1. Con una decisione dalla portata storica, lo scorso 17 dicembre 2021 la Corte di Cassazione ha ritenuto scriminata, in presenza di tutti i presupposti previsti dall’art. 52 c.p., la condotta di resistenza a pubblico ufficiale posta in essere dal migrante che, soccorso in mare, si opponga al proprio respingimento in Libia[1]. In attesa del deposito della motivazione, la decisione in esame ha il merito di affermare ancora una volta l’impossibilità di considerare la Libia un luogo sicuro per i migranti, alla luce del pericolo concreto di essere sottoposti a violenze e trattamenti inumani o degradanti[2]. La gravissima situazione in cui versano migranti e rifugiati che dalla Libia intraprendono la pericolosa rotta del Mediterraneo centrale è da tempo oggetto di attenzione da parte delle organizzazioni internazionali e non governative[3]. La prossimità dell’ordinamento italiano con i flussi migratori provenienti dalla Libia ha, inoltre, consentito ai tribunali nazionali di pronunciarsi, seppure nel numero sinora limitato di casi in cui sussisteva la giurisdizione domestica, sui gravi reati commessi nei centri libici di detenzione di migranti e rifugiati. La recente decisione della Corte di Cassazione fa dunque seguito ad alcune pronunce che, seppure in alcune ipotesi solo incidentalmente, hanno riconosciuto la massiccia violazione dei diritti umani e lo sfruttamento sistematico commessi nei confronti di migranti e rifugiati in Libia[4]. Il riferimento è, in particolare, ai procedimenti Matammud (Corte d’Assise di Milano, 2018), Hassan (Corte d’Assise di Agrigento, 2018) e Condè e altri (Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Messina, 2020). I procedimenti vedevano imputati soggetti giunti in Italia attraverso la medesima rotta migratoria e successivamente riconosciuti dalle proprie vittime tra i responsabili delle violenze perpetrate nei confronti dei migranti e rifugiati che transitavano dai centri di detenzione di Bani Walid, Sabrata e Zawiya.
2. La gravità della situazione in cui versano migranti e rifugiati nel contesto libico, nonché le dinamiche connesse alla loro detenzione e al loro sfruttamento, rendono sempre più urgente la riflessione sul ruolo della giustizia penale internazionale, e in particolare della Corte penale internazionale (Cpi). Il 23 novembre 2021 le organizzazioni non governative European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), International Federation for Human Rights (FIDH) e Lawyers for Justice in Libya (LFJL) hanno inviato una comunicazione alla Cpi, contestualmente alla pubblicazione di un report congiunto, sui gravi crimini commessi nei confronti di migranti e rifugiati in Libia. Il tema è stato approfondito nel corso dell’evento “Crimes against migrants and refugees in the context of the ICC Libya investigation” (link alla registrazione), tenutosi in occasione della riunione dell’Assemblea degli Stati Parte della Cpi il 10 dicembre. La denuncia delle tre organizzazioni non governative riporta le testimonianze delle vittime, i dati raccolti dalla società civile e dalle organizzazioni internazionali (in particolare l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, la Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia, il Gruppo di esperti sulla Libia, e la Missione indipendente per l’accertamento dei fatti in Libia), nonché le conclusioni a cui sono pervenute le già richiamate decisioni della giurisprudenza domestica e della Corte europea dei diritti dell’uomo[5]. In particolare, la denuncia (tecnicamente una comunicazione ex art. 15 Statuto Cpi, norma che consente di indicare al Procuratore della Cpi informazioni relative a potenziali crimini internazionali) evidenzia il carattere internazionale dei crimini commessi, almeno a partire dal 2011, nei confronti di migranti e rifugiati in Libia. Secondo la denuncia, infatti, le documentate condotte di detenzione arbitraria, tortura, omicidio, persecuzione, violenza sessuale e schiavitù integrerebbero le fattispecie di crimini contro l’umanità previste dall’art. 7 Statuto Cpi. Migliaia di migranti e rifugiati che attraversano la Libia sono, infatti, soggetti a una spirale di abusi e violenze, che, lungi dal costituire episodi isolati, hanno carattere diffuso e sistematico, e quindi integrano l’elemento di contesto richiesto per la sussistenza dei crimini contro l’umanità. Il requisito della diffusione delle violenze e degli abusi è, infatti, integrato sia dall’elevato numero di migranti e rifugiati oggetto delle condotte, sia dalla loro appartenenza a svariati gruppi etnici, nazionali, religiosi e di genere. Il criterio della sistematicità risulta, invece, sussistente alla luce dell’attuazione di una vera e propria politica di sfruttamento economico dei soggetti illegalmente trattenuti nei centri di detenzione libici[6]. Dal momento che le condotte in esame risultano poste in essere nel contesto di un conflitto armato non internazionale, la comunicazione evidenzia altresì la possibile commissione di crimini di guerra ai sensi dell’art. 8 Statuto Cpi nei confronti della popolazione civile costituita da migranti e rifugiati. In particolare, la sussistenza di un nesso tra le condotte in esame e il conflitto libico sarebbe dimostrata dalla commissione dei crimini internazionali da parte dei gruppi armati, con il fine ultimo di finanziarne le operazioni militari[7].
