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  Scheda  
15 Maggio 2020


Coronavirus ed emergenza carceri: la via del ricorso alla Corte di Strasburgo


1. La prima fase dell’emergenza sanitaria legata al Coronavirus è stata caratterizzata, per quanto riguarda la materia penale, da una «grande confusione legislativa»[1]. Non ha fatto eccezione la normazione sulla fase esecutiva della pena e la scarna interpolazione dell’ordinamento penitenziario che ha avuto un improvviso sussulto – con i due decreti legge 30 aprile 2020 n. 28 e 10 maggio 2020 n. 29 – dopo le ‘discusse’ concessioni di detenzioni domiciliari ‘umanitarie’ a detenuti sottoposti al trattamento di rigore previsto dall’art. 41-bis o.p., e l’avvertita necessità di intervenire in parte qua.

La prima strategia governativa all’affacciarsi dell’emergenza legata al diffondersi del covid-19 ha portato alla chiusura degli istituti penitenziari da accessi dall’esterno, per evitare che il virus potesse varcare la soglia del carcere. Il decreto-legge 8 marzo 2020, n. 11, ha previsto infatti che i colloqui con i detenuti avvengano ‘da remoto’ e che la concessione dei permessi-premio e della semilibertà possa essere sospesa fino al 31 maggio 2020[2].

La chiusura delle porte del carcere è stato uno dei motivi che ha provocato le note rivolte dei detenuti in molte casa di reclusione e circondariali, rischiando di far saltare i già delicati equilibri interni agli istituti di pena. Su tali rivolte potrebbe essere chiamata a pronunciarsi la Corte EDU, sempre molto attenta a verificare se, nel caso concreto, vi siano state, da parte delle autorità statali, violazioni al diritto alla vita e al divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. L’accertamento della Corte di Strasburgo coinvolge  sia il profilo “sostanziale”[3] degli artt. 2 e 3 CEDU sia quello “procedurale”; quest’ultimo in ordine alla eventuale mancanza di indagini effettive per appurare le ragioni che hanno portato alla morte del detenuto o al trattamento disumano nei suoi confronti[4].

Sono inoltre riemersi i noti problemi delle carceri legati al sempre cronico problema del sovraffollamento e alle condizioni igieniche spesso precarie, che l’emergenza coronavirus rischia di fare esplodere: «le carceri rischiano di diventare una bomba sanitaria che si può ripercuotere sulla tenuta del sistema sanitario nazionale»[5].

L’ingresso del Coronavirus in carcere, ed il riscontro dei primi casi di positività in alcuni penitenziari, hanno evidenziato il fallimento della strategia di chiusura delle carceri. Il sovraffollamento in cui le carceri sono ripiombate (dopo la tregua segnata dai provvedimenti seguiti alla sentenza pronunciata dalla Corte Edu sul caso Torreggiani contro Italia del 2013) è diventato, per la conseguente impossibilità di mantenere il distanziamento minimo necessario volto contenere il rischio da contagio da covid-19, un pericolosissimo fattore di espansione del virus. Consequentur, «è del tutto evidente la necessità e l’urgenza di intervenire sul carcere. Si tratta di salvaguardare non soltanto la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari, ma quella dell’intera collettività: il virus, una volta entrato in carcere, non rimane dietro le sbarre, ma esce facilmente verso l’esterno»[6].

 

2. Il fallimento della prima strategia ha costretto il governo a virare nella direzione opposta. Di qui il nuovo intervento, che nell’ambito del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18, c.d. decreto ‘cura Italia’, convertito nella legge 24 aprile 2020 n. 29, ha cercato in qualche modo di aprire le porte del carcere dall’interno e di chiuderle all’ingresso di nuovi detenuti dall’esterno.

Unanimemente ‘timide’ sono state riconosciute le risposte del cura Italia e assolutamente ‘insufficienti’ gli strumenti adottati per risolvere l’emergenza (rectius, le emergenze, sanitaria e carceraria), che si sono sostanziati nell’aumento del range temporale delle licenze per i semiliberi (dimenticandosi peraltro dei permessanti, almeno quelli collaudati) e in un'unica misura svuota-carceri dell’esecuzione domiciliare, secondo il modello già avviato dell’art. 1 della legge n. 199 del 2010, con una semplificazione procedurale (solo sulla carta) che avrebbe dovuto accelerare i tempi di risposta per l’accesso alla misura.

Non è questa la sede per commentare l’art. 123 del decreto-legge n. 18 del 2020, rimasto pressoché invariato in sede di conversione, nonostante le richieste di “migliorie” ed estensione dei confini applicativi (almeno innalzando il tetto di pena residua per accedere alla nuova e temporanea esecuzione domiciliare in deroga). È quindi rimasta – per dirla con le parole di un magistrato di sorveglianza – «una detenzione domiciliare presidiata di tante limitazioni, a partire da un orizzonte di pena residua ferma a 18 mesi, da non aver intercettato un ampio numero di condannati da reinserire nella società»[7]; ‘ingabbiata’ nel braccialetto elettronico (per pene superiori a sei mesi), a conferma del pan-penalismo e della visione carcero-centrica attorno a cui ruotano le politiche penitenziarie degli ultimi anni.

Non a caso, in alcuni casi si preferito applicare la “vecchia” esecuzione domiciliare, prendendo atto che la “nuova” esecuzione domiciliare disegnata dall’art. 123 del cura Italia è misura all’apparenza più favorevole ma, di fatto, di difficile immediata applicazione[8].

 

3. Poiché “l’emergenza carceraria non è un incendio al di là del fiume”[9], occorreva (e occorre) agire subito. I numeri, anche se testimoniano un calo della densità penitenziaria, restano preoccupanti. Come si legge negli ultimi dati diramati dal Garante nazionale «la popolazione detenuta attuale è di 53.187, in continuità con il trend di riduzione del numero complessivo, ma tuttora bisognoso di un ulteriore impulso affinché sia possibile, in termini di spazi di gestione e di tutela della salute, di chi negli Istituti opera e di chi vi è ospitato, disporre di sufficienti possibilità di fronteggiare ogni possibile negativo sviluppo dell’andamento del contagio, oggi ancora commisurato   in valori gestibili nei suoi 159 casi tra la popolazione e nei 215 che riguardano il personale, ma, almeno per i primi, tuttora in ascesa»[10].

Il difficile ruolo di supplenza cui la magistratura di sorveglianza è stata chiamata a svolgere, si è concretizzato nella concessione misure svuota-carceri per allentare la pressione carceraria, percorrendo varie strade.

