Cass., Sez. VI, ord. 17 novembre 2020 (dep. 23 febbraio 2021), n. 7021, Pres. Fidelbo, rel. Silvestri
1. Con l’ordinanza in esame la sesta sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso alle sezioni unite la seguente questione «se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo o del profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la “prova” della derivazione del denaro da un titolo lecito».
L’interrogativo non rappresenta una novità nel panorama della giurisprudenza di legittimità: la Corte di cassazione – non di rado anche a sezioni unite – è infatti intervenuta più volte in materia di confisca diretta per tracciare il perimetro operativo della nozione di ‘profitto confiscabile’ e, più specificatamente, del profitto rappresentato da somme di denaro. Il quadro di riferimento – in ragione delle numerose pronunce della Suprema Corte – si presenta non poco frastagliato: con riferimento alla tematica del ‘profitto confiscabile’, le posizioni assunte dalla giurisprudenza insistono su una diversa definizione del nesso di pertinenzialità, alle volte inteso come derivazione eziologica diretta e immediata, talaltre invece come collegamento anche soltanto indiretto e mediato; in punto di confiscabilità delle somme di denaro, invece, la criticità riguarda la forma della misura ablatoria, vale a dire se quest’ultima debba assumere le sembianze della confisca diretta o della confisca di valore.
L’ordinanza in commento, dunque, può rappresentare un’occasione ulteriore per cercare di fare chiarezza su un argomento caratterizzato tuttora da significative ambiguità, che la stessa Corte di cassazione rimettente non omette di evidenziare.
2. Prima di entrare nel merito delle motivazioni elaborate dalla Suprema Corte, è bene ripercorrere brevemente i fatti oggetto dell’ordinanza.
La vicenda riguarda la fase cautelare di un procedimento penale pendente presso il Tribunale di Salerno per il reato di cui all’art. 346-bis c.p. (‘traffico di influenze illecite’). Secondo quanto previsto dall’imputazione provvisoria, la persona sottoposta alle indagini – sfruttando la conoscenza di un giudice della Commissione tributaria di Salerno e di un funzionario dell’Agenzia delle entrate della medesima città – avrebbe fatto ottenere all’amministratore di una società una riduzione del quantum delle imposte dovute. In cambio dell’attività di intermediazione illecita, l’amministratore avrebbe consegnato all’indagato la somma di 175.000 euro, importo quest’ultimo che giaceva su due diversi conti correnti bancari intestati all’indagato e che – qualificato dall’autorità giudiziaria come profitto del reato – veniva sottoposto a sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta.
In sede di riesame il Tribunale confermava il vincolo cautelare reale per l’ammontare di 139.574,54 euro, ma – in parziale accoglimento delle richieste difensive – disponeva il dissequestro dell’importo di 35.425, 45 euro. Ad avviso dei giudici salernitani, la citata somma non era di derivazione illecita in quanto era stata versata sui conti correnti in un momento successivo alla commissione del reato[1].
Avverso il provvedimento del Tribunale del Riesame il difensore dell’indagato proponeva ricorso per Cassazione, articolando quattro diversi motivi. Quello di maggior interesse – nonché oggetto di scrutinio da parte dei giudici di legittimità nella presente ordinanza – è il primo: il ricorrente lamentava una violazione di legge nella parte in cui i giudici, da un lato, avevano disposto il sequestro del denaro a fini di confisca diretta e, dall’altro, si legge nell’ordinanza, qualificando le somme in questione come risparmi di spesa avevano di fatto attribuito al sequestro la valenza di misura cautelare per equivalente, omettendo peraltro di rilevare che al 31 dicembre 2015 (quindi prima della commissione del fatto delittuoso oggetto dell’imputazione provvisoria) giaceva sui conti correnti del denaro di provenienza lecita. A tal proposito, è la stessa Corte di cassazione che rileva il contraddittorio argomentare del Tribunale del riesame: per un verso, infatti, i giudici salernitani – in applicazione dei principi affermati dalle sezioni unite Lucci[2] – hanno ritenuto sequestrabile in via diretta il denaro depositato sui conti correnti sino al 31 dicembre 2016 (così non accogliendo la tesi difensiva per la quale il denaro giacente sui conti correnti prima di questo periodo fosse di derivazione non delittuosa); per un altro, invece, disponendo il dissequestro di alcune somme ritenute lecite (i.e. 35.425,45 euro), poiché depositate in un momento successivo alla consumazione del reato contestato, hanno di fatto derogato ai principi elaborati dalla summenzionata Corte di cassazione a sezioni unite (nuovamente sentenza Lucci).