La comunicazione individua, in particolare, diciannove presunti responsabili dei crimini internazionali in esame, appartenenti alle più alte gerarchie militari e politiche di gruppi armati, milizie e attori statali coinvolti a vario titolo nella crisi libica. Le condotte in esame risultano soggette alla giurisdizione della Cpi in virtù della Risoluzione n. 1970 del 2011, mediante la quale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha riferito la situazione libica al Procuratore della Cpi. La risoluzione ha evidenziato in particolare gli attacchi diffusi e sistematici commessi dalle autorità governative di Gheddafi contro la popolazione civile, costituita da oppositori politici, migranti e rifugiati, nonché la sussistenza di un conflitto armato non internazionale insorto a marzo 2011 tra forze statali e gruppi armati organizzati. Le indagini della Cpi sulla situazione libica hanno sinora condotto all’apertura di tre casi per crimini contro l’umanità (omicidio, detenzione arbitraria, tortura, persecuzione e altri atti disumani) e crimini di guerra (omicidio, tortura, trattamento crudele e oltraggio alla dignità personale). Il successo delle indagini condotte dalla Cpi si è dimostrato, tuttavia, particolarmente limitato, con tre dei cinque mandati di arresto non eseguiti ed un caso dichiarato inammissibile in virtù del principio di complementarietà ex art. 17(1)(a) Statuto Cpi. Come evidenziato dalla recente comunicazione alla Cpi, la connessione diretta tra il conflitto armato in Libia e la commissione dei crimini internazionali a danno di migranti e rifugiati consente di estendere la giurisdizione della Cpi, già esercitata nell’ambito delle indagini aperte dal 2011, anche alle condotte in esame. Gli oltre dieci anni di conflitto hanno, infatti, non solo acuito la discriminazione e le ostilità nei confronti di tali soggetti, ma hanno altresì rappresentato il fondamento economica del loro sfruttamento, finalizzato alla attuazione delle attività dei gruppi armati (ad esempio mediante il trasporto di armi e il coinvolgimento nelle ostilità). La gran parte degli attori, statali e non, responsabili della crisi politica e della instabilità del paese sono, inoltre, al contempo generalmente coinvolti nelle violenze contro migranti e rifugiati. La connessione dei crimini in esame con il conflitto armato si evince, inoltre, dal notevole impatto che lo sfruttamento e l’estorsione di tali soggetti, mediante la loro detenzione e riduzione in schiavitù, rivestono sull’economia libica e sul contesto di instabilità politica. Come affermato dalla ex Procuratrice della Cpi nel 2017, lo Stato rappresenta un fiorente mercato di scambio e traffico di esseri umani[8].