Una ‘coraggiosa’ giurisprudenza di sorveglianza ha utilizzato alcuni istituti già presenti nell’ordinamento penitenziario rileggendone i relativi requisiti applicativi: in primis il grave pregiudizio della protrazione dello status detentionis, previsto dagli artt. 47, co. 4 e 47-ter, co. 1-quater o.p. per l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare[11].

Un capitolo a parte, ma molto corposo, riguarda i condannati con problemi di salute. A questi è stata garantita in alcuni casi la fuoriuscita dal carcere nella prima fase emergenziale attraverso del differimento facoltativo della pena (art. 147 co. 1 n. 2 c.p.), accompagnato dalla detenzione domiciliare ‘in deroga’ o ‘in surroga’ o ‘umanitaria’ (in quanto non vincolata da limiti edittali in caso di grave infermità fisica e psichica, concedibile anche ai detenuti per reati ostativi ex art. 4-bis o.p., financo se sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis o.p. e a quelli che in passato hanno subito la revoca di misure alternative) in presenza di un quadro clinico grave, anche se ritenuto dai sanitari non incompatibile con il regime detentivo.

Si è ritenuto, in particolare, che «non si possa escludere che il soggetto sia a rischio in relazione al fattore età, alle pluripatologie con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete, tenuto conto che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio; tali patologie possono considerarsi gravi con specifico riguardo all’elevato rischio di contagio attualmente in corso per covid-19 che, contrariamente a quanto ritenuto dal Magistrato di sorveglianza, appare più elevato in ambiente carcerario ove non è possibile l’isolamento preventivo»[12].

In applicazione a tali principi, non si è esitato a concedere la detenzione domiciliare ‘umanitaria’ anche all’ergastolano[13] e al sottoposto al regime del carcere duro ex art. 41-bis o.p.[14].

 

4. La coraggiosa giurisprudenza di sorveglianza si è pero sviluppata a macchia di leopardo, registrandosi anche molti rigetti alle richieste di misure alternative. Si è iniziata così a percorrere la via dei ricorsi alla Corte EDU per ottenere misure intra ed extra-murarie volte ad evitare il rischio di contagio da covid-19 all’interno delle carceri, soprattutto dopo una “prima” risposta negativa degli uffici di sorveglianza.

Le domande di accesso all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare ordinaria – da applicare provvisoriamente in via d’urgenza – o dell’esecuzione domiciliare (ordinaria) ex art. 1 l. n. 199 del 2010 o in deroga ai sensi dell’art. 123 decreto-legge n. 18 del 2020, sono state motivate tenendo conto dell’attuale drammatica situazione venutasi a creare nelle carceri italiane (pericolo di contagio da covid-19 oggettiva impossibilità di rispettare il distanziamento sociale e le prescrizioni minime introdotte dalla recente normativa a tutela della salute presso i luoghi di detenzione).

Il rigetto di tali istanze non esaurisce però le vie dei ricorsi interni. Infatti, le ordinanze sulle richieste di applicazione ‘provvisoria’ dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare[15] proseguono, per la decisione definitiva, nel contraddittorio delle parti, dinanzi al Tribunale di sorveglianza; quelle concernenti l’esecuzione domiciliare, sono soggette al reclamo allo stesso Giudice collegiale di sorveglianza[16]; tutte le relative ordinanze del Tribunale di sorveglianza sono poi ricorribili in Cassazione. Il previo esperimento di tutti i mezzi di gravame costituiscono condicio sine qua non, a pena di inammissibilità, del ricorso dinanzi alla Corte EDU.

 

4.1. In verità, la regola dell’esaurimento dei rimedi interni ha subito una interpretazione ‘flessibile’ nella giurisprudenza della Corte EDU dichiarando così ricevibili ricorsi senza il previo esperimento dei giudizi nazionali, alla luce del contenuto e le funzioni di tale regola prevista, come noto, dall’art. 35, § 1, CEDU, tra le condizioni di ricevibilità.

Per quanto attiene al contenuto, essa è una disposizione di natura processuale a tutela del principio di sussidiarietà, che non costituisce quindi un elemento dell’illecito nel merito, ma si risolve in un ‘canone procedurale di ammissibilità del controllo internazionale’[17], incidendo esclusivamente sulla possibilità della vittima di adire i sistemi di giustizia sovranazionale. Tuttavia, si è progressivamente sviluppata l’idea che l’efficacia del coordinamento tra i diversi livelli di tutela dei diritti - sovranazionale e nazionale - dovesse essere accompagnato necessariamente dall’impegno degli Stati a mettere in atto misure volte al riconoscimento e alla tutela giurisdizionale dei diritti umani. Proprio in tale ottica, «la dottrina è giunta ad individuare due funzioni specifiche della regola del previo esaurimento dei rimedi interni: a) la prima, di carattere “negativo”, obbliga le Corti sovranazionali a non esaminare ricorsi, senza il previo esperimento di tutte le vie di giudizio interne; b) la seconda, di carattere “positivo”, impone agli Stati di prevedere rimedi giurisdizionali effettivi e idonei a porre fine alla violazione dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale»[18].

Di conseguenza, la regola dell’esaurimento dei rimedi interni nella sua accezione ‘negativa’ può operare pienamente e rigidamente, quale condizione di ricevibilità del ricorso, solo nel caso in cui lo Stato dimostri l’esistenza nell’ordinamento interno di rimedi giurisdizionali effettivi volti a sanare la violazione delle norme sovranazionali denunciata dal ricorrente.

Tale interpretazione è stata fatta propria dalla giurisprudenza della Corte EDU che, nell’esaminare le condizioni di ricevibilità relative al previo esaurimento dei rimedi interni, costantemente aggancia l’art. 35, § 1 CEDU al diritto ad un ricorso effettivo di cui all’art. 13 CEDU[19].

Più precisamente, il ricorrente deve rispettare la regola dell’esaurimento delle vie interne, facendo “uso normale” di ogni grado di giudizio (nel senso che i ricorsi interni innanzitutto devono essere stati esperiti nel rispetto delle condizioni di forma e di procedura dettate dalla legislazione nazionale per ciascun tipo di gravame) sino all’ottenimento di una decisione avverso la quale non sia più possibile alcuna impugnazione (c.d. esaurimento verticale) e invocando almeno in sostanza la violazione dei propri diritti convenzionali davanti alle giurisdizioni nazionali (c.d. esaurimento orizzontale), solo nel caso in cui l’ordinamento interno offra un ricorso effettivo per quanto riguarda la violazione allegata, ex art. 13 CEDU[20].

