Cass., sez. VI, 11 giugno 2020 (dep. 16 giugno 2020), n. 18352, Pres. Di Stefano, Rel. De Ami-cis
1. L’intervento della Suprema Corte origina dall’impugnazione della sentenza con la quale la corte d’appello di Venezia ha accolto un euromandato esecutivo proveniente dall’autorità giudiziaria portoghese e ha disposto la consegna di una persona condannata a due anni di reclusione per un abuso sessuale compiuto in danno di una minore. Avverso tale statuizione, infatti, l’interessato ricorreva per cassazione denunciando una pluralità di violazioni compiute nella gestione della procedura di cooperazione giudiziaria.
Più precisamente, si doleva del fatto che il suo trasferimento in Portogallo sarebbe stato il preludio alla sottoposizione a trattamenti contrari all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, a causa delle pessime condizioni degli istituti di pena portoghesi. Sosteneva, poi, che la procedura finalizzata alla revoca del beneficio della sospensione condizionale, dalla quale scaturiva la esecutività della sentenza di condanna posta alla base dell’euromandato, non era stata rispettosa dei principi del giusto processo. Aggiungeva, articolando un ulteriore e distinto motivo di ricorso, che la consegna sarebbe in ogni caso preclusa dall’operatività della clausola contenuta nell’art. 18 lett. n) della l. 22 aprile 2005, n. 69, in forza del quale la richiesta di cooperazione deve essere rigettata se il fatto per il quale si procede poteva essere giudicato in Italia e si è compiuta la prescrizione del reato o della pena. Infine, censurava la decisione chiedendo che fosse scomputato il periodo trascorso in esecuzione di una misura custodiale dalla pena che avrebbe dovuto scontare a seguito della consegna. In via subordinata, prospettava – invocando a sostegno della pretesa una recente decisione di legittimità – una questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, lett. c) della legge sull’euromandato nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna di un cittadino di uno Stato extraeuropeo che legittimamente risieda o dimori in Italia, a condizione che la corte d’appello disponga l’esecuzione in Italia della pena comminata con il provvedimento posto alla base dell’euromandato.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, non prima di aver compiuto gli accertamenti necessari per conoscere l’iter che ha condotto alla revoca della sospensione condizionale, verificare l’esistenza di eventuali atti interruttivi della prescrizione e assumere informazioni sulle condizioni dell’istituto nel quale il condannato sarebbe stato recluso.
Nel motivare la decisione, il Giudice di legittimità ha seguito un percorso differente rispetto a quello tratteggiato dal ricorrente.
Il carattere pregiudiziale della doglianza ha imposto di vagliare innanzitutto il terzo motivo, ritenuto tuttavia infondato in assenza dei due presupposti che, congiuntamente, devono ricorrere affinché trovi applicazione la lett. n) dell’art. 18, ossia la concreta giudicabilità del fatto in Italia e l’avvenuta prescrizione della pena. Tale statuizione ha comportato anche il respingimento della richiesta di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, lett. c), divenuta priva di rilievo.
Ciò posto, sulla base della documentazione acquisita e coerentemente con l’insegnamento della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato escluso il rischio che dalla consegna potesse scaturire una detenzione in condizioni inumane o degradanti, anche al lume dei parametri indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Identica sorte processuale è toccata al motivo incentrato sulla violazione di regole processuali che sarebbe stata compiuta nel revocare la sospensione condizionale della pena: il provvedimento, infatti, è stato notificato personalmente all’interessato e al suo difensore, che non lo hanno impugnato.
Prima di concludere, la Suprema Corte ha precisato che la consegna deve essere accordata per l’esecuzione della pena eccedente il periodo di custodia cautelare sofferto in Italia dal ricorrente nel corso della procedura di consegna.
2. Il mandato di arresto europeo, come testimonia la sentenza in rassegna, si caratterizza, tanto in ambito domestico che nella dimensione sovranazionale, per una particolare vivacità: anche perchè l’istituto rappresenta l’archetipo del nuovo corso della cooperazione giudiziaria europea[1], la Suprema Corte, a distanza di quindici anni dal recepimento nell’ordinamento italiano della decisione quadro 582/2002/GAI, è impegnata in una intensa opera interpretativa, volta a tracciare, in rima con le pronunce della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, il perimetro applicativo dell’istituto[2].
Pure questa volta i temi affrontati per rispondere ai motivi articolati dal ricorrente riguardano profili di notevole interesse e attualità, che toccano l’angoscioso problema del sovraffollamento carcerario e i suoi riverberi nei rapporti tra Stati membri, la salvaguardia della libertà personale, il rispetto della finalità rieducativa della pena e, più in generale, il rapporto tra la tutela dei diritti fondamentali e l’obbligo di cooperazione posto dal legislatore europeo. È interessante, perciò, analizzare la trama della sentenza per collocare i singoli passaggi nel contesto delineato dalla giurisprudenza interna e dalle decisioni delle Corti sovranazionali che hanno affrontato il conflitto insorto tra la realizzazione delle finalità repressive perseguite con l’introduzione dell’istituto e la necessità di tutelare i diritti fondamentali della persona coinvolti nella procedura di consegna[3].