In quest’ottica, si colgono i profili di interesse della questione formulata nell’ordinanza in commento, attraverso la quale i giudici di legittimità si interrogano sulla qualificazione del sequestro preventivo del denaro giacente su un conto corrente bancario qualora – non soltanto non vi sia la prova del collegamento causale tra denaro e attività delittuosa – ma l’indagato abbia altresì dimostrato la derivazione lecita delle somme. Con riferimento al caso di specie, peraltro, il quesito non è di scarso momento, dato che in relazione all’art. 346-bis c.p. non può applicarsi il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.
3. Venendo alla parte motiva dell’ordinanza, la Suprema Corte ricostruisce primariamente lo ‘stato dell’arte’ della giurisprudenza di legittimità in materia di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto del reato, confrontandosi dapprima con l’argomento della sequestrabilità delle somme di denaro e, successivamente, con la tematica più generale della nozione di ‘profitto confiscabile’.
Con riferimento alla sequestrabilità/confiscabilità del denaro, i giudici di legittimità espongono le note decisioni che la Corte di cassazione ha pronunciato sul punto. Secondo la prima delle sentenze menzionate nell’ordinanza, la confisca dovrebbe sempre essere qualificata come diretta in ragione della fungibilità del bene denaro, che, una volta versato sul conto corrente bancario, si confonde con le altre somme ivi depositate. Ciò renderebbe superflua la ricerca del nesso di pertinenzialità tra res e fatto delittuoso, sebbene, come noto, la confisca diretta si caratterizzi proprio in virtù del necessario collegamento eziologico tra reato e cose da sottoporre ad ablazione patrimoniale[3]. Secondo quanto sostenuto da questa pronuncia, infatti, ai fini dell’applicazione della confisca (diretta e mai per equivalente) «il denaro deve soltanto equivalere all’importo che corrisponde al prezzo o al profitto del reato»[4].
Una precedente decisione – sempre della Corte di cassazione a sezioni unite – pur ammettendo la confiscabilità del denaro in via diretta, aveva invece sostenuto che fosse comunque necessario dimostrare il collegamento causale tra il bene sequestrato (a fini di confisca) e il reato contestato[5]. In quest’ultima sentenza, differentemente da quanto prospettato dalle sezioni unite Gubert, l’argomento della natura fungibile del denaro non è utilizzato per dissolvere il requisito della ‘pertinenzialità’, bensì per affermare la sequestrabilità del denaro anche qualora non colpisca esattamente la medesima porzione di denaro percepita illecitamente, ma una somma corrispondente al relativo valore nominale, comunque riconducibile direttamente all’attività delittuosa[6].
In questo contesto intervengono le già citate sezioni unite Lucci, che in punto di sequestrabilità delle somme di denaro finiscono per condividere i principi elaborati nella sentenza Gubert: (i) il profitto, se costituito dal denaro, non appena entra nella disponibilità delle persona si confonde con il resto del suo patrimonio, così divenendo impossibile discernere materialisticamente le somme di denaro illecite da quelle (lecite) già possedute dall’indagato; (ii) per tale ragione, sostengono le sezioni unite Lucci, non è necessario un accertamento finalizzato a verificare se il denaro sia stato speso, occultato o investito; ciò che serve a giustificare l’apprensione delle somme per via diretta è che il patrimonio della persona sia aumentato per un valore corrispondente al quantum del profitto illecito; (iii) a ciò deve aggiungersi, peraltro, che l’assenza del nesso di pertinenzialità tra denaro e reato non è una ragione valida per sostenere una coincidenza di fatto tra confisca diretta e per equivalente, poiché a rilevare ai fini della confisca proprietaria è la prova della percezione illegittima e non la sua materiale destinazione[7].
4. Così ricostruite le posizioni assunte dalla giurisprudenza in merito alla questione della sequestrabilità a fini di confisca del denaro, i giudici di legittimità – con l’ordinanza in commento – si soffermano, in senso più generale, sulla nozione di ‘profitto confiscabile’[8].
La Suprema Corte, anche in questo caso, si premura di ricostruire gli aspetti essenziali della questione, enunciando i principi cardine elaborati dalla giurisprudenza nel corso degli anni. Come noto, emergono sostanzialmente due posizioni diverse: ad avviso di una prima tesi si ritiene che, ai fini dell’operatività di sequestro e confisca (diretta), per profitto debba intendersi ciò che derivi in via diretta e immediata dal reato[9]; per una seconda opinione, invece, il profitto dovrebbe altresì includere i beni appresi dal reo per effetto anche indiretto e mediato della sua attività delittuosa[10].