Ne discende che la Corte di Strasburgo, nell’esaminare le questioni preliminari non si limita a operare un filtro di ricevibilità sulla base dell’avvenuto esaurimento nei fatti dei giudizi interni, ma compie un esame di compatibilità tra i rimedi interni con i parametri di merito, ed in particolare con l’art. 13 CEDU. Già in questa fase la Corte europea, al fine di valutare l’effettività del rimedio interno, verifica l’adeguatezza e l’accessibilità dei rimedi ‘in concreto’ alla luce di diversi elementi che possono influire sulla stessa effettività del rimedio[21] , quali ‘il contesto giuridico e politico’ di riferimento, la ‘situazione personale del ricorrente, gli ostacoli giuridici e pratici all’esperimento dei rimedi giurisdizionali nell’ordinamento nazionale, o ancora dai parametri che di volta in volta vengono in rilievo.

Ne deriva che la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni deve essere applicata con una certa «souplesse et sans formalisme excessif, étant donné le contexte de la protection des droits de l’homme»[22].

 

4.2. Tornando alla possibilità di adire oggi la Corte EDU senza il previo esperimento di tutti i possibili gravami interni, bisogna prendere atto che gli eventuali ricorsi ai giudici europei difficilmente supererebbero lo scoglio dell’ammissibilità.

Già in passato la Corte di Strasburgo ha dichiarato irricevibili i ricorsi presentati dai detenuti italiani per violazione dell'art. 3 CEDU non essendo stati esperiti i rimedi nelle more introdotti dal legislatore italiano (con il decreto-legge n. 23 dicembre 2013 n. 146, convertito in legge 10 febbraio 2014 n. 10) per riparare, in via preventiva o compensativa, alle violazioni dei diritti fondamentali derivanti da condizioni di sovraffollamento[23]. Sebbene, infatti, i ricorsi esaminati dalla Corte siano stati presentati prima dell'entrata in vigore dei nuovi rimedi, i giudici europei hanno richiamato i ricorrenti al generale obbligo di privilegiare gli strumenti predisposti dal diritto nazionale, riservandosi di intervenire soltanto qualora essi siano stati esperiti senza successo o si siano altrimenti rivelati ineffettivi.

Anche nella odierna situazione emergenziale il governo italiano potrebbe replicare che, oltre a tutte le misure per uscire dal carcere previste dall’ordinamento interno, ha introdotto un rimedio ad hoc – l’esecuzione domiciliare ex art. 123 decreto-legge n. 18 del 2020 – per farvi fronte. E, con riferimento ai detenuti ‘malati’, l’ordinamento penitenziario italiano prevede già gli istituti del differimento della pena e della detenzione domiciliare in surroga per fronteggiare casi di pericolo di aggravamento del quadro clinico legati al rischio epidemiologico da covid-19.

Non si può quindi sostenere che in quei casi in cui la violazione dei diritti convenzionali derivi da una legge o da un’omissione legislativa (con conseguente neutralizzazione della regola del previo esperimento di tutti i ricorsi interni); né che tali rimedi previsti nell’ordinamento italiano siano in concreto inaccessibili o non adeguati.

 

5. L’impossibilità di attendere i tempi di decisione dei relativi gravami interni ha indotto i detenuti a richiedere in via d’urgenza, ai sensi dell’art. 39 Regolamento di procedura della Corte EDU, “misure provvisorie”. La richiesta di interim measures si è basata sul divieto di trattamenti inumani e degradanti, incompatibili con la permanenza nel carcere del ricorrente. Il rischio di contagio da covid-19 – non fronteggiato attraverso l’accesso a una misura alternativa alla detenzione – si rappresenta quale elemento aggiuntivo alla configurazione della pena non contraria al senso di umanità[24].

 

5.1. Per comprendere meglio la vicenda, occorre preliminarmente ripercorrere le varie tappe procedimentali che ha visto il susseguirsi in tempi brevi numerose istanze di accesso a misure alternative o di esecuzione domiciliare.

Un detenuto di nazionalità tunisina, in espiazione di una condanna per reati in materia di droghe leggere, con un fine pena di poco più di un anno, chiedeva di eseguire presso la casa familiare il residuo di pena ai sensi dell’art. 1 legge n. 199 del 2010. L’ufficio di sorveglianza di Verona, con ordinanza del 26 febbraio 2020, ritendo il condannato ancora pericoloso (non potendo il rischio di recidiva e di fuga essere contenuto nel domicilio) rigettava la richiesta.

Il 9 marzo 2020 il predetto detenuto chiedeva di essere ammesso in via provvisoria all’affidamento in prova al servizio sociale o, in subordine, alla detenzione domiciliare ordinaria (segnalando, a quest’ultimo riguardo, la disponibilità della madre ad ospitarlo e mantenerlo nella sua abitazione), asserendo quale ‘grave pregiudizio alla protrazione dello stato di detenzione’ «l’attuale drammatica situazione venutasi a creare nella Casa Circondariale di Vicenza e, più in generale nelle carceri italiane (pericolo di contagio da covid-19 oggettiva impossibilità di rispettare le prescrizioni minime introdotte dalla recente normativa a tutela della salute presso i luoghi di detenzione)».

L’ufficio di sorveglianza di Verona, con ordinanza del 12 marzo 2020, richiamando il precedente rigetto intervenuto pochi giorni prima (per l’appunto, il 26 febbraio 2020) su altra istanza dell’esecuzione domiciliare, rigettava la richiesta in quanto nelle more non erano intervenuti elementi di novità in ordine alla ritenuta pericolosità sociale del condannato; trasmettendo il fascicolo al Tribunale di Sorveglianza di Venezia affinché trattasse il procedimento nel contraddittorio delle parti nelle sue forme ordinarie.

Nel frattempo, entrato in vigore il decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, è stata avanzata ulteriore richiesta di esecuzione domiciliare: quella introdotta dall’art. 123 del decreto cura Italia. Di tale ultima istanza, dopo vari disguidi in ordine alla ricezione dello stesso, il Magistrato di Sorveglianza di Verona ha deciso dopo che è stato promosso il ricorso alla Corte di Strasburgo, con ordinanza depositata il 17 aprile 2020, rigettando per la presenza di una causa ostativa, quella contenuta nella lettera d) dell’art. 123, comma 1 del decreto-legge n. 18 del 2020, per essere stato sanzionato disciplinarmente nell’ultimo anno[25](Provvedimento n. 1).