3. In prima battuta, come accennato, è stato affrontato il motivo incentrato sulla causa ostativa prevista dall’art. 18 lett. n), in forza della quale la richiesta dello Stato membro di emissione è rigettata se i fatti potevano essere giudicati in Italia e si sia già verificata la prescrizione della pena o del reato[4]. Si tratta della trasposizione nell’ordinamento interno dell’art. 4, n. 4 della decisione quadro: in effetti, al di là di irrilevanti differenze lessicali, l’unico elemento distintivo è rappresentato dalla natura del motivo di rifiuto: facoltativo, secondo la decisione quadro; obbligatorio secondo la legge italiana[5].
Dopo aver premesso la sua adesione all’indirizzo secondo il quale la norma opera esclusivamente nell’ipotesi in cui vi sarebbe stata effettivamente la possibilità di giudicare il fatto oggetto dell’euromandato in Italia[6], la Corte, nel vagliare la prima delle due condizioni alle quali è subordinata l’applicazione della previsione, ha escluso che la condotta contestata al ricorrente fosse punibile ai sensi della legge italiana.
In questa prospettiva, la problematica è stata affrontata facendo uso dell’art. 10, comma 2, c.p., in forza del quale, per la punizione del delitto comune commesso all’estero da uno straniero in danno di un altro straniero secondo la legge italiana, devono concorrere una pluralità di condizioni[7]. In primis, è necessaria la richiesta del Ministro della giustizia[8]. Poi, la persona deve trovarsi nello Stato italiano[9]. Ancora, deve essere comminata la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni[10]. Infine, l’estradizione del reo non deve essere stata concessa o accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il fatto o da quello al quale appartiene[11]. Ancorchè non sia espressamente menzionata, si ritiene necessaria anche la sussistenza della doppia incriminazione[12], in modo tale da consentire una piena attuazione della funzione garantistica del principio di legalità[13].
Nel caso di specie, la Corte ha rilevato il difetto della richiesta del Ministro della Giustizia che, ai sensi dell’art. 128, comma 2, c.p., deve essere proposta entro tre anni dal giorno in cui il colpevole ha fatto ingresso nello Stato[14].
D’altro canto, è stata ravvisata anche l’insussistenza dell’altra condizione posta dall’art. 18, lett. n), ossia l’intervenuta prescrizione della pena[15]. Sul punto, è stata cruciale l’individuazione del termine dal quale ha iniziato a decorrere il tempo necessario a estinguere la pretesa punitiva. Il ricorrente sosteneva che il dies a quo si sarebbe dovuto fissare nel momento in cui era spirato il termine fissato dalla sentenza di condanna per adempiere all’obbligazione risarcitoria alla quale era subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena. Il termine, quindi, avrebbe iniziato a decorrere il 30 settembre 2006 e la prescrizione si sarebbe compiuta il 30 settembre 2016, in un momento antecedente al primo atto interruttivo, rappresentato dall’emissione dell’euromandato, avvenuta il 17 novembre 2016.
Al contrario, la Corte ha richiamato un proprio consolidato indirizzo, secondo il quale ai fini dell’esecuzione di un euromandato deve aversi riguardo alla esecutività della sentenza e non alla sua irrevocabilità[16], per affermare che il dies a quo andava collocato più avanti nel tempo e, precisamente, il 27 giugno 2011, ovvero quando è divenuto definitivo il provvedimento che ha disposto la revoca della sospensione condizionale, adottato l’11 maggio 2007. Sul punto, tuttavia, la statuizione si discosta dall’insegnamento impartito dalle Sezioni unite, le quali, dirimendo un contrasto, hanno affermato che la prescrizione della pena, nel caso in cui l’esecuzione sia subordinata al verificarsi di una condizione – nel caso di specie: revoca dell’indulto – inizia a decorrere dal momento in cui la condizione si avvera e non successivamente, quando interviene il provvedimento che accerta l’evento[17].
Nella parte conclusiva, la statuizione, in una prospettiva più ampia, fa emergere la necessità, ai fini del corretto funzionamento dell’euromandato, di impiegare nozioni giuridiche comuni, per evitare che dalle differenze che distinguono gli ordinamenti degli Stati membri sorgano ostacoli alla cooperazione. In tema di prescrizione, è il caso degli atti che spiegano effetti interruttivi o sospensivi e della disciplina alla quale sono soggetti. Qui, la Suprema Corte, pure richiamando il differente contesto estradizionale, evidenzia come, secondo la scelta compiuta dall’interprete in ordine alla disciplina applicabile, possano derivare agevolazioni ovvero ostacoli nelle relazioni di cooperazione giudiziaria tra Stati membri.
4. La non giudicabilità del reato in Italia e la correlata infondatezza dell’eccezione di prescrizione hanno determinato l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis lett. c) della legge sull’euromandato[18].
Recentemente questa disposizione è stata censurata nella parte in cui non consente all’autorità giudiziaria di rifiutare la consegna della persona che sia residente in Italia, ma non sia allo stesso tempo cittadino europeo, al fine di eseguire la pena nel nostro Stato[19].
