C. App. Bari, Sez. II pen., ord. 18 maggio 2020, Pres Iacovone, rel. Gadaleta
1. Con l’ordinanza che può leggersi in allegato, la Corte d’appello di Bari ha sollevato questione di legittimità costituzionale – per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. add. n. 1 CEDU – dell’art. 44, comma 2, d.P.R. 380/2001 (T.U. edilizia), nella parte in cui consente di applicare una confisca di carattere sproporzionato, al metro dei parametri delineati dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 28.6.2018, G.I.E.M. e altri c. Italia.
La norma censurata – l’art. 44 T.U.Ed. – impone infatti al giudice penale di disporre la confisca (c.d. urbanistica) dei «terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite» quando pronunci «sentenza definitiva» che «accerta che vi è stata lottizzazione abusiva», ossia quando risultino integrati gli estremi del reato previsto e punito dall’art. 30 del medesimo T.U.Ed.
Nella prospettazione della Corte rimettente, la violazione del principio di proporzionalità dipenderebbe dal fatto che la norma prescrive la confisca quale conseguenza necessaria e obbligata in caso di accertamento del reato, anziché consentire l’applicazione in via principale di una misura meno grave, quale quella dell’obbligo di procedere all’adeguamento parziale delle opere eseguite per renderle conformi alle prescrizioni della pianificazione urbanistica. La mancata previsione di misure meno afflittive impedisce – secondo i giudici a quibus – di rendere la risposta sanzionatoria all’illecito proporzionata alla condotta degli imputati, in particolare laddove la loro responsabilità si connoti in concreto per un disvalore tenue, determinato da una condotta solo lievemente colpevole e da una destinazione d’uso delle opere solo parzialmente diversa da quella legittima.
2. Nel caso di specie, il Collegio barese si trova a dover giudicare oltre cento imputati – tra costruttori, progettisti, direttori dei lavori, assegnatari dei lotti, acquirenti e funzionari comunali – condannati in primo grado per il reato di lottizzazione abusiva di cui all’art. 30, comma 1, T.U.Ed. In concorso tra loro, avrebbero realizzato – nella zona della costa pugliese di Giovinazzo – una vasta zona residenziale ad uso abitativo, con trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, in violazione delle prescrizioni contenute nel piano urbanistico generale (P.R.G.). In estrema sintesi degli articolati capi d’imputazione, può osservarsi che la lottizzazione contestata riguarda essenzialmente il mancato rispetto del P.R.G. nella parte in cui, definendo l’area in questione come “artigianale”, consentiva la realizzazione di edifici “residenziali” nella misura massima del 25%, ed in stretta connessione operativa con l’attività artigianale. L’edificazione ad uso abitativo realizzata oltre questa soglia percentuale risulta pertanto integrare il reato di lottizzazione abusiva ai sensi dell’art. 30 T.U.Ed. e, quindi, è confiscabile ai sensi dell’art. 44 T.U.Ed.
Successivamente alle pronunce di condanna intervenute in primo grado, tuttavia, i reati si sono estinti per prescrizione. La Corte d’appello, si trova nondimeno a dover disporre ugualmente la confisca c.d. urbanistica di cui all’art. 44 T.U.Ed. in forza del disposto dell’art. 578-bis c.p.p., a tenore del quale «quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato». Il riferimento alle «altre disposizioni di legge» è stato ritenuto idoneo dalle Sezioni unite Perroni [1] a rendere applicabile la disposizione processuale anche alla confisca di cui all’art. 44 T.U.Ed., che dunque i giudici dell’impugnazione si trovano a dover disporre nel giudizio a quo, nonostante il proscioglimento degli imputati per estinzione del reato per prescrizione.
3. Per quanto il tema dell’applicazione della confisca urbanistica in caso di proscioglimento per prescrizione sia probabilmente ormai ben noto, può nondimeno essere utile ripercorrerne per sommi capi le tappe evolutive principali.