3. Le organizzazioni non governative hanno, quindi sollecitato il nuovo Procuratore della Cpi alla apertura di indagini nei confronti dei responsabili delle condotte considerate, al fine di contrastare la diffusa impunità che caratterizza i crimini internazionali commessi nei confronti di migranti e rifugiati in Libia. Il 23 novembre scorso, in occasione del ventiduesimo report al Consiglio di Sicurezza sullo stato delle indagini relative alla situazione in Libia, il Procuratore ha ribadito la propria intenzione di rendere prioritarie le indagini, ed ha a questo proposito richiamato la necessità di un maggiore coinvolgimento delle Nazioni Unite e degli Stati, in termini tanto economici quanto di coordinamento nell’arresto dei sospettati. Ciononostante, la dichiarazione del Procuratore sembra escludere dalle future indagini della Cpi i crimini contro migranti e rifugiati, che dovranno in questa prospettiva rimanere oggetto degli strumenti di cooperazione e del principio di complementarietà[9]. Il Procuratore sembra così confermare la posizione dei report precedenti, che riducevano i crimini contro migranti e rifugiati al solo traffico illecito e al contrabbando, senza considerare la natura diffusa e sistematica dello sfruttamento e la gravità delle violenze e degli abusi[10]. I crimini internazionali commessi in Libia continuano ad essere caratterizzati dalla perdurante impunità, nonostante le dichiarazioni della precedente Procuratrice, specie in relazione all’assenza di procedimenti domestici. La Cpi rappresenta quindi, allo stato, la sede giurisdizionale più adatta a fronteggiare la complessità di un sistema criminale volto allo sfruttamento di migranti e rifugiati, mediante l’affermazione della responsabilità dei soggetti apicali dell’apparato statale e militare. A differenza dei tribunali domestici, la Cpi risulta, infatti, in grado di cogliere pienamente la gravità dei crimini internazionali, di escludere le rivendicazioni di immunità in forza dell’art. 27 Statuto Cpi, nonché di superare gli ostacoli di natura politica che potrebbero escludere la responsabilità dei più alti vertici politici e militari, con particolare riferimento agli ufficiali del Direttorato per il contrasto alla migrazione illegale e ai leader dei centri di detenzione e delle attività criminali. Se alcuni Stati terzi hanno negli ultimi anni instaurato procedimenti nazionali per i crimini commessi in Libia contro migranti e rifugiati, l’esternalizzazione da parte dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri della gestione dei flussi migratori rende, infatti, politicamente sensibile l’affermazione della responsabilità dei soggetti più elevati nelle gerarchie politiche e militari. I procedimenti, condotti ad esempio in Italia, Francia e Paesi Bassi, si concentrano principalmente su episodi specifici, commessi da individui di rango non elevato, senza cogliere quindi il carattere sistematico dei crimini internazionali. L’ordinamento italiano risulta, a questo proposito, particolarmente sprovvisto degli strumenti atti a cogliere la complessità dei crimini contro l’umanità e di guerra. In assenza di una legislazione adeguata in materia di crimini internazionali, infatti, le condotte in esame possono essere imputate solo a titolo di fattispecie ordinarie (omicidio, tortura, violenza sessuale, sequestro di persona, etc.), malgrado il riconoscimento da parte della giurisprudenza della sussistenza di un sistema organizzato e del coinvolgimento delle più alte sfere di comando[11]. Nonostante l’importanza di questi procedimenti minori, è evidente come solo la Cpi sia al momento in grado di condurre indagini e procedimenti più ampi, che diano rilevanza al complesso sistema criminale e di sfruttamento dei migranti e dei rifugiati in Libia e che qualifichino correttamente tali condotte come crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
4. Il report intitolato “No way out: Migrants and refugees trapped in Libya face crimes against humanity” e redatto dalle tre organizzazioni non governative alla luce delle testimonianze di quattordici sopravvissuti, mette, infine, in relazione l’analisi giuridica dei crimini internazionali, oggetto della comunicazione, con le politiche migratorie e di esternalizzazione del controllo delle frontiere, adottate dall’Unione Europea. Già in passato alcuni report e comunicazioni alla Cpi avevano, infatti, evidenziato come queste politiche avessero il fine ultimo di “fermare ad ogni costo i flussi migratori verso l'Europa, anche attraverso l’uccisione di migliaia di civili innocenti in fuga da un'area di conflitto armato”[12]. Nonostante la natura internazionale dei crimini commessi nei confronti di migranti e rifugiati in Libia, le misure volte al loro respingimento ai confini europei contribuiscono in modo significativo al perpetuarsi della gravissima situazione descritta. A partire dalla esplosione del conflitto seguito alla caduta del regime Gheddafi nel 2011 e dal picco dei flussi migratori nel 2016, gli abusi commessi nei confronti dei migranti che percorrono la rotta del Mediterraneo centrale sono aumentati esponenzialmente. Il rapporto invita, pertanto, l'Unione Europea e gli Stati membri ad interrompere immediatamente i respingimenti verso la Libia, nel rispetto degli obblighi internazionali, e a sospendere altresì ogni finanziamento e assistenza alle autorità libiche in relazione alla politica migratoria[13]. Un eventuale supporto alla Libia, ad esempio mediante il coordinamento con la sua Guardia Costiera, deve essere necessariamente subordinato alla garanzia del rispetto e della tutela dei diritti umani di migranti e rifugiati, nonché alla istituzione di un adeguato sistema di asilo, finalizzato a garantire il diritto alla protezione internazionale ai sensi della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951.