 

5.2. I difensori del detenuto – nel frattempo reclamanti avverso il rigetto della esecuzione domiciliare ordinaria (ordinanza del 26 febbraio) ed in attesa della fissazione da parte del tribunale di Sorveglianza di Venezia dell’udienza sulla decisione negativa di concessione provvisoria dell’affidamento in prova o della detenzione domiciliare (ordinanza del 12 marzo 2020) – visti i tempi incerti e non celeri della fissazione delle udienze e delle decisioni e non potendo attendere, a fortiori, l’esaurimento delle vie interne di gravami affinché le relative decisioni divenissero definitive, hanno adito la Corte di Strasburgo, chiedendo misure provvisorie visto il perdurare della violazione dell’art. 3 CEDU.

I giudici europei l’8 aprile 2020, hanno sospeso la trattazione, integrando l’istruzione del fascicolo con precisi quesiti posti al Governo Italiano: (i) qual è la situazione sanitaria nel carcere di Vicenza; (ii) quali misure sono state adottate per prevenire il contagio e ridurre gli effetti negativi; qual è la motivazione del magistrato di sorveglianza di Verona che ha negato la misura della detenzione domiciliare; (iii) quali sono le tempistiche di attesa per l’udienza davanti al tribunale di sorveglianza; (iv) qual è la situazione attuale del detenuto, ricorrente[26].

Dopo varie repliche e controrepliche, con missiva inviata ai difensori il 22 aprile 2020, la Corte di Strasburgo ha informato che il giudice di turno ha deciso di non indicare al governo italiano le richieste misure provvisorie concedendo alla difesa termine fino al 2 giugno 2020 per inviare, pena cancellazione della causa dal ruolo, l’originale del ricorso debitamente compilato e le copie di tutti i relativi documenti.

La circostanza che non sia stata accolta la richiesta di misure provvisorie non deve essere interpretata come un’anticipazione della posizione della Corte ma va contestualizzata nel quadro di un consolidato orientamento restrittivo in materia di misure provvisorie, le quali vengono concesse soltanto a fronte di un imminente rischio di danno irreparabile («an imminent risk of irreparable harm»)[27].

 

6. Nelle more veniva fissata il 28 aprile 2020 l’udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Venezia per la trattazione collegiale del rigetto di applicazione provvisoria di misure alternative alla detenzione del 12 marzo 2020.

Con ordinanza depositata il giorno successivo all’udienza, i giudici lagunari, pur in presenza del parere negativo del Procuratore generale, hanno concesso al condannato la detenzione domiciliare ‘ordinaria’ (Provvedimento n. 2, del 29 aprile 2020).

Le premesse per l’overturning della pronuncia interinale non erano delle migliori. Dalla informativa della polizia giudiziaria infatti si evinceva (nel ‘solito’ elenco dei precedenti del condannato) una pericolosità sociale del richiedente, dipinto quale «persona capace di commettere qualsiasi tipo di reato e non si esclude che possa darsi alla fuga».

Anche la relazione comportamentale, pur essendo positiva con riferimento ai rapporti familiari e nell’inserimento del circuito occupazionale (seppur in attesa del suo turno per lavorare intramurario) segnalava una violazione disciplinare recente, del 9 dicembre 2019, sanzionata con l’esclusione dell’attività ricreative e sportive per giorni tre, per aver impedito all’agente di chiudere il blindo, andando in escandescenza, prendendo a calci un tavolo, danneggiandolo (quella sanzione disciplinare che, come visto supra, aveva portato al rigetto dell’istanza di esecuzione domiciliare in deroga ex art. 123 decreto cura Italia).

Il Tribunale di sorveglianza ha confermato il rigetto per l’affidamento in prova per non mancanza «di allegazione di un’attività lavorativa, sociale, comunque latamente riparatoria da giustificare la concessione della misura più ampia che, nella sostanza, si rivelerebbe priva di contenuto trattamentale e rieducativo concreto».

Ha ritenuto invece sussistenti i presupposti per concedere la detenzione domiciliare ordinaria, tenuto conto dell’entità della pena residua (un anno circa ma con richiesta di liberazione anticipata in corso di istruttoria) e dell’idoneità del domicilio (considerato che il detenuto è controllabile presso i genitori, soggetti inseriti nel tessuto sociale e privi di precedenti penali).

Rimaneva l’ostacolo della pericolosità e del pericolo di fuga.

Ebbene, i giudici di sorveglianza prendono atto, da un lato, che si tratta di una semplice informativa in cui si limita ad elencare le pregresse condanne e, in considerazione di mancanze di iscrizioni relative all’apertura di nuovi procedimenti penali, non è corrispondente alla gravità di quanto segnalato; dall’altro, ritiene mancare l’attualità della pericolosità sociale in quanto risale al lontano 2010 la violazione della legge sugli stupefacenti e di modesta entità il precedente del 2014 di guida senza patente (come conferma pure la sua successiva depenalizzazione e mutatio in sanzione amministrativa). Sulla scorta di tali fatti storici – conclude il Tribunale – «non può dirsi, almeno allo stato, corroborato in termini concreti il pericolo sociale paventato dai Militari dell’arma, per l’effetto dell’espansione naturale della presunzione di non colpevolezza»[28].

Pur se non affrontato direttamente nel percorso motivazionale, anche il pericolo di fuga sembra restare allo stato ipotetico e non ancorato a non descritti elementi concreti.

Il ribaltamento è sorretto da argomentazioni condivisibili che tengono conto della carenza di ‘concretezza’ e ‘attualità’ della pericolosità, andando oltre le routinarie informative che si risolvono spesso in duplicazioni del ‘curriculum criminale’ come fotografato nel casellario giudiziale e nei carichi pendenti (e dei relativi giudizi ivi contenuti sul pericolo concreto di recidiva e di pericolo di fuga non più attuali).

 

7. L’accesso alla detenzione domiciliare sembra, almeno prima face, avere chiuso le porte all’attivazione della Corte EDU, essendo venuta meno la “materia del contendere”.

In effetti, la strada per giungere, nel caso di specie, alla lamentata violazione dell’art. 3 CEDU sotto il versante sostanziale è in salita. Anche perché nell’ordinanza in commento troviamo un passaggio ove si fa riferimento, almeno indirettamente, di una parte delle risposte del Governo ai quesiti postigli dalla Corte di Strasburgo.