Si rammenterà come la questione affondi le proprie radici nella qualificazione della confisca urbanistica quale “sanzione penale”, operata dalla Corte Edu nella sentenza Sud Fondi c. Italia del 2009, sulla scorta di vari argomenti: il collegamento con un fatto di reato, l’applicazione da parte del giudice penale all’esito di un processo finalizzato all’accertamento del reato, e la finalità punitiva della misura[2]. In quella sentenza la Corte europea aveva anche affermato che l’applicazione di tale misura ablatoria in caso di assoluzione per difetto di colpevolezza determinato dall’errore inevitabile e scusabile nell’interpretazione della legge costituisce una violazione dell’art. 1 Prot. add.
Successivamente alla sentenza Sud Fondi, la giurisprudenza di legittimità, ancora restia a mutare il proprio indirizzo che qualificava come “amministrativa” la misura in esame, aveva tuttavia iniziato a richiedere costantemente che la confisca in caso di proscioglimento venisse disposta solo quando il reato fosse stato accertato in tutti i suoi elementi, oggettivi e soggettivi[3]. Accertamento, quest’ultimo, che la Cassazione ha ritenuto compatibile con pronunce di proscioglimento per prescrizione, a fronte delle quali la giurisprudenza aveva continuato a disporre la confisca[4].
La “prassi” italiana di applicare la confisca con la sentenza di proscioglimento per prescrizione – tuttavia – venne anch’essa censurata dalla Corte di Strasburgo, nella sentenza Varvara c. Italia del 2013[5], che riscontrò una violazione dell’art. 1 Prot. add. n. 1 CEDU, in ragione dell’assenza di una adeguata “base legale”, da cui discenderebbe altresì una violazione dell’art. 7 CEDU[6].
Alla sentenza Varvara hanno fatto presto seguito due questioni di legittimità costituzionali: da un lato, dell’art. 44 T.U.Ed. per violazione dell’art. 117 c. 1 Cost. e 7 CEDU[7]; dall’altro, dell’interpretazione fornita dalla Corte EDU per contrasto con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117 Cost[8]. Entrambe le questioni sono state dichiarate inammissibili dalla Corte costituzionale nella celebre sentenza n. 49 del 2015[9], che colse però l’occasione per affermare che la sentenza che accerta la prescrizione di un reato è compatibile con un pieno accertamento di responsabilità, sufficiente a giustificare l’applicazione della confisca.
Il diritto vivente successivo ha così tratto legittimazione per proseguire nella propria “prassi”[10], alla quale è stato tuttavia apportato dalle Sezioni unite Lucci del 2015 – ancorché in occasione di un giudizio attinente alla confisca di cui all’art. 322-ter c.p. prevista per i delitti contro la P.A. – l’ulteriore condizione che quell’accertamento di responsabilità sufficiente a giustificare la confisca si fosse cristallizzato in una pronuncia di condanna in un precedente grado di giudizio.
Un sostanziale avallo all’opinione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49/2015, e al principio di diritto affermatosi nel diritto vivente italiano successivo, è giunta dalla Grande Camera della Corte EDU con la sentenza G.I.E.M. e altri c. Italia del 2018. La Corte europea, discostandosi dal proprio precedente rappresentato dalla già menzionata sentenza Varvara, ha dichiarato la compatibilità con l’art. 7 CEDU della confisca urbanistica disposta a seguito di un accertamento che, pur non essendo racchiuso in una sentenza “formale” di condanna, ne presenti i requisiti sostanziali, cioè contenga una verifica della sussistenza di tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, del reato di lottizzazione abusiva.
4. Quanto appena esposto circa la riconosciuta applicabilità della confisca in sede di proscioglimento per prescrizione, è utile per apprezzare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale in esame e, dunque, la sua ammissibilità sotto questo profilo. La Corte d’appello di Bari, infatti, si trova a dover applicare la confisca di cui all’art. 44 T.U.Ed. nei confronti di imputati, condannati in primo grado per il reato di lottizzazione abusiva, con affermazione di responsabilità ribadita nell’ordinanza in commento, i quali debbono essere prosciolti per intervenuta prescrizione del reato.