In proposito – e sul punto si tornerà più avanti – la Corte di cassazione prende posizione in favore del primo dei due orientamenti sopra richiamati, vale a dire quello che considera il profitto come un valore accrescitivo di derivazione diretta dal reato. Chiarito questo – può leggersi nell’ordinanza – ciò che deve essere valutato è se debba parlarsi di sequestro finalizzato alla confisca diretta anche qualora il beneficiario del denaro dimostri la liceità di quanto ricevuto, così facendo venire meno il collegamento eziologico tra reato e profitto[11].
5. L’analisi dei giudici di legittimità non omette di considerare alcune pronunce intervenute dopo la sentenza Lucci, che – senza mai porsi esplicitamente in contrasto con la predetta decisione – hanno ridefinito i contorni applicativi dei principi elaborati dalla Corte di cassazione a sezioni unite in merito alla sequestrabilità del denaro[12].
L’aspetto che viene messo in discussione, in particolare, riguarda l’assunto delle sezioni unite Lucci (e Gubert) per il quale, in ragione della natura fungibile del bene denaro, il sequestro preventivo ordinato in relazione a una tale forma di profitto sarebbe sempre finalizzato alla confisca diretta, venendo peraltro meno la necessità di dimostrare il nesso di pertinenzialità tra res delittuosa e attività illecita. In tal senso, si è affermato in queste più recenti decisioni che ai fini della disposizione della misura cautelare reale debba fornirsi la dimostrazione – e quindi un’adeguata motivazione nel provvedimento di sequestro – del rapporto di collegamento causale intercorrente tra reato e beni, in modo da evitare un’indiscriminata apprensione di somme di denaro non eziologicamente connesse all’attività criminosa[13]. Analogamente, numerose altre pronunce richiamate nell’ordinanza pongono un ‘argine’ all’operatività del sequestro preventivo delineato dalle sezioni unite Lucci e Gubert[14].
Tutte le citate sentenze si confrontano con un’evidente problematica emersa a seguito delle sezioni unite Lucci, vale a dire l’ambiguità connaturata a una confisca che – sebbene sia qualificata come diretta – non richiederebbe la prova del nesso di pertinenzialità tra attività delittuosa e profitto illecito. Il tentativo è quello di arginare la diffusione di un modello espropriativo atipico – che l’ordinanza in commento definisce come ‘confisca di denaro’ – diverso sia dalla confisca proprietaria, sia da quella di valore. Il modello confiscatorio, infatti, si connoterebbe per la totale indifferenza in merito alla dimostrazione del collegamento eziologico tra reato e denaro, nonché rispetto all’eventuale prova fornita dall’indagato circa la liceità delle somme sequestrate.
Una soluzione interpretativa di tal fatta – affermano i giudici di legittimità nell’ordinanza – determinerebbe peraltro una «completa sovrapposizione della confisca proprietaria con quella di valore, nel senso che quest’ultima, nel caso di confisca di denaro, non sarebbe mai configurabile»[15]. Sull’argomento si erano soffermate anche le sezioni unite Lucci, escludendo la coincidenza tra le due forme di confisca in ragione della ritenuta irrilevanza della individuazione materialistica del profitto illecito. Come già osservato, ai fini dell’ablazione patrimoniale rileverebbe esclusivamente la percezione illegittima del denaro, identificato nel suo accrescimento numerario della disponibilità patrimoniale del reo.
6. Conclusa l’analisi dei principi elaborati dalle sezioni unite Lucci, per come altresì interpretati dalla giurisprudenza successiva, la Suprema Corte fornisce una propria chiave di lettura degli argomenti[16].
I giudici di legittimità chiariscono anzitutto un’ambiguità latente in materia (nella quale erano vistosamente incorse le sentenze Gubert prima e Lucci poi): nesso di pertinenzialità e natura fungibile del bene denaro sono concetti strutturalmente autonomi. Il nesso di pertinenzialità attiene infatti al «giudizio di relazione» tra res e delitto, a nulla rilevando, invece, la fungibilità del denaro[17].