Sintetizzando estremamente, i profili di illegittimità derivano dalla violazione degli artt. 3, 27 e 117 Cost.[20].
Innanzitutto, il legislatore, limitando dal punto di vista soggettivo il campo di applicazione della norma, non ha dato completa attuazione all’art. 4, n. 6, della decisione quadro che, riferendosi al cittadino e al residente, non consente distinzioni determinate dalla circostanza che il secondo possieda oppure non la cittadinanza europea[21].
La legge italiana, poi, determina un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al residente extracomunitario colpito da un euromandato processuale: questi, infatti, può scontare la pena in Italia ai sensi dell’art. 19, lett. c) poiché la consegna è subordinata alla condizione che, qualora il processo si concluda con una condanna, la persona sia “restituita” all’Italia per l’esecuzione.
Infine, tali difetti normativi riverberano conseguenze negative sulla realizzazione della finalità rieducativa della pena, poiché il trasferimento dell’esecuzione all’estero e lo sradicamento della persona richiesta in consegna dal luogo ove ha stabilito la sede dei suoi interessi e delle sue attività comporta una afflizione ingiustificata ed inutile[22].
La questione ha origini piuttosto remote: l’ordinanza di rimessione, infatti, completa un percorso che la Suprema Corte aveva intrapreso poco dopo l’entrata in vigore del mandato d’arresto europeo e sul quale la tappa più significativa era stata raggiunta con una sentenza della Corte costituzionale[23]. Tale pronuncia, pur dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 lett. r) nella parte in cui non contemplava la figura del residente cittadino dell’Unione Europea, non aveva esaminato, per difetto di rilevanza nel caso di specie, la condizione degli extracomunitari[24].
5. Altro scottante problema, dal quale è scaturito, nel contesto della cooperazione giudiziaria, un ampio dibattito dottrinale e un serrato confronto tra le autorità giudiziarie dei singoli Stati membri e la Corte di giustizia dell’Unione europea, è quello delle conseguenze che il sovraffollamento carcerario o, più in generale, condizioni detentive inumane e degradanti, possono riverberare sul funzionamento del meccanismo di cooperazione.
Molti Stati membri, e tra questi l’Italia, sono stati sanzionati dalle giurisdizioni sovranazionali per le pessime condizioni delle carceri, dalle quali scaturiscono trattamenti che, a loro volta, ostacolano il perseguimento della finalità rieducativa della pena[25]. A fronte di una simile situazione, gli Stati – non soltanto i più virtuosi – si sono posti il quesito circa la possibilità di opporre un rifiuto alla richiesta di cooperazione: ove fosse accordata la consegna, la persona sarebbe destinata a subire una detenzione contraria alle prescrizioni della Convenzione europea e lo Stato membro di esecuzione, in tal modo, presterebbe la propria collaborazione anche nella violazione dei diritti fondamentali.
La circostanza che la decisione quadro non prevedeva espressamente un motivo di rifiuto che consentisse allo Stato membro di sottrarsi all’obbligo cooperativo e rifiutare la consegna dinanzi a un simile pericolo ha determinato la necessità di interpellare la Corte di giustizia che è intervenuta più volte e con una serie di pronunce ha elaborato la soluzione di tale complessa problematica.
In una prima occasione, dopo aver evidenziato l’assolutezza del divieto di pene e trattamenti inumani e degradanti alla luce delle previsioni dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, ha affermato che tali principi operano, senza alcuna attenuazione, anche nel sistema dell’euromandato[26]. In questa ottica, tuttavia, ha precisato che l’accertamento della sussistenza di un rischio di trattamenti inumani e degradanti determinato dalle condizioni generali di detenzione nello Stato membro di emissione non può, di per sé, condurre al rigetto della richiesta di consegna. È necessario, piuttosto, che sia acquisita la certezza che la persona, una volta consegnata, subisca in concreto un simile pregiudizio. Dunque, prosegue la Corte, lo Stato membro di esecuzione deve attivarsi, ai sensi dell’art. 15 della decisione quadro, per acquisire informazioni circa il trattamento che nello Stato di emissione sarà riservato alla persona da consegnare e soltanto qualora il rischio di trattamento inumano e degradante persista anche a seguito di tale interlocuzione, l’esecuzione dell’euromandato può essere rinviata e non già rifiutata. Una statuizione drastica come il rigetto, stando alla motivazione della sentenza, costituisce l'extrema ratio e può essere assunta soltanto qualora lo Stato membro di esecuzione ritenga che il rischio di trattamenti inumani o degradanti non possa essere escluso in un termine ragionevole.
La risposta al quesito principale ha determinato, poi, l’insorgere di una serie di questioni collaterali.