Tale passaggio sembra svelare la possibile linea difensiva italiana: «quando al lamentato pericolo di contagio, l’unità operativa della sanità Penitenziaria di Vicenza, in data 10/4/2020, rispondendo all’agente di governo italiano, davanti alla CEDU, precisa che il soggetto è stato visitato in 13 occasioni a far data dall’1/11/2019 e le sue attuali condizioni sono buone.[29]. Nella risposta si legge ancora che “per quanto riguarda il riferimento all’emergenza effettiva, si precisa che un agente di polizia penitenziaria a febbraio ha contratto un’infezione virale, è stato ricoverato in ospedale, poi dimesso e guarito: attualmente è in convalescenza sta bene. L’indagine epidemiologica ha consentito di delineare i contatti stretti, che sono stati sottoposti a sorveglianza sanitaria, risultata negativa e conclusa il 10/3/2020. Successivamente e fino ad oggi non sono stati riscontrati altri casi fra il personale né fra i detenuti. L’istituto ha adottato una serie di misure, formalizzate nei documenti che codesta Direzione avrà cura di trasmettere all’agente con il duplice scopo da un lato di prevenire il contagio, dall’altro di predisporre l’organizzazione per gestire casi confermati o sospetti, allorquando si verifichino. Questa unità operativa ha fin qui svolto opera di sensibilizzazione e di informazione sul tema: a questo scopo, agli esordi dell’epidemia, il sottoscritto ha tenuto un incontro con i rappresentanti della sezione in cui è ospitato il detenuto in oggetto”».

Oltre a rispondere al detenuto del presente procedimento, tali passaggi sembrano voler ‘stoppare’ possibili iniziative in tal senso da parte di altri reclusi nel carcere vicentino, e non solo.

Si aprono tuttavia spazi per arrivare alla possibile violazione dell’art. 3 CEDU (al di là degli aspetti rilevati dalla difesa del detenuto vicentino)[30] laddove l’emergenza sanitaria si saldi con il sovraffollamento carcerario[31].

Com’è stato ben affermato – «i due fattori, se combinati assieme, rispetto alla medesima situazione, rappresentano indubbiamente una potenziale violazione dell’art. 3 CEDU (anche in relazione alla più “relativista” giurisprudenza, incardinata con il leading case Muršić c. Croazia): in ragione, infatti, di una valutazione complessiva, il sovraffollamento carcerario, da una parte, e l’emergenza sanitaria, dall’altra, potrebbero costituire due elementi rilevanti, a prescindere anche da una accertata incompatibilità soggettiva con lo stato di detenzione»[32].

 

8. L’intervento della Corte EDU, in questo momento, quindi, potrebbe rappresentare un’importante svolta, necessariamente propositiva per gli orientamenti della magistratura di sorveglianza, soprattutto di quella più restia a supplire alla contumacia del legislatore (quanto meno rispetto a tutte quelle valutazioni su casi, con patologie certificate, con segnalazioni da parte del carcere stesso, e con una situazione socio-familiare accertata).

Tuttavia, sono note le polemiche dell’ultimo periodo, legate alle ricordate concessioni di detenzioni domiciliari c.d. umanitarie a condannati sottoposti al regime del 41-bis o.p., che hanno portato alle dimissioni del Capo del Dap[33] e alla veloce introduzione di norme manifesto, che intervengono nella fase procedurale ‘precedente’[34] e ‘successiva’[35] ai suindicati provvedimenti di scarcerazione. Tali polemiche – rispedite al mittente dal Conams[36] – non giovano ai Giudici di sorveglianza, ancora di più in questa fase emergenziale e rischiano di scoraggiare le evoluzioni giurisprudenziali svuota-carceri, perfettamente aderenti invece al volto costituzionale e convenzionale di una pena “rieducativa ed umana”.

Proprio per questo la strada per Strasburgo continua ad essere percorsa, essendosi ormai aperte le porte dei ricorsi dinanzi alla Corte EDU, come dimostra il caso di un detenuto nel carcere Le Vallette di Torino risultato positivo al covid-19, che ha anch’esso richiesto interim measures.

Sono state richieste, anche in questo caso, delucidazioni al governo italiano e chiarimenti circa le condizioni dei detenuti reclusi nel carcere torinese. L’accesso alla Corte è motivato dal fatto che un soggetto detenuto presso il carcere di Torino, risultato positivo al covid-19, continua ad essere trattenuto, nonostante la direzione sanitaria dell’istituto abbia rilevato, già in data 8 aprile 2020, l’incompatibilità della malattia con la prosecuzione della detenzione. I giudici europei, preso atto del contenuto del ricorso che evidenziava tale circostanza nonché, in generale, il proliferare del contagio all’interno dell’istituto penitenziario torinese e la connessa impossibilità di garantire assistenza sanitaria continua a tutti i detenuti, ha dunque sollecitato il governo italiano a riferire in merito alle condizioni attuali del ricorrente e alle misure predisposte dalla direzione del carcere per evitare il rischio di complicazioni della malattia[37].

Stavolta, in considerazione della positività al virus (e della sua accertata diffusione in altri detenuti) e della incompatibilità con lo status detentionis del quadro clinico, la strada per configurare il trattamento inumano e degradante è sicuramente più in discesa.

 

8.1. Il diritto alla salute, al pari degli altri “diritti sociali”, non trova espresso riconoscimento nella Convenzione EDU. La Corte di Strasburgo ha però progressivamente esteso la tutela convenzionale anche a questo diritto, proprio in relazione ai detenuti in carcere, tramite una interpretazione evolutiva ed estensiva di altre disposizioni della Convenzione, soprattutto l’art. 3[38].

La Corte EDU, infatti nel dettare i parametri dai quali evincere quel livello minimo di gravità dei trattamenti inumani o degradanti, per rientrare nel campo di applicazione dell'art. 3 CEDU, ha individuato «l'età e lo stato di salute del recluso»[39]. I giudici europei hanno aggiunto come «la circostanza che un detenuto soffra di gravi e molteplici patologie, attestate da un'adeguata documentazione medica sottoposta alle autorità competenti comporta che la detenzione in carcere è incompatibile con il suo stato di salute. Il mantenimento dello stato detentivo comporta, in presenza di uno stato di salute precario, un trattamento disumano e degradante»[40].

Con specifico riferimento al detenuto gravemente malato sottoposto al carcere duro, la Corte Edu ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, per ciò che concerne il provvedimento di proroga del regime di cui all’art. 41-bis o.p., emesso nei confronti di Bernardo Provenzano. I giudici europei hanno motivato la riconosciuta violazione del divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti facendo riferimento alla insufficiente valutazione, nel provvedimento di proroga, del deterioramento delle funzioni cognitive del detenuto[41].