I giudici rimettenti – pur riconoscendo espressamente l’imprescindibilità per la confisca diretta del nesso di pertinenzialità – non abbandonano il tratto che caratterizza il modello confiscatorio del denaro, vale a dire l’assenza della derivazione eziologica della res dall’attività delittuosa. Al contrario, la Corte di cassazione avalla la forma ablativa così come strutturata dalle sezioni unite Lucci, facendo però salva la possibilità per il reo di evitare il vincolo cautelare giustificando la provenienza lecita delle somme di denaro. Così facendo, la Suprema Corte conia di fatto un meccanismo di natura presuntiva: in ragione della natura fungibile del denaro, si presume che le somme giacenti sul conto corrente dell’indagato coincidano con il profitto illecito che si vuole sequestrare. A voler utilizzare i termini dell’ordinanza, «si ipotizza cbe le somme giacenti siano, in quanto fungibili, “equivalenti”, sostitutive, “non diverse” rispetto a quelle che in un dato momento sono entrate nel patrimonio dell’indagato e che, al momento del sequestro, possono o non essere più in esso presenti ovvero presenti “altrove”»[18]. In altre parole, i giudici di legittimità – sempre valorizzando la natura fungibile del denaro – insistono sull’inutilità del nesso di pertinenzialità, ma valorizzano l’esistenza di una presunzione relativa, che consente all’indagato di fornire la prova della liceità delle somme sequestrate. Qualora questa prova venga fornita – si legge nell’ordinanza – potrebbe sequestrarsi il denaro soltanto in funzione della confisca per equivalente (che nel caso di specie, peraltro, non sarebbe consentita).
In conclusione, l’interrogativo sotteso alla questione rimessa alle sezioni unite attiene alla possibilità di ridefinire – senza attribuire alla confisca diretta natura punitiva – i principi elaborati dalle sezioni unite Lucci, mantenendo ferma l’assenza del collegamento causale tra profitto e reato, ma al contempo riconoscendo all’indagato il diritto di ‘difendersi provando’ (id est l’essenza della presunzione relativa). E più precisamente, ciò che si chiede di valutare alle sezioni unite è se la confisca diretta del denaro possa essere qualificata come misura di sicurezza o se, invece, in virtù dell’assenza del nesso di pertinenzialità, debba essere considerata sostanzialmente una pena, con tutto ciò che ne consegue in punto di delimitazione dello statuto garantistico convenzionale e costituzionale. Per rispondere al quesito – si osserva nell’ordinanza – è necessario domandarsi se una misura non formalmente riconosciuta come pena possa, in concreto, essere qualificata come tale. Se, dunque, oltre ad essere afflittiva – ossia pregiudizievole per chi la subisce – sia altresì punitiva, travalicando dunque l’effetto meramente ripristinatorio generalmente riconosciuto alla forma diretta di ablazione patrimoniale[19].
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7. La Corte di cassazione, con l’ordinanza in commento, ha il merito di interrogarsi – e quindi di rimettere una specifica questione alle sezioni unite – sulla ancora dibattuta materia della sequestrabilità a fini di confisca del denaro giacente sul conto corrente bancario del reo.
In argomento, uno dei più recenti e significativi approdi della giurisprudenza di legittimità, come osservato anche nel provvedimento qui analizzato, risale alle sezioni unite Lucci. Quest’ultime – sulla scia della precedente sentenza Gubert – hanno sostenuto che, in ragione della natura fungibile del denaro, tale bene dovrebbe essere sequestrato esclusivamente in funzione della confisca diretta (mai per equivalente), non occorrendo neppure la dimostrazione del nesso di pertinenzialità tra res e attività delittuosa. Ai fini della sequestrabilità delle somme, inoltre, a nulla varrebbe l’eventuale prova positiva fornita dall’indagato sulla legittimità del denaro oggetto del vincolo cautelare.
L’odierna Corte di cassazione non vuole mettere in discussione l’assetto portante dei principi elaborati con la sentenza Lucci: nella prospettiva fornita nell’ordinanza, infatti, permane l’irrilevanza del collegamento eziologico tra reato e denaro. L’intenzione, tuttavia, è quella di ridefinire la portata del principio, in modo da escludere l’operatività della confisca diretta – intesa quest’ultima quale misura di sicurezza – laddove il reo fornisca la prova positiva della liceità delle somme contestate.
8. Il proposito sotteso all’ordinanza in commento è sicuramente da apprezzare: l’assenza del nesso di pertinenzialità, unitamente all’irrilevanza dell’eventuale dimostrazione della liceità delle somme sequestrate, rendono l’ablazione diretta del denaro un’aporia del sistema confiscatorio. In questo senso, deve condividersi il ragionamento dell’odierna Corte di cassazione nella parte in cui discerne strutturalmente il tema del nesso di derivazione causale da quello della natura fungibile del denaro, che non può in alcun modo influenzare la sempre necessaria prova, in caso di confisca diretta, del collegamento eziologico tra bene e illecito penale (eventualmente anche nel suo accertamento meno rigoroso sostenuto dalla sezioni unite Miragliotta)[20].
