Cass. sez. VI, 24 maggio 2023 (dep. 25 luglio 2023), n. 32319, Pres. Fidelbo, rel. Silvestri
*Contributo pubblicato nel fascicolo n. 7-8/2023.
1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Sesta Sezione della Corte di cassazione ha escluso che integrino il delitto di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.) le condotte minacciose, collusive e fraudolente tenute durante l’espletamento delle procedure di concorso per il reclutamento dei professori universitari. La “turbativa” dei concorsi per i professori universitari (naturalmente, fuori dalla più grave ipotesi di corruzione) può al più integrare il reato di abuso d’ufficio: un reato che però è oggi “un morto che cammina” dopo la presentazione al Senato del disegno di legge proposto dal ministro Nordio, che ne prevede l’abolizione. Di qui, a ulteriore conferma delle perplessità che suscita quella proposta, un possibile quanto evidente vuoto di tutela che si prospetta.
2. I fatti oggetto della decisione della Cassazione riguardano una procedura di valutazione comparativa per un posto di professore associato presso un dipartimento di medicina nell’Università di Torino; procedura vinta da uno degli imputati a seguito di minacce, collusioni e altri mezzi fraudolenti contestati in concorso a un componente della commissione giudicatrice e al direttore di una struttura sanitaria. In primo grado alcuni degli imputati venivano condannati per il reato di turbata libertà degli incanti (c.d. turbativa d’asta); in appello la sentenza di condanna veniva però annullata disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero per procedere per (fatti e) reati diversi e, in particolare, per quelli di abuso d’ufficio e concussione. Presentava quindi ricorso il procuratore generale che, tra l’altro, contestava la ritenuta non configurabilità della turbativa d’asta.
3. La Sesta Sezione della Cassazione, su parere conforme del Sostituto Procuratore Generale, ha rigettato il ricorso e ribadito che i fatti contestati dalla Procura di Torino non possono integrare il delitto di turbativa d’asta ma, al più, il delitto di abuso d’ufficio. La decisione si pone in linea con una di poco precedente (n. 26225/2023), già segnalata su questa Rivista, con la quale la stessa Sezione Sesta aveva escluso l’applicabilità dell’art. 353 c.p. in relazione alle procedure che riguardano non l’acquisizione di beni o servizi ma il reclutamento di personale presso la pubblica amministrazione.
E’ una decisione di grande rilievo per almeno tre ragioni. Anzitutto, già si è segnalato come essa evidenzi ed esemplifichi uno dei vuoti tutela che conseguirebbero all’abolizione dell’abuso d’ufficio. In secondo luogo, è una decisione di grande impatto sulla prassi, atteso che promette di avere ripercussione sui procedimenti penali in corso relativi a concorsi universitari e, in particolare, su quelli nei quali, come nel caso oggetto del giudizio, è stato contestato il delitto di turbata libertà degli incanti (si pone ora il problema dell’eventuale contestazione di fatti nuovi/diversi o della riqualificazione dei fatti contestati). In terzo luogo, in una dimensione più alta e lontana dalla cronaca e dalla prassi, si tratta di una decisione significativa di un orientamento della Sesta Sezione della Cassazione attento al principio costituzionale di tassatività della legge penale.
4. In questa sentenza, come in quella di poco precedente che si è sopra richiamata, la Cassazione mostra di fare sul serio con il divieto di analogia in malam partem: dopo avere richiamato la giurisprudenza costituzionale (da ultimo, le sentenze n 115/2018 e 98/2021), individua nella lettera della legge un invalicabile confine oltre il quale l’interpretazione non può spingersi e il giudice deve fermarsi, non potendo far prevalere identità di ratio e ragioni di giustizia sostanziale. Nel quadro di una fattispecie legale che presenta, nella propria descrizione, concetti elastici quali sono quelli di “turbamento” e di “altri artifici” – che si prestano a ricomprendere condotte eterogenee – il vero e decisivo argine viene individuato dalla Cassazione nel concetto di “gare nei pubblici incanti e nelle licitazioni private per conto delle pubbliche amministrazioni”. Tale concetto, con una interpretazione estensiva ritenuta ora inammissibile perché contraria al divieto di analogia, è stato ampliato dalla giurisprudenza ricomprendendovi qualsivoglia tipo di gara e di procedura di valutazione comparativa. Ed è sulla scia di questa giurisprudenza che diverse procure hanno per l’appunto contestato la turbativa d’asta anche in rapporto ai concorsi universitari: un reato più facile da provare rispetto a quelli di corruzione e di abuso d’ufficio.
La Cassazione, tuttavia, mette ora uno stop (e lo fa la Sezione competente per materia in tema di delitti contro la pubblica amministrazione): l’art. 353 c.p., in ragione del dato testuale, è riferibile “alle sole procedure indette per la cessione di un bene ovvero per l’affidamento all’esterno della esecuzione di un’opera o della gestione di un servizio”…”non può essere ricondotta all’interno della fattispecie ciò che ad essa è aliunde, come appunto le procedure concorsuali per l’assunzione di personale da parte dello Stato e delle sue articolazioni”. Reclutare un professore è cosa ben diversa da acquistare beni o servizi. E la turbativa d’asta è comunque un reato dei privati contro la p.a., mentre i fatti contestati a membri di commissioni di concorso riguardano condotte poste in essere da pubblici ufficiali.
5. La decisione della Cassazione, fedele al principio di legalità, va salutata con favore perché mostra di fare sul serio con i principi e le garanzie costituzionali. Al tempo stesso, la sentenza pone, al legislatore – che ha il monopolio delle scelte politico-criminali – il problema della rilevanza penale delle condotte di “turbativa” dei concorsi universitari realizzate, fuori dai casi di corruzione, per avvantaggiare o per danneggiare un candidato. Se oggi la Cassazione può avallare la decisione di rimandare gli atti al pubblico ministero, per valutare la contestazione dell’abuso d’ufficio, altrettanto non potrà fare se, come nelle intenzioni del Governo e del Ministro Nordio, tale reato sarà abolito. D’altra parte, la configurabilità dell’abuso d’ufficio è già oggi problematica in quanto, dopo la riforma del 2020, rileva la sola violazione di leggi (non anche, pertanto, dei regolamenti universitari) e, in particolare, di disposizioni che non lasciano residuare margini di discrezionalità. Ebbene, è evidente come la valutazione comparativa tra due candidati a un posto di professore, di ricercatore, di dottorando di ricerca ecc., sia attività eminentemente discrezionale, sottratta pertanto al sindacato del giudice penale. Siamo dunque di fronte a un vuoto di tuetela penale, anzi, a un baratro.
In un Paese che fatica a riconoscere il merito – nonostante un Ministero sia oggi intitolato, appunto, all’Istruzione e al Merito – e nel quale malcostume e malaffare nella pubblica amministrazione non sono rarità - purtroppo, talora, anche nelle università - desta preoccupazione l’idea di un vuoto di tutela penale come quello che si prospetta leggendo la sentenza qui brevemente annotata. E’ una preoccupazione della quale dovrebbe farsi carico il legislatore, proprio perché, in ossequio alla riserva di legge e al principio della separazione dei poteri, non può farsene carico il giudice. Questa è, in fondo, la lezione della Cassazione, fedele ai principi costituzionali.
L’assenza di un presidio penalistico è grave in chiave di prevenzione, prima che di repressione. Dopo questa sentenza, e con un abuso d’ufficio moribondo, ad avere meno “paura della firma” saranno non i sindaci, ma i professori commissari di concorso che non rispettano le regole e il merito. Non è un bel messaggio per il Paese, per le nuove generazioni e per gli osservatori internazionali.