 

9. Tali arresti rappresentano una conferma che le recenti – e molto discusse – decisioni assunte in via provvisoria dalla magistratura di sorveglianza nei confronti di detenuti al 41-bis si pongono nell’ottica di una corretta interpretazione (anche) convenzionalmente orientata: in presenza di uno stato morboso psicofisico o scadimento fisico che possa determinare un'esistenza al di sotto della soglia del necessario rispetto della dignità umana, da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria, si ha lo sconfinamento verso una pena disumana o degradante.

Pertanto eventuali revoche delle ordinanze in cui si è disposto il differimento provvisorio delle pene nelle forme della detenzione ‘in surroga’ potrebbero portare a nuove pronunce “di condanna” in sede europea, laddove si accertasse che hanno comportato un sacrificio insostenibile del diritto di salute del detenuto, facendo privilegiare, in un bilanciamento di interessi non corretto, le esigenze di sicurezza pubblica.

Insomma, uscendo dai confini delle polemiche interne, ci sarà (come sempre) un giudice a… Strasburgo!

 

 

[1] L’espressione è di M. Gialuz, L’emergenza nell’emergenza: il decreto-legge n. 28 del 2020, tra ennesima proroga delle intercettazioni, norme manifesto e “terzo tempo” parlamentare, in questa Rivista, 1 maggio 2020, quando, sul piano metodologico, notava che l’art. 3 del decreto-legge 30 aprile 2020 n. 28 ha novellato, sconfessandole, non poche disposizioni contenute nell’art. 83, decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18. E, con perfetto sincronismo, il nuovo decreto legge è entrato in vigore lo stesso giorno di pubblicazione della legge 24 aprile 2020 n. 27, di conversione del decreto cura Italia.

[2] Si fa riferimento alle misure previste ivi previste nell’art. 2, commi 8 e 9 decreto-legge n. 11 del 2020.

[3] Proprio di recente la Corte EDU, sezione V, sentenza 2 aprile 2020, ricorsi nn. 8938/07 e 41891/07, in Quotidiano Giuridico, 15 aprile 2020, con nota di A. Scarcella, Operazione antisommossa in carcere: due detenuti morti, molti feriti. Violata la CEDU, pronunciandosi su un caso ‘georgiano’ in cui si discuteva della legittimità dei provvedimenti adottati dalle autorità investigative e giudiziarie nei confronti dei pubblici ufficiali che avevano causato la morte dei parenti dei ricorrenti, mentre gli stessi si trovavano detenuti in carcere, la Corte di Strasburgo ha, all’unanimità, ritenuto violata la norma convenzionale di cui all’art. 2 (diritto alla vita) della CEDU in entrambi i suoi aspetti, procedurali (viste le varie carenze nelle indagini delle autorità in merito ai fatti scaturiti dalle azioni antisommossa che avevano reagito a disordini nella prigione) e sostanziali.

[4] La Corte EDU, sezione III, sentenza 31 marzo 2020, nn. 82284/17, in Quotidiano Giuridico, 7 aprile 2020,con nota di A. Scarcella, Tenta il suicidio per le condizioni di detenzione e nessuna indagine viene svolta: violata la CEDU, in un caso ‘belga’ in cui si discuteva della legittimità del comportamento assunto dalle autorità giudiziarie che, chiamate ad investigare sui ripetuti tentativi di suicidio di un detenuto in carcere, affetto da disturbo psichico, avevano archiviato i procedimenti senza approfondire le ragioni del disagio dell’uomo che più volte aveva tentato di togliersi la vita in carcere, pur escludendo, a maggioranza, che vi fosse stata una violazione dell’art. 2 (perché le misure adottate dalle autorità belghe erano state effettivamente idonee ad impedire al detenuto il suicidio), ha invece, all’unanimità, ritenuto violata la norma convenzionale di cui all’art. 3 della CEDU.

[6] E. Dolcini, G.L. Gatta, Carcere, coronavirus, decreto ‘cura Italia’: a mali estremi, timidi rimedi, in questa Rivista, 20 marzo 2020.

[7] F. Gianfilippi, Emergenza sanitaria in carcere, provvedimenti a tutela di diritti fondamentali delle persone detenute e pareri sui collegamenti con la criminalità organizzata nell’art. 2 del dl 30 aprile 2020 n. 28, in Giurisprudenza penale, 3 maggio 2020, p. 2.

[8] Uff. Sorv. Spoleto, 27 marzo 2020, all’interno di A. Della Bella, La magistratura di sorveglianza di fronte al COVID: una rassegna dei provvedimenti adottati per la gestione dell’emergenza sanitaria, in questa Rivista, 29 aprile 2020. 

[9] G. Giostra, L’emergenza carceraria non è un incendio al di là del fiume, in Diritto di difesa, 28 marzo 2020. 

[10] Bollettino n. 29 dell’1 maggio 2020, in Garante nazionale privati liberta, 1 maggio 2020.

[11] Per un ampio quadro giurisprudenziale si rinvia a A. Della Bella, La magistratura di sorveglianza di fronte al COVID: una rassegna dei provvedimenti adottati per la gestione dell’emergenza sanitaria, cit.; V. Manca, Umanità della pena, diritto alla salute ed esigenze di sicurezza sociale: l’ordinamento penitenziario a prova di (contro)riforma, in Giurisprudenza penale, 2 maggio 2020.

[12] Trib. Sorv. Milano, 31 marzo 2020, in A. Calcaterra, La voce del carcere non resti inascoltata, Diritto Penale e Uomo, 15 aprile 2020, che ha trattato in tempi record, accogliendolo, il reclamo avverso l’ordinanza di rigetto dell’Uff. Sorv. Pavia, 20 marzo 2020, in Giurisprudenza penale, 22 marzo 2020; idem, altre pronunce dell’Ufficio di sorveglianza di Milano, e dello stesso Magistrato, la Dott.ssa Calzolari, emesse il 16, 23 e 26 marzo 2020, ivi. Sulla stessa linea, Uff. Sorv. Brescia, 3 aprile 2020, ivi: «la reclusione in carcere di per sé aumenta e non diminuisce il contagio, nonostante tutte le precauzioni prese; che infatti resta rilevante il numero di persone che entra ed esce quotidianamente dall’istituto e che, pur sottoposto positivamente al c.d triage, potrebbe essere portatore in quel momento asintomatico del virus e per tale motivo ancora più pericoloso nella sua capacità infettante». Per tali ragioni è stato disposto la detenzione domiciliare umanitaria, in via d’urgenza e provvisoria, in presenza di patologie croniche, anche rapportate all’età. 