9. Ciononostante, alcune brevi notazioni si ritengono necessarie. L’argomentare della Suprema Corte sembra rappresentare una ‘opera incompiuta’: le conclusioni delle motivazioni dell’ordinanza, infatti, non paiono rispecchiare appieno le premesse del ragionamento.
Il punto di partenza, come già osservato, si identifica con l’imprescindibile dimostrazione del nesso di pertinenzialità nel caso di sequestro disposto in funzione della confisca diretta. Si legge nell’ordinanza: «la verifica del nesso di derivazione (…) esprime un giudizio di relazione tra la cosa e il reato e nessuna norma sembra consentire di poterne prescindere»[21]. La considerazione seguente dei giudici di legittimità, tuttavia, non avalla quello che sembrerebbe suggerire il passaggio appena citato, vale a dire il ‘recupero’, rispetto alle sezioni unite Lucci, della prova del collegamento causale, bensì giustifica l’assenza del nesso di pertinenzialità in funzione – non tanto della natura fungibile del denaro, che appunto si staglia su un piano concettuale diverso – ma di un meccanismo definito come presuntivo. In altri termini, il carattere fungibile del denaro consentirebbe di presumere che, una volta entrato nella disponibilità del reo, questo provenga dal reato contestato, senza purtuttavia che gli organi inquirenti debbano dimostrare la derivazione eziologica dello stesso. Presunzione che in ogni caso è qualificata come relativa, affinché – afferma la Suprema Corte – sia compatibile con lo statuto di garanzie costituzionali e convenzionali riconosciuto per la confisca diretta quale misura di sicurezza. La persona alla quale vengono sequestrate le somme di denaro, dunque, potrà fornire la prova contraria (per utilizzare le parole dell’ordinanza: potrà ‘difendersi provando’), dimostrando la liceità del denaro oggetto del vincolo cautelare. È di tutta evidenza che un’interpretazione di tal fatta avvicinerebbe l’ablazione in forma diretta – pur nel silenzio del dato normativo – ai modelli confiscatori per sproporzione (i.e. confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p. e confisca di prevenzione ex art. 24, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), incentrati per l’appunto sulla presunta derivazione illecita delle utilità possedute dalla persona interessata e, conseguentemente, sull’onere gravante su quest’ultima di provare la legittimità delle somme.
L’opzione di insistere in questa direzione trova conforto, ad avviso dei giudici di legittimità, nella difficoltà di provare il collegamento diretto tra denaro e attività delittuosa; ciò perché il denaro – una volta entrato nel patrimonio del reo – si confonde con il resto delle disponibilità economiche. A tal riguardo, si ritiene tuttavia che la richiamata criticità operativa non dovrebbe essere aggirata elaborando in via interpretativa il meccanismo della presunzione relativa. Anche per il denaro, sebbene di natura fungibile, esiste la possibilità di riconoscere la connessione causale con il reato e, pertanto, ai fini dell’applicazione della confisca diretta (e quindi del relativo sequestro) questa strada deve essere percorsa[22]; in caso di esito negativo dell’accertamento del nesso di pertinenzialità, laddove sia possibile in relazione alla fattispecie incriminatrice, potrà disporsi il sequestro in funzione della confisca per equivalente.
9. L’ordinanza è meritevole di considerazione, inoltre, nella parte in cui argomenta sulla natura punitiva o meno del modello confiscatorio del denaro in quanto privo della dimostrazione del nesso di derivazione eziologica. In argomento, la Suprema Corte condivide quanto affermato in dottrina sulla distinzione concettuale tra termini utilizzati spesso come sinonimi, vale a dire ‘afflittiva’ e ‘punitiva’: nel primo caso si tratta di una misura che – sottraendo il profitto illecito – imprime un effetto pregiudizievole alla persona che la subisce, inteso quale «mera conseguenza dell’originaria acquisizione illecita» del denaro[23]; nel secondo, invece, la misura travalica l’effetto ripristinatorio tipico dell’ablazione patrimoniale, così infliggendo una vera e propria pena[24].