5. Quanto alla sua non manifesta infondatezza, invece, acquista maggiore interesse un diverso profilo emerso nella menzionata sentenza G.I.E.M. e altri c. Italia. Nella stessa pronuncia, infatti, la Grande Camera ha rinvenuto una violazione della Convenzione sotto tre profili: a) quello della possibilità di disporre la confisca urbanistica nei confronti della persona giuridica che non abbia preso parte al procedimento penale, dichiarata in contrasto con l’art. 7 CEDU; b) quello della violazione della presunzione di innocenza ex art. 6 § 2 CEDU in relazione al ricorrente, persona fisica, cui era stata applicata la confisca con la pronuncia di proscioglimento per prescrizione da parte della Cassazione in seguito ad un’assoluzione piena conseguita nel precedente grado d’appello; c) quello della natura sproporzionata della confisca al metro dell’art. 1 Prot. add. n. 1 CEDU.
Tra questi – non ponendosi in questo caso un problema di applicazione della misura alla persona giuridica, né essendo stati sollevati profili di contrarietà con il principio di presunzione di innocenza – viene in rilievo esclusivamente quello della violazione dell’art. 1 Prot. add. n. 1 CEDU, in ragione del carattere asseritamente sproporzionato della confisca in questione.
6. L’art. 1 Prot. add. n. 1 CEDU tutela il diritto alla proprietà privata, apprestando anzitutto una garanzia consistente in un “obbligo negativo” per lo Stato, chiamato ad astenersi da comportamenti che interferiscano illegittimamente con l’uso individuale dei beni. Secondo la lettura datane dalla consolidata giurisprudenza della Corte EDU, l’interferenza con il diritto di proprietà personale – sub specie di privazione o limitazione dello stesso – di per sé legittimo per regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale, diventa illegittimo allorché non vengano rispettati i fondamentali requisiti di legalità, giusto procedimento e proporzione.
Il primo requisito consiste nella presenza di una base legale chiara, precisa e accessibile, che assicuri una sostanziale prevedibilità, come non da ultimo ribadito dalla Grande Camera nella sentenza de Tommaso c. Italia del 2017, con cui è stata messa un’ipoteca sul sistema delle misure di prevenzione, poi direttamente inciso dalle sentenze n. 24 e n. 25 della Corte costituzionale.
Il secondo requisito impone il rispetto di garanzie procedurali nell’applicazione della misura (quali la ragionevole durata della procedura, la possibilità di allegare in giudizio le ragioni a sostegno della propria pretesa e, più in generale, il rispetto del diritto di difesa); garanzie spesso e volentieri richiamate dalla Corte di Strasburgo anche quale parametro al metro del quale vagliare il rispetto del terzo requisito di cui si è detto: la proporzione.
È proprio la misura proporzionata o meno della confisca in esame a venire in rilievo nel nell’odierna questione. È anche, probabilmente, quello dei tre requisiti che impone una più complessa indagine, che guardi alla giustificazione della misura “a tutto tondo”, tant’è che le ipotesi che la giurisprudenza europea riconduce a tale vaglio sono davvero numerose e variegate. Il parametro di riferimento, in questo giudizio, è in linea teorica rappresentato dall’esistenza di un “interesse pubblico” (concetto in cui vengono compendiate le locuzioni «pubblica utilità» e «interesse generale» a cui fa riferimento la disposizione del Protocollo), rispetto al perseguimento del quale la misura deve risultare adeguata.
Tale giudizio di proporzionalità condotto dalla giurisprudenza europea viene generalmente declinato in termini di assenza di mezzi meno invasivi per addivenire al medesimo scopo oppure di possibilità di modulazione di quella misura in modo da renderla meno afflittiva.
In questo senso si è espressa anche la Grande Camera nella sentenza G.I.E.M. e altri c. Italia, affermando che, al fine di valutare la proporzionalità della confisca, possono essere presi in considerazione i seguenti tre elementi: «[1] la possibilità di adottare misure meno restrittive, quali la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; [2] la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; [3] il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione» (§ 301).