[13] Uff. Sorv. L’Aquila, 26 marzo 2020 in A. Calcaterra, La voce del carcere non resti inascoltata, cit. not. prec.  

[14] Uff. Sorv. Milano, 20 aprile 2020, in Diritto Penale e Uomo, 29 aprile 2020, con nota di S. Raffaele, Dal 41-bis ai domiciliari: l’ordinanza Bonura; Trib. Sorv. Sassari, 23 aprile 2020, in Giurisprudenza penale, 25 aprile 2020, con nota di G. Stampanoni Bassi, Il differimento dell’esecuzione della pena nei confronti di Pasquale Zagaria: spunti in tema di bilanciamento tra diritto alla salute del detenuto (anche se dotato di “caratura criminale”) e interesse pubblico alla sicurezza sociale.

[15] Invero, la Corte costituzionale, con sentenza 24 aprile 2020, n. 74, in Giurisprudenza penale, 25 aprile 2020, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 50, co. 6, o.p. nella parte in cui non consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà ‘surrogatoria’ dell’affidamento in prova al servizio sociale, ai sensi dell’art. 47, co. 4, o.p. in quanto compatibile (quindi per i residui di pena fino a quattro anni). Tuttavia, le modalità esecutive della misura alternativa in questione sono allo stato ovviamente ‘incompatibili’ con l’emergenza sanitaria in atto in ragione della continua spola cui è chiamato il semilibero fra carcere e società esterna.

[16] In uno primo momento si pensava che l’unico gravame esperibile avverso il rigetto della esecuzione domiciliare fosse il ricorso per cassazione, ma è stata la stessa Suprema Corte a statuire che «la decisione sulla richiesta di esecuzione della pena presso il domicilio è reclamabile dinanzi al tribunale di sorveglianza atteso il richiamo operato dall’art. 1, co. 5, legge 199 del 2010 all’art. 69-bis o.p, e non è pertanto immediatamente ricorribile per Cassazione» (Sez. I, sentenze n. 7290 del 2014 e 7943 del 2013). 

[17] A. Di Stefano, Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e principio di sussidiarietà. Contributo ad una lettura sistematica degli articoli 13 e 35, Catania, 2009, p. 150.

[18] C. Siccardi, I ricorsi “in via diretta” alla Corte EDU riguardanti una legge o un’omissione legislativa: una potenziale alternativa al giudizio in via incidentale?, in Atti del Seminario del gruppo di Pisa Il sistema “accentrato” di costituzionalità, Università di Pisa (nel sito https://www.gruppodipisa.it, 17 gennaio 2020), p. 148.

[19] Più specificamente, la Corte afferma che la regola dell’esaurimento dei rimedi interni «si basa sull’ipotesi, oggetto dell’articolo 13 della Convenzione - e con il quale essa presenta strette affinità -, che l’ordinamento interno offra un ricorso effettivo per quanto riguarda la violazione dedotta»: da ultimo,  Corte EDU, Sez. I, 24 gennaio 2019, Cordella e altri c. Italia, sul noto ‘caso Ilva’, in Diritto Penale Contemporaneo, 19 marzo 2019, con nota di S. Zirulia, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, § 120.

[20] Sull’esaurimento verticale e orizzontale cfr., amplius, Corte EDU, Grande Camera, Scoppola c. Italia (n. 2), 17 settembre 2009, ricorso n. 10249/03.

[21] Sulla valutazione in concreto del requisito dell’adeguatezza è possibile richiamare proprio la sentenza Torregiani c. Italia, dell’8 gennaio 2013. In questo caso, la Corte europea ritiene che i ricorrenti «non siano quindi tenuti ad esaurire i rimedi segnalati dall’eccezione del Governo prima di adire la Corte», in considerazione del fatto che il rimedio segnalato dal Governo -il reclamo al magistrato di sorveglianza - non è adeguato “nella pratica”, vale a dire inidoneo a «impedire il protrarsi della violazione denunciata e assicurare ai ricorrenti un miglioramento delle loro condizioni materiali di detenzione». La Corte, in questo caso, prescinde da qualsiasi valutazione sulla vincolatività delle decisioni della magistratura di sorveglianza nell’ordinamento italiano, osservando come nei fatti «le autorità penitenziarie italiane non siano in grado di eseguire le decisioni dei magistrati di sorveglianza e di garantire ai detenuti condizioni detentive conformi alla Convenzione».

[22] Corte EDU, sentenza 9 giugno 2013, ric. 12036/05, Sica c. Roumania, § 47; cfr, C. Siccardi, I ricorsi “in via diretta” alla Corte EDU riguardanti una legge o un’omissione legislativa: una potenziale alternativa al giudizio in via incidentale?, cit., p. 149.

[23] Corte EDU, Sez. II, decreti 25 settembre 2014, Stella e altri c. Italia, ric. n. 49169/09 e Rexhepi e altri c. Italia, ric. n. 47180/10, in Diritto Penale Contemporaneo, 7 novembre 2014, con nota di A. Martufi, La Corte EDU dichiara irricevibili i ricorsi presentati dai detenuti italiani per violazione dell'art. 3 CEDU senza il previo esperimento dei rimedi ad hoc introdotti dal legislatore italiano per fronteggiare il sovraffollamento.

[24] Come scrive D. Aliprandi, Coronavirus in carcere, ora interviene la Cedu, ne Il Dubbio, 10 aprile 2020, nel ricorso alla Cedu – oltre a segnalare che la decisione del magistrato di Sorveglianza non abbia rispettato il requisito della “base legale” – venivano descritte le attuali condizioni del detenuto, recluso in una cella di 7-8 mq unitamente ad altro detenuto per 20 ore al giorno e con la possibilità di usufruire di 4 ore all’aria aperta in un cortile di 200 metri quadrati da condividere con altri 50 detenuti. Per bocca degli avvocati che hanno presentato il ricorso, «in sostanza alla Corte Europea è stata segnalata la violazione dell’art. 3 CEDU per trattamenti inumani e degradanti chiedendo una misura urgente e provvisoria, ovverosia che il detenuto sia posto in detenzione domiciliare anche senza “braccialetto elettronico”, essendo notoria la cronica carenza di tali strumenti o, in alternativa, che sia posto in condizioni di sicurezza tali da rispettare le norme sanitarie e pertanto in cella singola con tutti i presidi necessari». 