Nonostante la condivisibile distinzione tra ciò che è afflittivo e ciò che è anche punitivo, l’argomentare della Corte di cassazione rimettente sembra scontare un ‘limite’ di natura motivazionale. In primo luogo non sembra del tutto convincente l’impostazione dell’ordinanza laddove identifica come discrimen essenziale tra confisca diretta e di valore – e quindi della relativa disciplina ad esse applicabile – l’accertamento del nesso di derivazione della cosa dal reato. La confisca per equivalente, sebbene incida su beni completamente estranei all’attività criminosa, colpisce comunque un valore patrimoniale equivalente ai beni che si sarebbero dovuti sottrare tramite la confisca diretta. In questa prospettiva, la confisca di valore – determinando di fatto il ripristino dello status quo ante delictum – non pare aggiungere un quid pluris rispetto alla funzione dell’espropriazione in forma diretta[25]. Il risultato finale, in altre parole, è il medesimo: l’ammontare oggetto di ablazione coincide; ciò che cambia è l’oggetto su cui vertono le misure (per la confisca proprietaria i beni direttamente derivanti dal reato e, per la confisca per equivalente, i beni di egual valore ma estranei all’attività delittuosa). Come è stato osservato, inoltre, ancorare la natura punitiva di un modello confiscatorio alla sussistenza o meno del nesso di pertinenzialità significherebbe inquadrare un determinato statuto di garanzie sulla base di una circostanza del tutto casuale, vale a dire l’identificazione nel patrimonio del reo del profitto derivante direttamente dal delitto)[26].
In secondo luogo, i giudici di legittimità, vagliando unicamente il binomio pena/misura di sicurezza, omettono di considerare una soluzione di classificazione autonoma della confisca della ricchezza illecita, che potrebbe altresì favorire il superamento delle sopra rappresentate contraddizioni esegetiche[27]. Nella visione della Suprema Corte, infatti, l’unica alternativa alla qualificazione della confisca diretta del denaro come misura di sicurezza è quella di assegnare all’istituto natura sostanzialmente punitiva. Invero, parte della dottrina – criticando il tradizionale binomio pena/misura di sicurezza – ha riconosciuto l’autonomia dogmatica della confisca, declinata quale strumento di limitazione legittima del diritto proprietà sul presupposto che il reato non possa costituire un titolo valido di acquisto della proprietà[28]. In una simile prospettiva, lo statuto costituzionale e convenzionale delle garanzie non sarebbe composto dai principi tipici del diritto penale, bensì da quelli posti a salvaguardia del diritto di proprietà (i.e. artt. 24, 42, 111, co. 1, 2 e 6 cost., nonché artt. 6 CEDU, 1 prot. add. CEDU, 17 e 47 CFDUE).
10. In conclusione – nell’attesa dell’intervento della Corte di cassazione a sezioni unite, che potrebbe eventualmente rimodulare il ragionamento dei giudici rimettenti – dall’analisi del precipitato motivazionale dell’ordinanza in esame sembrerebbe emergere una duplice spinta argomentativa – in sé contraddittoria – tipica anche di altri recenti arresti giurisprudenziali in materia[29]. Da un lato, in nome dei canoni dell’efficienza e della semplificazione probatoria pare che non si vogliano mettere in discussione sino in fondo alcuni tratti caratterizzanti il sistema confiscatorio (nel caso di specie l’interpretazione fornita dalla prassi per cui in caso di denaro non si dovrebbe dimostrare la sussistenza del nesso di pertinenzialità); dall’altro, invece, nella consapevolezza dei connotati afflittivi della disciplina si cerca ugualmente di erigere degli ‘argini’ garantistici, in modo da evitare lo snaturamento della natura giuridica e del relativo statuto di norme applicabili alla confisca.
[1] L’indagato – si legge nell’ordinanza – aveva dimostrato che numerose movimentazioni bancarie avvenute sui propri conti correnti nel 2016 (anno di consumazione del reato contestato) rappresentassero degli accreditamenti di natura lecita (così ad esempio alcuni bonifici disposti da Equitalia); cfr. § 1, p. 3 dell’ordinanza.
[2] Cass. pen., sez. un., 26 giugno 2015 (dep. 21 luglio 2015), n. 31617, Lucci in Cass. pen., 2016, 1362 ss., con nota di F. Lumino, La confisca del prezzo o del profitto del reato nel caso di intervenuta prescrizione, ivi 1384 ss.
[3] Cass. pen., sez. un., 30 gennaio 2014 (dep. 5 marzo 2014), n. 10561, Gubert in Cass. pen. 2014, 2797 ss., con nota di G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse” delle sezioni unite in tema di sequestro a fini di confisca e reati tributari, ivi 2806 ss. In argomento si veda inoltre il commento critico di F. Mucciarelli, C.E. Paliero, Le Sezioni unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 4/2015, 246 ss.
[4] Nuovamente Cass. pen., sez. un., 30 gennaio 2014 (dep. 5 marzo 2014), n. 10561, Gubert, cit., 2801.