La conclusione della Corte di Strasburgo è stata dunque che «[l]’applicazione automatica della confisca in caso di lottizzazione abusiva prevista – salvo che per i terzi in buona fede – dalla legge italiana è in contrasto con questi principi in quanto non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione» (§ 303).
7. Su quest’ultima pronuncia europea fa leva oggi la Corte d’appello di Bari per sostenere la contrarietà dell’art. 44 T.U.Ed. – per il tramite, naturalmente, dell’art. 117, primo comma, Cost. – con l’art. 1 Prot. add. n. 1 CEDU.
Nella prospettazione del Collegio rimettente, l’obbligatorietà della confisca, unita alla sua rigidità intrinseca, determinerebbe l’applicazione di una misura eccessivamente afflittiva, sproporzionata rispetto al grado di responsabilità degli imputati o – sembra intendersi dall’ordinanza – di almeno una parte di essi, la cui condotta si è caratterizzata per un disvalore soggettivo, in termini di colpevolezza, particolarmente lieve.
A fronte di una lunga catena di responsabilità, che «ha coinvolto figure pubbliche e professionisti privati, tutti dolosamente impegnati a raggiungere il risultato vietato», la Corte d’appello ritiene particolarmente inadeguata una confisca che colpisca «l’anello debole e finale del meccanismo, rappresentato dai proprietari che, per una negligenza non scusabile sul piano giuridico ma comunque limitata, subirebbero un danno enorme dalla perdita della proprietà acquistata con grandi sacrifici familiari e vedrebbero destinata la proprietà lottizzata, per giunta, proprio al Comune, i cui principali esponenti sono stati i protagonisti negativi della creazione della situazione fondatamente riscontrata dagli inquirenti». Ad acuire il senso di sproporzione, invero, si aggiunge la circostanza per cui – come spesso avviene in questi casi – proprio gli amministratori comunali, i tecnici degli uffici preposti ai controlli e i dirigenti del settore urbanistico hanno contribuito a realizzare l’illecito con condotte violative della normativa urbanistica primaria locale: sicché – osserva la Corte – la confisca determinerebbe il risultato paradossale della destinazione finale degli immobili proprio al patrimonio dell’ente pubblico – il Comune di Giovinazzo – i cui pubblici rappresentanti hanno giocato un ruolo determinante nella commissione del reato presupposto della misura.
Pertanto, il Collegio rimettente ritiene che sarebbe inutilmente vessatoria ed eccessivamente gravosa la misura della confisca, laddove applicata senza aver previamente concesso agli imputati di provvedere a un adeguamento sostanziale dei luoghi abusivamente lottizzati.
L’art. 44 T.U.Ed. non ammette tuttavia soluzioni sanzionatorie meno gravi della confisca in caso di accertamento della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi del reato di lottizzazione abusiva e di comprovata colpa anche dei terzi acquirenti. Una diversa interpretazione della norma così strutturata – osserva la Corte d’appello – condurrebbe ad una «inammissibile operazione creativa».
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8. Una tale operazione creativa – che i giudici a quibus ritengono loro preclusa in sede di interpretazione orientata – è invece domandata alla Corte costituzionale.
Il petitum appare invero ritagliato nel senso di richiedere una declaratoria di incostituzionalità della norma censurata nella parte in cui prevede la confisca come misura obbligatoria e automatica, anziché prevedere che la stessa – quando in concreto risulti sproporzionata – venga applicata solamente qualora non risultino utilmente adempiuti obblighi di adeguamento delle opere alle prescrizioni della pianificazione urbanistica entro un termine prestabilito.
Sembra cioè chiedersi alla Corte di permettere al giudice che accerti la lottizzazione abusiva – in sede di condanna o di proscioglimento per prescrizione che contenga l’accertamento della responsabilità – di prescrivere, in prima battuta, obblighi di rispristino consistenti nell’adeguamento delle opere alle prescrizioni urbanistiche e, solo in seconda battuta – ove tali obblighi risultino inadempiuti o ab origine irrealizzabili – di applicare la confisca.