Chiamata nuovamente a pronunciarsi, la Corte di giustizia ha descritto il contenuto delle informazioni e delle garanzie che possono essere richieste allo Stato membro di emissione al fine di fugare ogni dubbio circa la legittimità del trattamento carcerario che sarà riservato alla persona consegnata[27]. Qui, muovendo dai principi enunciati nella precedente decisione, ha chiarito che l’autorità dello Stato membro di esecuzione è tenuta a verificare in concreto quale sarà il regime detentivo riservato alla persona oggetto della richiesta di cooperazione. Tuttavia, prosegue la Corte, questa verifica non si può spingere fino a pretendere un controllo sulle condizioni generali di detenzione esistenti all’interno di tutti gli istituti penitenziari dello Stato membro di emissione nei quali la persona potrebbe essere incarcerata. Un simile approfondimento, invero, si rivelerebbe manifestamente eccessivo e rischierebbe di compromettere il raggiungimento degli obiettivi sottesi alla decisione quadro.
La Corte di giustizia, dunque, ha operato un bilanciamento tra le contrapposte pretese degli Stati membri: per un verso, ha ribadito che la semplificazione delle procedure di consegna delle persone ricercate non può entrare in rotta di collisione con la tutela dei diritti fondamentali, ma, per altro verso, ha tracciato il confine entro il quale lo Stato membro di esecuzione può compiere una verifica sul sistema carcerario dello Stato membro di emissione.
L’ultima tappa di questo percorso si è compiuta con l’individuazione dei criteri alla stregua dei quali può ritenersi integrata una condizione di detenzione disumana e degradante[28]. Qui, si deve tener conto dell'insieme degli aspetti materiali delle condizioni di detenzione nell'istituto penitenziario nel quale è concretamente previsto che la persona verrà reclusa, quali lo spazio personale disponibile per detenuto in una cella, le condizioni sanitarie, nonché l'ampiezza della sua libertà di movimento nell'ambito di detto istituto[29]. La stessa decisione ha descritto anche la situazione nella quale lo Stato membro di esecuzione, in via assolutamente eccezionale, può dubitare della veridicità delle dichiarazioni ricevute dallo Stato membro di emissione e rifiutarsi di eseguire l’euromandato. Come ricorda la sentenza in rassegna, una simile conclusione è possibile solo quando siano emersi elementi precisi dai quali desumere il pericolo che la persona richiesta in consegna possa subire una violazione dei suoi diritti fondamentali. Si tratta, evidentemente, di una situazione estrema, nella quale la negligenza dello Stato membro di emissione nella gestione del suo sistema penitenziario si somma a un atteggiamento ispirato da malafede nelle relazioni internazionali.
Sul versante interno, la giurisprudenza di legittimità si è immediatamente allineata alle indicazioni della Corte di giustizia per tratteggiare la procedura da seguire nel caso in cui la persona richiesta in consegna eccepisca il rischio che dall'esecuzione di un euromandato derivi una detenzione inumana[30].
Il riferimento normativo è stato individuato nell’art. 18 lett. h), che consente di rifiutare la consegna qualora, appunto, sussista un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani e degradanti[31].
Così, allorquando sorga tale sospetto, su istanza dell’interessato[32], l’autorità giudiziaria, in via preliminare, è tenuta ad attivare il meccanismo disciplinato dall’art. 16 per richiedere allo Stato membro di emissione le informazioni sul sistema penitenziario al fine di verificare se, in concreto, la persona potrà essere sottoposta ad un trattamento contrario all’art. 3 della Cedu. Successivamente, se dalle informazioni ricevute non venga escluso il rischio concreto di trattamento degradante, l'autorità giudiziaria deve rinviare la propria decisione sulla consegna fino a quando, entro un termine ragionevole, non ottenga notizie che le consentano di escludere la sussistenza del rischio. Il rifiuto, quindi, costituisce la decisione da adottare soltanto qualora, neppure a seguito del periodo di sospensione, le condizioni di detenzione nello Stato di emissione si siano riallineate ai principi sovranazionali.
6. Prima di concludere e rigettare definitivamente il ricorso, la Suprema Corte puntualizza che la consegna è accordata per l’esecuzione della pena eccedente il periodo di custodia cautelare sofferto in Italia nel corso della procedura di euromandato, applicando, quindi, l’art. 23 comma 6, della legge sul mandato d’arresto europeo[33]. La previsione, in aderenza all’art. 26 della decisione quadro, impone allo Stato membro di emissione di scomputare il periodo di restrizione della libertà personale finalizzato ad evitare che, nelle more della definizione della procedura di consegna, la persona riesca a darsi alla fuga. Corollario di tale principio è che l’autorità giudiziaria è tenuta a rigettare la richiesta di consegna, qualora la persona abbia già interamente scontato nel corso della procedura di consegna, sotto forma di custodia cautelare, la pena inflitta[34].
Nella declinazione passiva della procedura di consegna non si rinvengono le complesse questioni, anche di ordine costituzionale, che hanno invece segnato l’omologa previsione contenuta nell’art. 33, che disciplina la materia sul versante attivo[35].