[5] Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2004 (dep. 9 luglio 2004), n. 29951, Focarelli, in Cass. pen., 2004, 3087 ss., che per l’applicazione della confisca richiede la sussistenza di una «stretta relazione» tra condotta illecita e bene da confiscare; così in dottrina A. Alessandri, Confisca nel diritto penale, in Dig. disc. pen., III, Torino 1989, 52. In termini meno rigorosi, invece, la più recente Cass. pen., sez. un., 25 ottobre 2007 (dep. 6 marzo 2008), n. 10280, Miragliotta, in Dir. pen. proc., 2008, 1295 ss., con nota di R. Lottini, La nozione di profitto e la confisca per equivalente ex art. 322-ter c.p., ivi 1300 ss.; con quest’ultima sentenza, i giudici di legittimità hanno ritenuto che possa essere confiscata una qualsivoglia trasformazione del denaro qualora sussista ugualmente un collegamento causale tra il denaro originariamente illecito e il derivato dal suo reimpiego e che questo sia soggettivamente attribuibile all’autore del reato.
[6] Cfr. ancora Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2004 (dep. 9 luglio 2004), n. 29951, Focarelli, cit., 3096-3097.
[7] Cfr. Cass. pen., sez. un., 26 giugno 2015 (dep. 21 luglio 2015), n. 31617, Lucci, cit., 1380 ss., nonché § 3, pp. 4-5 dell’ordinanza in commento.
[8] Cfr. § 5, pp. 6-7 dell’ordinanza.
[9] Nell’ordinanza si richiamano Cass. pen., sez. un., 3 luglio 1996 (dep. 17 ottobre 1996), n. 9149, Chabni, in Cass. pen., 1997, 971 ss., con nota di D. Carcano, Quando le Sezioni unite non vogliono decidere. Una complessa motivazione per una decisione non risolutiva riescono a fare chiarezza, ivi 977 ss.; Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2004 (dep. 9 luglio 2004), n. 29951, Focarelli, cit., 3087 ss.; Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2004 (dep. 9 luglio 2004), n. 29952, Romagnoli, in Cass. pen., 2004, 3097 ss.; Cass. pen., sez. un., 25 ottobre 2005 (dep. 22 novembre 2005), n. 41936, Muci, in Cass. pen., 2006, 1382 ss.; Cass. pen., sez. un., 25 ottobre 2007 (dep. 6 marzo 2008), n. 10280, Miragliotta, cit., 1295 ss.; Cass. pen., sez. un., 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654, Fisia Impianti, in Cass. pen., 2008, 4544 ss., con nota di L. Pistorelli, Confisca del profitto del reato e responsabilità degli enti nell’interpretazione delle sezioni unite, ivi 4562 ss.; Cass. pen., sez. un., 25 giugno 2009 (dep. 6 ottobre 2009), n. 38691, Caruso, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 777 ss., con nota di A.M. Maugeri, La confisca per equivalente – ex art. 322-ter – tra obblighi di interpretazione conforme ed esigenze di razionalizzazione, ivi 791 ss.; nonché Cass. pen., sez. V, 28 novembre 2013 (dep. 4 marzo 2014), n. 10265, Banca Italease s.p.a., in Cass. pen., 2014, 3234 ss., relativa alla qualificazione del profitto in termini di mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale della persona interessata; in argomento si vedano inoltre F. Mucciarelli, C.E. Paliero, Le sezioni unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, op. cit., 246 ss.
[10] A sostegno di questo orientamento si citano Cass. pen., sez. un., 30 gennaio 2014 (dep. 5 marzo 2014), n. 10561, Gubert, cit., 2797 ss. e Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2014 (dep. 18 settembre 2014), n. 38343, Thyssenkrupp, in Dir. pen. cont., 19 settembre 2014.
[11] Cfr. § 6, pp. 7-8 dell’ordinanza.
[12] Cfr. § 7, pp. 8-9 dell’ordinanza.
[13] Così Cass. pen., sez. VI, 20 marzo 2018 (dep. 20 aorile 2018), n. 17997, Bagalà, in CED Cass. pen., 2018; in senso sostanzialmente analogo – si legge nell’ordinanza – Cass. pen., sez. VI, 29 gennaio 2019 (dep. 29 febbraio 2019), n. 6816, Sena, in CED Cass. pen., 2019; non dissimile, inoltre, il principio affermato da Cass. pen., sez. III, 30 ottobre 2017 (dep. 27 febbraio 2018), n. 8995, Barletta, in CED Cass. pen., 2018, per il quale – laddove si abbia la prova che le somme di denaro non possano derivare dal reato – le stesse non dovrebbero essere sottoposte a sequestro finalizzato alla confisca diretta.
[14] Ex plurimis Cass. pen., sez. III, 9 febbraio 2016 (dep. 7 luglio 2016), n. 28223, Scarpellini, in ilPenalista.it, 8 settembre 2016, con nota di C. Santoriello, Meno facile procedere a sequestro preventivo di somme di denaro.