5. In conclusione, è evidente che la complessità della situazione libica e i gravissimi crimini internazionali commessi nei confronti di migranti e rifugiati rendono insufficiente il ricorso ai soli strumenti di cooperazione sovranazionale. L’Unione Europea e gli Stati membri sono innanzitutto chiamati ad interrompere i respingimenti verso la Libia e le politiche di esternalizzazione del controllo delle proprie frontiere, secondo un meccanismo che contribuisce a creare le condizioni per il trattenimento, la violenza e lo sfruttamento dei soggetti che percorrono la rotta del Mediterraneo centrale. Ciononostante, risulta altresì imprescindibile l’affermazione in sede giurisdizionale della responsabilità penale dei soggetti incardinati nelle più alte gerarchie politiche e militari per le violenze che, stante il carattere diffuso e sistematico nei confronti della popolazione civile ovvero la connessione con il conflitto armato libico, costituiscono crimini contro l’umanità e crimini di guerra ai sensi degli artt. 7 e 8 Statuto Cpi. Se le autorità libiche hanno dimostrato una evidente mancanza di volontà nel perseguire penalmente i responsabili, i procedimenti nazionali instaurati negli ordinamenti di Stati terzi, spesso condotti nei confronti di autori secondari e in relazione ad episodi isolati, non sembrano sufficienti a cogliere il più ampio contesto di commissione dei crimini internazionali. In questa prospettiva, la Cpi costituisce il forum giurisdizionale più opportuno per la conduzione di indagini e procedimenti in grado di provare la connessione tra propositi criminosi e interessi economici degli attori, statali e non, coinvolti negli abusi e nello sfruttamento dei migranti e dei rifugiati in Libia. Nel contempo, a differenza delle giurisdizioni domestiche, la Cpi esclude espressamente la rilevanza delle immunità per la commissione di crimini internazionali, e risulta in principio svincolata dai delicati equilibri che caratterizzano le relazioni politiche tra i governi[14]. L’affermazione della responsabilità penale individuale dei soggetti coinvolti nelle violenze e nello sfruttamento economico di migranti e rifugiati, in contrasto alla diffusa impunità che caratterizza i gravi crimini commessi sul territorio libico, consentirebbe di interrompere il ciclo di violenze e abusi cui sono sottoposti coloro che intraprendono la rotta del Mediterraneo centrale.
[1] Cass., Sez. VI, ud. 16 dicembre 2021, Pres. Mogini, rel. Silvestri. Per un commento si veda S. Zirulia, Migranti. Respingimenti in Libia: opporsi si può. A Roma si fa giustizia, Avvenire.it, 18 dicembre 2021, consultabile al seguente link. Per una analisi della sentenza di appello si veda anche L. Masera, I migranti che si oppongono al rimpatrio in Libia non possono invocare la legittima difesa: una decisione che mette in discussione il diritto al non refoulement, in questa Rivista, 21 luglio 2020; per la decisione di primo grado, L. Masera, La legittima difesa dei migranti e l’illegittimità dei respingimenti verso la Libia (caso Vos-Thalassa), in Diritto Penale Contemporaneo, 24 giugno 2019, disponibile al seguente link.
[2] Il riferimento è, in particolare, alle norme internazionali sulla ricerca e sul salvataggio delle persone in mare Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, Convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare del 1974, Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio in mare (SAR) del 1979, nonché al principio di non-refoulement ai sensi dell’art. 33 Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951.
[3] Cfr. Human Rights Council, Report of the Independent Fact-Finding Mission on Libya, 1 ottobre 2021, A/HRC/48/83, accessibile al seguente link; Amnesty International, Libya: ‘Between life and death’: Refugees and Migrants trapped in Libya’s cycle of abuse, 24 settembre 2020, consultabile al seguente link.
[4] Cfr. Corte di Assise di Milano, Matammud Osman, sent. 10/17, 10 ottobre 2017; Corte di Assise di Agrigento, sent. 1/18, 12 giugno 2018 (dep. 22 giugno 2018); Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Messina, sent. 149/2020, 28 maggio 2020. Per un commento alle pronunce richiamate si vedano S. Bernardi, Una condanna della Corte d'Assise di Milano svela gli orrori dei "centri di raccolta e transito" dei migranti in Libia, in Diritto Penale Contemporaneo, 16 aprile 2018, disponibile al seguente link; G. Mentasti, Campi di detenzione per migranti in Libia: il caso Matammud, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. 1/2021, accessibile al seguente link; G. Mentasti, Centri di detenzione in Libia: una condanna per il delitto di tortura (art. 613 bis c.p.). Nuove ombre sulla cooperazione italiana per la gestione dei flussi migratori, in questa Rivista, 2 ottobre 2020. La gravità del contesto libico è stata posta a fondamento della decisione del caso Rackete, in Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2020 (dep. 20 febbraio 2020), n. 6626, Pres. Lapalorcia, Est. Gai, ric. Rackete. Cfr. S. Zirulia, La Cassazione sul caso Sea Watch: le motivazioni sull’illegittimità dell’arresto di Carola Rackete, in questa Rivista, 24 febbraio 2020.