L’autorità giudiziaria italiana, infatti, dovrà sbrigare un adempimento che ha carattere prevalentemente “istruttorio”, poiché consiste nella trasmissione delle informazioni necessarie affinché l’autorità giudiziaria dello Stato richiedente possa provvedere allo scomputo del cosiddetto “presofferto”[36]. Sarà fondamentale, tuttavia, non soltanto l’esatta indicazione dell’estensione temporale del periodo di applicazione della misura, ma anche una precisa descrizione del tipo di misura applicata affinché lo Stato membro possa correttamente inquadrarla nelle tipologie cautelari del proprio ordinamento processuale e attribuirle il giusto rilievo ai fini della quantificazione della pena residua[37].
[1] Sulla falsariga dell’euromandato e alla luce della esperienza maturata negli anni di vigenza dell’istituto, sia il legislatore europeo sia quello italiano hanno modellato, ancorché con alcune differenze, gli altri strumenti di cooperazione giudiziaria introdotti negli anni successivi. A titolo esemplificativo, si possono citare il d. lgs. 7 settembre 2010, n. 161, teso a conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2008/909/GAI relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale o il d. lgs. 11 febbraio 2015, n. 9 di attuazione della direttiva 2011/99/UE sull’ordine di protezione europeo.
[2] In estrema sintesi, sul fronte interno, la Suprema Corte ha lavorato soprattutto al fine di eliminare o attenuare i numerosi profili di contrasto tra la normativa nazionale e la decisione quadro; sul fronte sovranazionale, invece, è stata impegnata a governare le sollecitazioni provenienti dalla Corte di giustizia che, a sua volta, è intervenuta con particolare frequenza per chiarire i dubbi sollevati dalle autorità dei singoli Stati membri circa la portata di talune disposizioni della decisione quadro.
[3] Sulla questione, per tutti, Bargis, Mandato di arresto europeo e diritti fondamentali: recenti itinerari “virtuosi” della Corte di giustizia tra compromessi e nodi irrisolti, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/5364-mandato-di-arresto-europeo-e-diritti-fondamentali-recenti-itinerari-virtuosi-della-corte-di-giustiz, (per la citazione di dottrina e giurisprudenza successive, sia consentito il rinvio a Colaiacovo, Mandato d’arresto europeo e diritti fondamentali secondo la Corte di giustizia, in Studium iuris, 2019, p. 162).
[4] Per l’inquadramento della fattispecie, che è simile a quella contemplata in tema di amnistia dalla precedente lett. l) dello stesso art. 18, Chelo, Il mandato di arresto europeo, Cedam, 2010, p. 244.
[5] Questo irrigidimento è stato criticato dalla dottrina, poiché, insieme alla moltiplicazione dei motivi di rifiuto, frapporrebbe un ostacolo alla semplificazione e velocizzazione della procedura di consegna: ex plurimis, Perduca, sub art. 18, in Chiavario - De Francesco - Manzione - Marzaduri, Il mandato di arresto europeo. Commento alla legge 22 aprile 2005 n. 69, Utet, 2006, p. 306, e De Amicis - Iuzzolino, Guida al mandato d’arresto europeo, Giuffrè, 2008, p. 58. Comunque, dalla recentissima relazione della Commissione UE sulla attuazione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo del 2 luglio 2020 si apprende - p. 17 - che tutti gli Stati membri, tranne uno, hanno introdotto nel loro ordinamento il motivo di rifiuto e che l’Italia non è la sola nazione ad averlo reso obbligatorio (https://sistemapenale.it/pdf_contenuti/1594495343_com-2020-270-fin-it-txt-relazione-commissione-europea-attuazione-decisione-quadro-mandato-arresto-europeo.pdf).
[6] Cass., sez. VI, 30 dicembre 2014, n. 51, in C.E.D. Cass., n. 261574.
[7] La disposizione è parte di un più ampio complesso di norme che disciplinano l’applicazione della legge penale italiana in relazione allo spazio e definiscono, secondo la prevalente opinione della dottrina, “i limiti di efficacia della legge penale” (ex plurimis, Padovani, Diritto penale, XII ed., Giuffrè, 2019, p. 73; per la critica di tale impostazione, ancorché risalente, lo studio di Dean, Norma penale e territorio, Giuffrè, 1963, p. 1 e ss. e, successivamente, Di Martino, «Pasticciaccio brutto» in alto mare. Questioni di giurisdizione, estradizione, necessità traduzione d’atti, in Dir. pen. e proc., 2014, p. 726, secondo il quale sarebbero «termini più classici seppure impropri»). Questo compendio normativo, in materia di euromandato, fornisce all’interprete i criteri per l’esegesi dei motivi di rifiuto collegati alla giurisdizione italiana.