[15] Cfr. § 8, pp. 9-10 dell’ordinanza.
[16] Cfr. § 9-10, pp. 10 ss. dell’ordinanza.
[17] In questo senso le considerazioni di F. Mucciarelli, C.E. Paliero, Le Sezioni unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, op. cit., 254.
[18] Cfr. § 9, p. 11 dell’ordinanza.
[19] Cfr. § 10, p. 12 dell’ordinanza. Sui termini ‘afflittiva’ e ‘punitiva’ – riferiti alla misura patrimoniale – si veda S. Finocchiaro, Riflessioni sulla quantificazione del profitto illecito e sulla natura giuridica della confisca diretta e per equivalente, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 3/2020, 322 ss.; in argomento, inoltre, T. Trinchera, Confisca senza punire? Uno studio sullo statuto di garanzia della confisca della ricchezza illecita, Giappichelli, Torino, 2020, 369 ss., che, nella prospettiva della Corte EDU, riconosce il carattere sanzionatorio-punitivo nella parte in cui la sofferenza inferta con l’applicazione della misura sia finalizzata a punire il reo e non soltanto a ricostituire, in ottica ripristinatoria, lo status quo ante delictum.
[20] Sul fatto che la natura fungibile del denaro non possa giustificare l’esclusione del nesso di pertinenzialità, si vedano nuovamente F. Mucciarelli, C.E. Paliero, Le Sezioni unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, op. cit., 254; per un approfondimento sulle motivazioni della sentenza Miragliotta, si rimanda invece a T. Trinchera, Confisca senza punire? Uno studio sullo statuto di garanzia della confisca della ricchezza illecita, op. cit., 40 ss.
[21] Cfr. § 9, p. 10 dell’ordinanza.
[22] Cfr. F. Mucciarelli, C.E. Paliero, Le Sezioni unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, op. cit., 254.
[23] S. Finocchiaro, Riflessioni sulla quantificazione del profitto illecito e sulla natura giuridica della confisca diretta e per equivalente, op. cit., 330.
[24] Ibidem, 333. In proposito, si veda altresì T. Trinchera, Confisca senza punire? Uno studio sullo statuto di garanzia della confisca della ricchezza illecita, op. cit., 382 ss., ad avviso del quale la misura acquisisce carattere punitivo laddove riporti il reato “a somma meno uno” e non “a somma zero” come nel caso dell’effetto afflittivo-ripristinatorio.
[25] Per un approfondimento di questa opinione si veda F. Mucciarelli, Le confische nel codice penale e nella legislazione speciale, I profili generali, sub art. 240 c.p., in Codice delle Confische, a cura di T. Epidendio e G. Varraso, Giuffrè, Milano, 2018, 130 ss. Del medesimo avviso, inoltre, T. Trinchera, Confisca senza punire? Uno studio sullo statuto di garanzia della confisca della ricchezza illecita, op. cit., 125 e S. Finocchiaro, Riflessioni sulla quantificazione del profitto illecito e sulla natura giuridica della confisca diretta e per equivalente, op. cit., 338-339. Deve tuttavia segnalarsi che l’orientamento di gran lunga maggioritario, sia in dottrina che in giurisprudenza, ritiene che la confisca per equivalente sia una pena proprio in virtù dell’assenza del nesso di pertinenzialità.
[26] Così F. Mucciarelli, Le confische nel codice penale e nella legislazione speciale, I profili generali, sub art. 240 c.p., op. cit., 132-133.
[27] Per questa tesi si veda il lavoro di T. Trinchera, Confisca senza punire? Uno studio sullo statuto di garanzia della confisca della ricchezza illecita, op. cit., in particolare le pp. 375 ss.
[28] Ibidem, 390 ss.
[29] Così ad esempio Cass. pen., sez. I, 11 ottobre 2019 (dep. 17 gennaio 2020), n. 1778, in Cass. pen., 2020, 3839 ss. in materia di confisca allargata. I giudici di legittimità, in particolare, hanno sostenuto l’irretroattività del ‘divieto probatorio’ di giustificare la legittimità della ricchezza adducendo redditi non dichiarati al fisco. In proposito, si veda il commento di A.M. Maugeri, Un ulteriore sforzo della Suprema Corte per promuovere uno statuto di garanzie nell’applicazione di forme di confisca allargata: art. 240-bis c.p., irretroattività e divieto di addurre l’evasione fiscale nell’accertamento della sproporzione, in questa Rivista, 4/2020, 203 ss.