Nelle motivazioni dell’ordinanza di rimessione si individua, quale esempio di soluzione percorribile, il disposto dell’art. 98, terzo comma, T.U.Ed., il quale prevede, in alternativa all’ordine di demolizione a seguito della violazione della normativa antisismica, la possibilità di impartire le «prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi alle norme stesse, fissando il relativo termine».
9. Quest’ultima indicazione, sebbene svolta quasi en passant dalla Corte d’appello in una parentesi nascosta tra le pieghe della motivazione, appare determinante nella fisionomia della questione di costituzionalità prospettata.
Infatti, l’individuazione di un “punto di riferimento” già presente all’interno dell’assetto legislativo al fine di ricucire il vulnus costituzionale presente nella norma censurata risulterebbe inevitabile qualora la Corte dovesse scorgere un’effettiva violazione del principio di proporzionalità come sopra declinato. In tal caso, l’accoglimento (se non addirittura l’ammissione) della questione dovrebbe passare per l’individuazione di una soluzione già esistente nell’ordinamento positivo con la quale sostituire quella adottata dalla norma censurata, secondo quanto richiesto dalla giurisprudenza costituzionale.
Al riguardo può essere utile rammentare come il giudizio sulla proporzionalità del trattamento sanzionatorio penale abbia vissuto negli ultimi anni una netta evoluzione nella giurisprudenza costituzionale, storicamente calibrata su una spiccata deferenza verso il legislatore, con conseguente self restraint, che non trovava eguali nelle altre branche del diritto.
Un primo deciso cambio di rotta si è apprezzato con la sentenza n. 236 del 2016: in quella pronuncia la Corte strutturò il giudizio di proporzionalità sulla pena non già – come sempre avveniva sino ad allora – su una disparità di trattamento tra la norma censurata e un’altra assunta come tertium comparationis, bensì sull’irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio penale oggetto del proprio sindacato. In altri termini, alla possibilità di un giudizio triadico (in base al quale, alla luce di una prima norma, quella costituzionale, si mettevano a confronto altre due norme, quella censurata e quella assunta come tertium comparationis), si è aggiunta l’ammissibilità di un giudizio diadico, in forza del quale la fondatezza della questione viene valutata mettendo in diretto raffronto la norma censurata e i parametri costituzionali invocati, ricorrendo ad una terza norma (il tertium comparationis) soltanto allo scopo di individuare una soluzione già presente nel sistema legislativo con la quale sostituire quella in contrasto con la Carta fondamentale.
Un ulteriore passo è stato poi compiuto con la sentenza n. 222 del 2018, con cui la Corte ha precisato che non è necessario che quel riferimento normativo già presente nell’ordinamento, e assunto quale tertium al fine di individuare il quadro sanzionatorio risultante dalla dichiarazione di illegittimità, sia l’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima: non occorre, cioè, che la decisione della Corte si presenti “a rime obbligate”. Essenziale e sufficiente – ha affermato la Corte – è che il sistema offra complessivamente precisi punti di riferimento immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligati”, che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima. Ciò al dichiarato intento – da un lato – di assicurare «una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore», che rischierebbero altrimenti di rimanere di fatto privi di protezione, e – dall’altro – di permettere al legislatore di intervenire in qualsiasi momento a «individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali», secondo uno schema poi sperimentato anche in altre pronunce (tra cui, in materia di stupefacenti, la sentenza n. 40 del 2019).
10. Il punto di riferimento individuato nell’ordinanza di rimessione – come detto – è rappresentato dall’art. 98, comma 3, T.U.Ed.
La norma, a ben vedere, non si occupa di confisca, prevedendo l’ordine di adeguamento come alternativa alla diversa misura della demolizione. Ciò può rappresentare senz’altro un ostacolo all’utilizzabilità di questo tertium comparationis. Un ostacolo, tuttavia, che potrebbe rivelarsi non insormontabile, laddove si ravvisi in questa previsione un’analoga ratio di graduazione della risposta sanzionatoria ispirata evidentemente al canone della proporzionalità.