[8] Come sottolinea la Suprema Corte, coerentemente con la natura della richiesta ministeriale (sulla quale Rivello, voce Richiesta di procedimento, in Dig. d. pen., vol. XII, Utet, 1997, p. 191; nonché Illuminati, voce Richiesta di procedimento, in Enc. dir., vol. XL, Giuffrè, 1989, p. 500), la necessità di tale atto di impulso è espressione della volontà di affidare l’avvio del procedimento a valutazioni di carattere eminentemente politico. In questa ottica, secondo Orlandi, voce Condizioni di procedibilità, in Eng. giur., vol. VII, Treccani, 1989, p. 4, l’istituto sarebbe volto a “tutelare” gli interessi di convivenza internazionale. È utile evidenziare che la riforma realizzata dalla l. 9 gennaio 2019, n. 3, ha introdotto nel testo dell’art. 10 il comma 3, in forza del quale per taluni reati contro la pubblica amministrazione si prescinde dalla richiesta ministeriale (in tema, Cucinotta, La perseguibilità dei reati commessi all’estero, in Orlandi - Seminara, Una nuova legge contro la corruzione, Giappichelli, 2019, p. 7).
[9] In generale, sulla presenza del reo nel territorio dello Stato quale “elemento di territorialità soggettiva” per l’applicazione della legge penale italiana anche a fatti commessi all’estero, Dean, Norma penale e territorio, cit., p. 303 e ss. La dottrina si divide tra coloro che ravvisano nella presenza nel territorio una condizione obiettiva di punibilità e coloro che, invece, intravedono una condizione di procedibilità (sui termini del contrasto, Perdonò, La legge penale nello spazio, in Cadoppi - Canestrari - Manna - Papa, Trattato di diritto penale, vol. I, Il diritto penale e la legge penale, Utet, 2012, p. 327; per un quadro di sintesi sulla distinzione tra i due istituti, anche Orlandi, voce Condizioni, cit., p. 2). Tra coloro che aderiscono alla tesi della condizione di procedibilità, Dean, Norma penale e territorio, cit., p. 324 e ss. e, più di recente, Padovani, Diritto penale, cit., p. 82; in senso contrario, l’opzione per la condizione obiettiva di punibilità è sostenuta dalla dottrina più risalente: Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, Utet, 1948, p. 416. Dal canto suo, la giurisprudenza propende nel senso della condizione di procedibilità (Cass., sez. I, 11 luglio 2003, n. 41333, in Cass. pen., 2004, con nota di Nuzzo, Sulla natura processuale della presenza del reo nel territorio dello Stato), aggiungendo che la presenza del colpevole nel territorio dello Stato deve sussistere al momento dell’esercizio dell’azione penale, a nulla rilevando l'eventuale allontanamento dello straniero in un momento successivo (così, ma in relazione all’art. 9 c.p., Cass., sez. II, 19 marzo 2008, n. 23304, in Riv. pen., 2008, p. 1031).
[10] L’individuazione di tale soglia edittale fissa un limite al di sotto del quale non si ritiene necessaria l’attivazione della giurisdizione italiana. In relazione all’art. 9 c.p. - ma nulla osta all’applicazione del principio anche alla norma de qua - si è precisato che deve aversi riguardo alla pena stabilita in astratto e non a quella comminata in concreto (Cass., sez. IV, 16 novembre 1994, in Cass. pen., 1996, p. 2962).
[11] Tale impostazione, secondo Padovani, Diritto penale, cit., p. 82, attribuisce all’intervento punitivo italiano carattere meramente sussidiario. La giurisprudenza ha chiarito che lo Stato italiano non è obbligato ad offrire l’estradizione allo Stato al quale appartiene lo straniero, nè si può ritenere annoverabile tra i principi di diritto internazionale quello per cui uno Stato sia obbligatoriamente tenuto ad offrire l’estradizione stessa allo Stato di nazionalità dello straniero accusato di un reato cui sia applicabile la legge italiana, che si trovi sul territorio italiano (Cass., sez. I, 25 settembre 2013, n. 3155, in Dir. pen. e proc., 2014, p. 721; sul punto Di Martino, «Pasticciaccio brutto», cit., p. 728). Peraltro, l’offerta dell’estradizione è pratica ormai desueta (in tema, Aloisi, voce Estradizione, in N. dig. it., vo. V, Utet, 1938, p. 709), tanto da non essere neppure contemplata dal codice di diritto processuale vigente.
[12] In questo senso, del resto, è inequivocabile, nonostante la contraria opinione di autorevole dottrina (Mantovani, Diritto penale, IV ed., Cedam, 2001, p. 952), la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, vol. I, p. 36, secondo la quale, appunto, «Per i casi del secondo gruppo (art. 9 e 10), l’interesse dello Stato alla punizione del colpevole, per il solo fatto che questi si trovi nel suo territorio, in quanto potrà sussistere, in quanto innanzi tutto si tratti di un delitto di una certa gravità... e occorre che il fatto costituisca reato anche secondo la legge del luogo in cui fu commesso» (conforme, in giurisprudenza, Cass., sez. I, 17 settembre 2002, n. 38401, in Foro it., 2003, p. II, c. 317).
[13] Così, Padovani, Diritto penale, cit., p. 82, il quale sottolinea che, se il fatto non è preveduto come reato in base alla lex loci, chi lo commette realizza una condotta sulla cui liceità può fare legittimo affidamento. Lo stesso Autore rimarca come, invece, questa esigenza non possa valere per le ipotesi previste dagli artt. 7 e 8, nelle quali sono in gioco interessi di esclusiva rilevanza nazionale, la cui tutela può anche, ovviamente, non essere assicurata nell’ordinamento straniero.