[5] Ibid. Cfr. altresì Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, Hirsi Jamaa et al. c. Italia, 23 febbraio 2012, 27765/09, par. 33 e seguenti; 123 e seguenti. Il sommario esecutivo della Comunicazione ex art. 15 Statuto Cpi sulla commissione di crimini contro migranti e rifugiati in Libia è accessibile al seguente link.
[6] Cfr. legge libica sul contrasto alla immigrazione irregolare, n. 19 del 28 gennaio 2010, disponibile al seguente link.
[7] Sulla possibilità di qualificare le condotte nei confronti dei migranti in Libia come crimine di guerra (in particolare in relazione alla responsabilità del comandante della guardia costiera Abd al -Rahman al-Milad “al-Bidja”) si rimanda all’analisi di A. Pizzuti, ICC Situation on Libya: The ICC Prosecutor Should Look into Libyan Criminal Proceedings Concerning Crimes Committed Against Migrants, in OpinioJuris, 20 novembre 2020, disponibile al seguente link.
[8] Dichiarazione della Procuratore Cpi, Fatou Bensouda, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla Situazione in Libia ai sensi della Risoluzione 1970(2011), 9 maggio 2017, accessibile al seguente link.
[9] Dichiarazione del Procuratore Cpi, Karim A.A. Khan QC, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla Situazione in Libia ai sensi della Risoluzione 1970(2011), 24 novembre 2021, accessibile al seguente link.
[10] Per una analisi più approfondita si rimanda a C. Meloni, X. Zang, Complementarity Is No Excuse: Why the ICC Investigation in Libya Must Include Crimes Against Migrants and Refugees, in Opinio Juris, 1 dicembre 2021 (disponibile al seguente link). Si veda anche J. Lescs, Les migrants et la justice internationale: pourquoi la pression monte, in Justiceinfo.net, 17 dicembre 2021, consultabile al seguente link.
[11] Nonostante la ratifica dello Statuto Cpi e l’emanazione della legge di esecuzione n. 232/1999, l’Italia non ha, infatti, ancora adeguato il proprio ordinamento alle disposizioni sostanziali di diritto penale internazionale, con il risultato che i tribunali nazionali non sono al momento in grado di condurre procedimenti per crimini internazionali.
[12] Cfr. M. Kersten, Enough is Enough: The ICC Should Announce an Investigation into Migrant Abuses, in Justice in Conflict, 8 dicembre 2021, disponibile al seguente link. La responsabilità dell’Unione Europea e degli Stati membri era già stata evidenziata, tra gli altri, da Human Rights Watch, No Escape from Hell. EU Policies Contribute to Abuse of Migrants in Libya, 21 gennaio 2019, al seguente link; Communication to the Office of the Prosecutor of the International Criminal Court Pursuant to the Article 15 of the Rome Statute, EU Migration Policies in the Central Mediterranean and Libya (2014-2019), O. Shatz, J. Branco, Capstone on Counter-Terrorism and International Crimes, PSIA – Sciences Po (Paris) 2017/2018, 2018/2019, disponibile al seguente link.
[13] La collaborazione tra Italia e Libia si attesta non solo sul piano del coordinamento con la Guardia Costiera libica e dei noti accordi d’intesa del 2017 (tacitamente rinnovato nel 2020), ma altresì per quanto concerne la gestione dei centri di detenzione. Cfr. D. Agresta, C.L.Cecchini, G. Crescini, S. Fachile, A. Pasquero, Profili critici delle attività delle ONG italiana nei centri di detenzoine in Libia con fondi A.I.C.S., Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), luglio 2020, consultabile al seguente link. Per un commento si veda ancora G. Mentasti, Centri di detenzione in Libia: una condanna per il delitto di tortura (art. 613 bis c.p.). Nuove ombre sulla cooperazione italiana per la gestione dei flussi migratori, cit. supra nota 2.