Del resto la norma consente di ricorrere all’obbligo di adeguamento in relazione a una violazione – quella della normativa antisismica – che appare probabilmente anche più grave della violazione delle prescrizioni urbanistiche che può dar luogo alle sanzioni penali e alla confisca di cui all’art. 44 T.U.Ed.
L’ordine di adeguamento – peraltro – è un rimedio previsto anche in altri ambiti della stessa legislazione in materia edilizia: l’art. 131, comma 4, T.U.Ed., ad esempio, prevede che, «in caso di accertamento di difformità su opere terminate il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina, a carico del proprietario, le modifiche necessarie per adeguare l’edificio alle caratteristiche previste dal[le norme per il contenimento del consumo di energia negli edifici di cui al Capo VI del medesimo testo unico]».
11. L’individuazione di un siffatto tertium comparationis e, ancor prima, la formulazione del petitum del rimettente sembrano far emergere un dato di evidente peculiarità dell’odierno quesito rivolto alla Corte. Esso, infatti, non sembra incentrato sul carattere intrinsecamente sproporzionato della confisca, quanto più sull’assenza di graduabilità della risposta sanzionatoria penale lato sensu intesa.
In passato, infatti, il sindacato di proporzionalità della pena ha riguardato l’eccessiva gravità della cornice edittale (ad esempio nella già citata sentenza n. 236 del 2016) o l’eccessiva durata di una pena fissa (nella sopra richiamata sentenza n. 222 del 2018) oppure – con riferimento alle misure ablatorie patrimoniali – l’eccessivo importo confiscabile (come di recente avvenuto in relazione alla confisca del prodotto dei reati di market abuse di cui all’art. 187-sexies T.U.F., questione sollevata dalla Cassazione dinanzi alla Consulta e accolta con la sentenza n. 112 del 2019).
Neppure si richiede alla Corte costituzionale di rendere graduabile ex se la confisca da parte del giudice in modo da renderla proporzionata: non si domanda cioè di permettere al giudice di commisurare il quid o il quantum confiscabile in base alla concreta gravità del fatto, alla stregua di una qualsiasi pena pecuniaria. Del resto, una questione così formulata – in quanto volta a introdurre un assoluto novum nell’ordinamento – si sarebbe verosimilmente scontrata contro il muro dell’inammissibilità eretto dalla Consulta nelle sentenze n. 186 del 2011 e n. 252 del 2012, anch’esse relative alla confisca prevista dall’art. art. 187-sexies T.U.F. Se infatti è vero che la qualificazione come “sanzione penale” della confisca pare stridere con il suo carattere fisso (nel senso di non commisurabile dal giudice in rapporto al grado di responsabilità personale), è anche vero che sembra arduo che la Corte decida di spingersi fino all’introduzione nell’ordinamento di uno strumento del tutto nuovo nel panorama legislativo, non solo italiano, quale sarebbe una confisca "ad oggetto graduabile".
Con l’ordinanza in commento si censura, invece, il fatto che il carattere obbligatorio e automatico della confisca precluda al giudice di esperire, quanto meno in un primo momento, la meno grave soluzione dell’ordine adeguamento. E lo si fa – peraltro – invocando esclusivamente il parametro costituzionale dell’art. 117, primo comma, Cost. in riferimento all’art. 1 del primo Protocollo addizionale, relativo al diritto di proprietà. Quindi non solo si tralascia il tradizionale combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., sul quale la Consulta ha costruito l’edificio del giudizio di proporzionalità delle sanzioni (formalmente e/o sostanzialmente) penali; ma si invoca un parametro convenzionale (l’art. 1 del Protocollo) che non attiene alla “materia penale” in senso stretto, essendo invece applicabile a qualsiasi misura – anche civile o amministrativa – che incida sul diritto di proprietà personale. Ciò a riprova del carattere trasversale del principio di proporzionalità, quale garanzia (o diritto fondamentale della persona) operante a prescindere dalla natura giuridica sostanziale dell’istituto; nonché – più in generale – di come la qualificazione in termini “penali” di misure ablatorie patrimoniali non sia sempre indispensabile ai fini dell’individuazione di un adeguato statuto garantistico di riferimento[11].