[25] Uff. Sorv. Verona, 17 aprile 2020, ha escluso l’applicazione della nuova esecuzione domiciliare perché risulta «dalla relazione redatta dalla Casa circondariale di licenza, che il detenuto è stato sanzionato il 17.12.2019 (e quindi nell’ultimo anno) per l’infrazione disciplinare di cui all’art. 77, comma 1, n. 21 del DPR 30.06.2000, n. 230 (fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, di operatori sanitari o di visitatori), per cui ha riportato la sanzione disciplinare dell’esclusione delle attività ricreative e sportive per giorni 3; nel caso di specie, egli è stato rapportato, sanzionato e denunciato all’A.G. per resistenza a pubblico ufficiale, per avere impedito ad un operatore della Polizia penitenziaria di chiudere il blindo». 

[26] V. Manca, Ostatività, emergenza sanitaria e Covid-19: le prime applicazioni pratiche, in Giurisprudenza Penale, 14 aprile 2020, p. 8.

[27] Come ricordano S. Zirulia-F. Cancellaro, Caso Sea Watch: cosa ha detto e cosa non ha detto la Corte di Strasburgo nella decisione sulle misure provvisorie, in Diritto Penale Contemporaneo, 26 giugno 2019, «in base agli ultimi dati disponibili, la Corte accoglie le richieste di interim measures soltanto nel 20% dei casi. Del resto, l’efficacia delle misure in questione, che sono a tutti gli effetti vincolanti per gli Stati, discende proprio dal loro carattere eccezionale, che favorisce il contenimento del loro numero assoluto e consente così alla Corte di evaderle con priorità assoluta nel giro di pochissime ore».

[28] Si ricorda che, «In tema di misure alternative alla detenzione, il giudice, nell'esaminare le relazioni provenienti dagli organi deputati all'osservazione del condannato, non è, in alcun modo, vincolato dai giudizi di idoneità ivi espressi ma è tenuto soltanto a considerare le riferite informazioni sulla personalità e lo stile di vita dell'interessato, parametrandone la rilevanza ai fini della decisione alle istanze rieducative e ai profili di pericolosità dell'interessato, secondo la gradualità che governa l'ammissione ai benefici penitenziari»: Cass. pen., Sez. I, n. 23343 del 2017.

[29] Il grassetto è contenuto nell’ordinanza in commento.

[30] Come si legge su Il Dubbio, 30 aprile 2020, «Ma gli avvocati non sono comunque soddisfatti per l’esito avuto con la Cedu. Per questo con molta probabilità, proseguiranno nel giudizio davanti alla Corte europea al fine di ottenere il riconoscimento del fatto che per il loro assistito vi è stata comunque violazione dell’art. 3 (costringere inutilmente una persona, in un contesto di pericolo di contagio, a rimanere in carcere quando non assolutamente necessario costituisce, per gli avvocati Di Credico e Ghini, un trattamento inumano e degradante) e se vi è stato – nelle repliche del governo – un atteggiamento sanzionabile».

[31] Proprio nella sentenza pilota Torreggiani la Corte EDU ha qualificato la permanenza in carcere, in condizioni igienico-sanitarie precarie, con uno spazio personale inferiore ai 3 mq, come un trattamento inumano, integrante la soglia minima di gravità di cui all’art. 3 CEDU.

[32] V. Manca, Umanità della pena, diritto alla salute ed esigenze di sicurezza sociale: l’ordinamento penitenziario a prova di (contro)riforma, cit., pp. 8-9.

[33] Sulle quali, vedi, M. Passione, Cambi di stagione, in Ristretti, 3 maggio 2020.

[34] Si fa riferimento all’art. 2 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, che ha modificato la disciplina degli art. 30-bis e 47-ter o.p., in relazione ai permessi c.d. di necessità e alla detenzione domiciliare c.d. umanitaria o ‘in surroga’, aggiungendo un parere obbligatorio sull’istanza che i giudici di sorveglianza devono richiedere al procuratore antimafia in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto: quello distrettuale, se la decisione riguarda l’autore di uno dei gravi reati elencati nell’art. 51 co. 3 bis e co 3 quater c.p.p., anche quello nazionale, se riguarda un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale del 41 bis. Si rinvia ad A. Della Bella, Emergenza COVID e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in questa Rivista, 1 maggio 2020.

[35] Pochi giorni dopo al decreto-legge n. 28 del 2020, ne è stato emanato un altro  il 10 maggio 2020 n. 29, «Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, terroristico e mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati», in questa Rivista, 11 maggio 2020, che ha previsto un costante monitoraggio della «permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile». Per una prima e immediata applicazione del neo decreto, in cui è stata disposta la revoca della detenzione domiciliare umanitaria concessa in via provvisoria, Uff. Sorv. Siena, 12 maggio 2020, in Diritto e Giustizia, 13 maggio 2020, con annotazione, se vis, di C. Minnella, Rientro in carcere per il detenuto malato in 41-bis.

[36] Il Comitato Nazionale dei magistrati di sorveglianza è prontamente intervenuto per far sentire la sua voce. In un comunicato del 28 aprile 2020, in Ristretti, 29 aprile 2020, respinge con forza la campagna di sistematica delegittimazione, che in alcuni casi si è spinta fino al dileggio, proveniente da più parti, anche da autorevoli esponenti della Magistratura e delle Istituzioni, suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni condannati, esponenti di pericolose associazioni criminali e per questo sottoposti al regime dell’art. 41-bis. Rammenta altresì «che ogni decisione, anche quella adottata d’urgenza, è destinata ad essere discussa nel pieno contraddittorio delle parti pubbliche e private ed è ricorribile nei successivi gradi di giudizio».

[37] Il Dubbio, 30 aprile 2020.

[38] F. Cecchini, La tutela del diritto alla salute in carcere nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Diritto Penale Contemporaneo, 23 gennaio 2017.

[39] Corte Edu, Sez. IV, sentenza 1 settembre 2015, n. 20034.

[40] Corte, Edu, Sez. II, sentenza 11 febbraio 2014, n. 7509.

[41] Corte EDU, Sez. I, sentenza 25 settembre 2018, Provenzano c. Italia, ric. 55080/13, in Diritto Penale Contemporaneo, 29 ottobre 2018, con nota di G. Alberti, Caso Provenzano: la Corte Edu riconosce una violazione dell'art. 3 Cedu con riferimento all'ultimo decreto di proroga del 41-bis.