[14] L’art. 128 c.p. indica due termini per la presentazione della richiesta: il primo, di tre mesi, che decorre dal giorno in cui l’autorità ha avuto notizia del fatto che costituisce reato; il secondo, di tre anni, che decorre dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio dello Stato. Si discute, pertanto, se nel caso di delitto comune commesso dallo straniero all’estero si debba tener conto di entrambi i termini ossia se il termine per proporre la richiesta è sempre di tre mesi dalla notizia del fatto ovunque sia commesso il reato e alla necessità di rispettarlo si aggiunge, qualora sia necessaria la presenza del reo nel territorio dello Stato, l’esigenza di non superare, nell’inoltro della richiesta, i tre anni dal giorno in cui il soggetto si trova in Italia (in questo senso, Dean, Norma penale e territorio, cit., p. 326, e, poi, Illuminati, voce Richiesta di procedimento, cit., p. 506). In senso contrario, tuttavia, Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. IV, Utet, 1932, p. 119, e, soprattutto, la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, I, p. 185, nella quale si legge «per i reati commessi all’estero ho di regola mantenuto la stessa disciplina; ma, poichè spesso l’applicazione della legge penale italiana è subordinata alla presenza del colpevole nel territorio dello Stato, in relazione a tale ipotesi ho stabilito che il termine per la presentazione della richiesta sia di tre anni, decorribili dal giorno in cui il colpevole si trovi nel territorio dello Stato». Anche la giurisprudenza, sin dalla oramai storica sentenza di Trib. Roma, 17 aprile 1936, in Ann. dir. proc. pen., 1937, p. 346, afferma che i due termini devono essere tenuti distinti dovendosi badare, nel caso di delitti commessi all’estero, soltanto al termine triennale (ex plurimis, successivamente, Cass., sez. I, 27 novembre 2002, n. 3375, in Cass. pen., 2004, p. 4094, con nota redazionale alla quale si rinvia per la citazione di altre decisioni conformi).
[15] Trattandosi di euromandato esecutivo, emesso per l’esecuzione di una sentenza, è tale evento che assume rilievo.
[16] Cass., sez. VI, 16 novembre 2010, n. 42159, in Cass. pen., 2011, p. 3942, alla quale si aggiunge la successiva precisazione di Cass., sez. VI, 4 maggio 2018, n. 20254, in C.E.D. Cass., n. 273276, secondo la quale l’autorità giudiziaria italiana non è tenuta a sindacare la correttezza della affermazione della autorità giudiziaria estera circa la forza esecutiva della sentenza.
[17] Cass., sez. un., 30 ottobre 2014, n. 2, in Riv. pen., 2015, p. 109. Tale principio era stato enunciato anche in tema di revoca della sospensione condizionale da Cass., sez. I, 11 aprile 2006, n. 17346, in C.E.D. Cass., n. 233882.
[18] È utile ricordare che l’attuale collocazione del motivo di rifiuto in parola, originariamente contemplato dall’art. 18 lett r), è il risultato di un intervento normativo, attuato dall’art. 6, comma 5, lett. b), della l. 4 ottobre 2019, n. 117. Per una prima applicazione della norma, anche in relazione ai profili di diritto intertemporale, Cass., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 4534, in Guida dir., 2020, n. 10, p. 29.
[19] Cass., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 10371, in corso di pubblicazione in Cass. pen., con nota di Colaiacovo, Il “microsistema” di consegna differenziato per il cittadino e il residente di nuovo al vaglio della Corte costituzionale.
[20] Per una sintetica ricostruzione delle censure, Daniele, Mandato di arresto europeo e diritto degli extracomunitari al reinserimento sociale nello Stato di esecuzione. Una questione di legittimità costituzionale, in https://sistemapenale.it/it/scheda/daniele-cass-10371-2020-mae-extracomunitari-reinserimento-sociale-questione-legittimita-costituzionale
[21] Sempre dalla citata Relazione della Commissione - p. 18 - si evince che anche altri Stati membri hanno diversamente modulato l’implementazione della decisione quadro su questo aspetto: più precisamente, alcuni Stati hanno reso il motivo obbligatorio per il cittadino e facoltativo per il residente, mentre altri hanno precisato i requisiti alla stregua dei quali la persona può essere considerata residente (ad esempio, pretendendo un soggiorno nello Stato continuativo e legittimo per un periodo di due o cinque anni). Si tratta, comunque, di distinzioni che, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, non determinano una ingiustificata disparità di trattamento tra i due soggetti: C. giust. UE, 6 ottobre 2009, n. C-123/09, in Cass. pen., 2009, p. 1185, con nota di Calvanese - De Amicis, Mandato d’arresto europeo e consegna “esecutiva” del cittadino nell’interpretazione della Corte di giustizia: verso la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, lett. r) della l. n. 69/2005?, ha infatti chiarito che lo Stato membro di esecuzione può imporre requisiti ulteriori per il residente tesi a dimostrare il suo effettivo radicamento, presupposto imprescindibile affinchè il trasferimento dell’esecuzione della pena realizzi la finalità rieducativa.
