva dell'aggravante era la giurisprudenza tradizionale. Si veda: Cass., Sez. II, 11.3.2016, n. 13707; Cass., Sez. III, 3.6.2015, n. 25353; Cass., Sez. II, 5.12.2013, n. 51424; Cass., Sez. II, 20.12.2012-23.1.2013, n. 3428; Cass., Sez. VI, 30.5.2012, n. 24025; Cass., Sez.VI, 22.1.2009, n. 19802.

[7] Alla circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa la più recente giurisprudenza riconosce natura soggettiva. Si veda: Cass., Sez. II, 18.10-27.11.2018, n. 53142; Cass., Sez. VI, 8.11.2017-13.3.2018, n. 11356; Cass., Sez.VI, 19.12.2017-23.2.2018, n. 8891; Cass., Sez. VI, 6.11-4.12.2017, n. 54481; Cass., Sez. I, 15.11-30.11.2017, n. 54085; Cass., Sez. VI, 21.6.2017, n. 43890; Cass., Sez. VI, 9.5.2017, n. 31874; Cass., Sez. VI, 29.3.2017, n. 29816; Cass., Sez. VI, 19.4.2017, n. 25510. Conseguenza di tale assunto è l’applicabilità al concorrente solo previo accertamento che il medesimo abbia agito con lo scopo di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, o, comunque, abbia fatto propria tale finalità. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno da ultimo riconosciuto natura soggettiva all'aggravante, in quanto inerente ai motivi a delinquere e caratterizzata da dolo specifico (Cass., S.U., 19.12.2019-3.3.2020, n. 8545; per la remissione della questione alle Sezioni Unite: Cass., Sez. II, 10.9-4.10.2019, n. 40846).

[8] In tal senso si veda, da ultimo E. Reccia, op. cit., p. 253, concorde con C. De Robbio, op. cit., p 1617, e che richiama, in giurisprudenza Cass. Pen., sez. VI, n. 28017, del 26 maggio 2011, in De jure; Cass. Pen., sez. VI, del 2 aprile 2007, n. 21342. Nello stesso senso V. Carbone, Sull'aggravante del metodo mafioso (art. 7 L. 12 luglio 1991, n. 230) (nota a sentenza Cass. pen., Sez. I, 05 luglio 2011, n. 32980), in Giur. it., 2012, 6.

Si veda altresì A. Balsamo-Trizzano, la prova dell'aggravante del metodo mafioso e l'orizzonte culturale dell'interprete, (nota a sentenza Trib. Salerno, 06 agosto 2011), in Corriere Merito, 2012, 7, che rinviano a Cass., Sez. I, 4 novembre 2011, n. 5881, Giampà, CED 251830. Nello stesso senso Lombardo, op. cit., p. 25, che richiama in giurisprudenza di merito Trib. Napoli 19.2.2010.

[9] Così E. Reccia, op. cit., p 253.

[10] In tal senso anche A. Balsamo-Trizzano, op. cit, p. 2.

[11] Per una trattazione ampia sulla questione e per l’analisi delle diverse tesi si rinvia a E. Reccia, op.cit., p. 254 e ss, nonché a A. Balsamo-Trizzano, op. cit., p. 3.

[12] Sulle problematiche relative all’accertamento del metodo mafioso ai fini dell’imputazione per 416 bis c.p. in caso di cellule delocalizzate che operano in maniera c.d. silente avvalendosi della forza intimidatrice del gruppo di appartenenza, e sui relativi contrasti giurisprudenziali si rinvia a D. Perna, Manifestazione del metodo mafioso e c.d. mafia silente (Nota a Cassazione penale, 04 aprile 2017, n.24851, sez. II) in Ilpenalista.it, 24 luglio 2017; sempre in tema di mafia delocalizzata e metodo mafioso si veda G. Amarelli, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza: accordi e disaccordi sul metodo mafioso (Nota a Cass. sez. VI pen. 28 dicembre 2017, n. 57986; Trib. Roma sez. X pen. 16 ottobre 2017, n. 11730) in Giur. it., 2018, fasc. 4, pp. 956-965.

[13] Tra le altre, si rinvia a Cass., Sez. VI, 16 maggio 2007, n. 23153, CED 237091.

[14] La medesima ratio è rinvenuta da Cass., Sez. 6, Sent. n. 582 del 19/02/1998 Cc. (dep.09/04/1998), Rv. 210405-01.

[15] In tal senso già Cass., Sez. 6, n.41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271103.

[16] Cass., Sez. 2, n.36431 del 02/07/2019, Bruzzese, Rv. 277033; Cass. Sez. 2, n. 49090 del 04/11/2011 dep. 2012, Giampà, Rv 251830.