[22] In quest’ultima prospettiva, l’ordinanza di rimessione descrive profili di contrasto anche con le previsioni che, a livello sovranazionale, tutelano la famiglia e i rapporti che da questa sorgono (art. 8 Cedu e art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
[23] C. cost., 24 giugno 2010, n. 227, in questa rivista, 2010, p. 4148, con nota di Colaiacovo, Euromandato e cittadini extracomunitari residenti: ancora dubbi dopo la pronuncia della Corte costituzionale. Sulla decisione della Corte costituzionale, Ciavola, La Corte Costituzionale riconosce il diritto del cittadino europeo a scontare la pena in Italia, in Leg. pen., 2010, p. 517, e Piattoli, Mandato d’arresto esecutivo e motivi di rifiuto della consegna: l’illegittimità costituzionale della mancata estensione della disciplina italiana dell’art. 18, comma 1, lett. r, l. 22 aprile 2005, n. 69, al cittadino di un altro paese UE residente nello Stato, in Giur. cost., 2011, p. 2630.
[24] Sul punto, sia consentito il rinvio a Colaiacovo, La consegna del cittadino e del residente nella giurisprudenza interna e sovranazionale, in Dir. pen. e proc., 2012, p. 889.
[25] La vicenda, per quanto concerne l’Italia, è stata descritta nella sua agghiacciante drammaticità nella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo resa nel caso Torreggiani, con la quale i giudici dei diritti fondamentali hanno imposto all’Italia di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario adottando rimedi di carattere preventivo e restitutorio (sul punto, per una esaustiva ricostruzione della questione, Giostra - Ruaro, sub art. 35-ter, in Giostra - Della Casa, Ordinamento penitenziario commentato, Cedam, 2019, p. 483).
[26] C. giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15, Aranyosi e Caldararu, in Dir. pen. e proc., 2016, con nota di Martufi, La Corte di giustizia al crocevia tra effettività del mandato d’arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali.
[27] C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-220/18, in Cass. pen., 2018, p. 3919.
[28] C. giust. UE, 15 ottobre 2019, C-128/18, in Cass. pen., 2020, p. 773, con nota di Canestrini, Condizioni di detenzione nei Paesi membri nell’Unione europea: verso standard comuni a tutela della dignità umana?. In tale occasione, la Corte di giustizia, constatata l’assenza di regole minime al riguardo nel diritto dell’Unione Europea, ha ribadito la necessità di utilizzare le indicazioni provenienti da C. eur. dir. uomo, 20 ottobre 2016, in Foro it., 2017, p. IV, c. 509.
[29] È utile segnalare che sull’applicazione di tali criteri si rinviene un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sul quale interverranno a breve le Sezioni unite (sui termini del contrasto: Cass., sez. I, 21 febbraio 2020, n. 14260, in https://penaledp.it/alle-sezioni-unite-tre-questioni-in-materia-di-sovraffollamento-carcerario-e-rimedi-risarcitori/).
[30] Cass., sez. VI, 1 giugno 2016, n. 23277, in Cass. pen., 2016, p. 3804, con nota di Abate, Il sovraffollamento delle carceri come motivo di non esecuzione del mandato del mandato di arresto europeo.
[31] Anche qui, per l’inquadramento della fattispecie si rinvia a Chelo, Il mandato, cit., p. 238.
[32] Secondo Cass., sez. VI, 28 febbraio 2018, n. 9391, in Riv. pen., 2018, p. 923, è sempre necessaria una allegazione da parte della persona richiesta in consegna.
[33] La Corte segue un indirizzo pacifico, richiamando Cass., sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 4303, in Cass. pen., 2010, p. 704.
[34] Anche qui si tratta di un orientamento consolidato, enunciato in materia di euromandato da Cass.,sez. VI, 6 febbraio 2008, n. 6416, in Cass. pen., 2009, p. 2077, in applicazione di una regola elaborata nel procedimento di estradizione Cass., sez. VI, 17 settembre 2004, n. 46451, ivi, 2005, p. 2284, con osservazioni di Geraci.
[35] In tema, Caianiello, La custodia cautelare all’estero, in Bargis - Selvaggi, Mandato d’arresto europeo. Dall’estradizione alle procedure di consegna, Giappichelli, 2005, p. 211, e, volendo, Colaiacovo, Il sistema delle misure cautelari nel mandato d’arresto europeo, II ed., Cedam, 2019, p. 179 e ss.
[36] Nel senso che nella analisi di tale frammento della previsione non sembrano porsi questioni interpretative di rilievo, Caianiello, La custodia cautelare all’estero, cit., p. 211.
[37] Sul punto, anche in relazione alla statuizione di C. Giust. UE, 28 luglio 2016, n. C-294/16, in Cass. pen., 2016, p. 4250 (intervenuta sulla individuazione delle misure cautelari rilevanti ai sensi dell’art. 26 della decisione quadro), sia consentito ancora il rinvio a Colaiacovo, Il sistema, cit., p. 177.