12. Così strutturando l’odierna questione di costituzionalità, la Corte rimettente ritiene possibile che la Corte costituzionale adegui la norma censurata sia al primo degli indici di proporzionalità delineato dalla Grande Camera della Corte EDU, ovvero la «possibilità di adottare misure meno restrittive», sia al terzo indice, ossia la valutazione del «grado di colpa o di imprudenza» degli imputati o, quanto meno, il «rapporto tra la loro condotta e il reato in questione».
Quanto invece al secondo indice delineato dalla Corte di Strasburgo – la «natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi» – i rimettenti ritengono sufficiente un’adeguata valorizzazione dello stesso in sede interpretativa da parte del giudice ordinario; ossia attraverso una delimitazione in concreto dell’oggetto della misura ablatoria, in modo da evitare – in particolare – che la confisca colpisca beni ulteriori a quelli effettivamente abusivi o zone più estese di quelle oggetto dell’accertata lottizzazione illecita (nel caso di specie, ad esempio, per il 25% della loro estensione le aree potrebbero essere ritenute non confiscabili, poiché la normativa urbanistica indicava tale soglia come limite all’edificazione “residenziale” anziché “artigianale”).
Tale delimitazione in via interpretativa dell’oggetto della confisca ci sembra peraltro al quanto opportuna in ogni caso, ossia anche laddove la questione non dovesse essere accolta: e ciò anche a costo di dover effettuare nel processo penale o in sede di esecuzione della misura ablatoria non semplici operazioni di accertamento tecnico e di frazionamento percentuale delle aree interessate. Infatti, l’eventuale inscindibilità strutturale o funzionale tra beni illecitamente lottizzati e aree non abusive non ci sembra poter in alcun modo giustificare un’estensione indiscriminata della confisca a porzioni di aree non “abusive”. A nostro avviso, simili circostanze di fatto potrebbero al più condurre l’amministrazione a determinarsi nel senso di un’espropriazione di quelle porzioni di aree che non possono essere incluse nell’oggetto della confisca, ma che risultano nondimeno di pubblica utilità proprio in virtù della loro connessione alle aree confiscate. Limitatamente a queste porzioni di proprietà, il privato si vedrebbe raggiunto non da una confisca applicata dal giudice penale ai sensi dell’art. 44 T.U.Ed., ma da un autonomo provvedimento amministrativo di esproprio regolato dal d.P.R. 327/2001, con corresponsione di un adeguato indennizzo.
13. In conclusione, la via prescelta dalla Corte rimettente per domandare alla Consulta di adeguare l’assetto legislativo al dettato costituzionale sembra essere anzitutto quello di rendere la confisca una misura “residuale”, sussidiaria, cioè subordinata a rimedi alternativi che siano in grado di raggiungere in modo meno afflittivo le medesime finalità che la misura ablatoria si prefigge: rimedio individuato, in questo caso, nella prescrizione dell’obbligo di adeguamento dell’area abusivamente lottizzata.
La soluzione della “residualità” della confisca potrebbe peraltro inserirsi coerentemente all’interno di un sistema penale che già conosce ipotesi nelle quali si subordina l’applicazione della misura ablatoria al mancato rispetto di diversi adempimenti. È il caso dei reati tributari, in cui il pagamento del debito tributario o addirittura il semplice accordo con l’erario permettono, ai sensi del secondo comma dell’art. 12-bis d.lgs. 74/2000, di evitare il sequestro e la confisca del profitto delittuoso; o anche della confisca prevista dall’art. 19 d.lgs. 231/2001, in cui l’adempimento di obblighi restitutori esclude l’applicazione, almeno in parte, della misura ablatoria nei confronti dell’ente.
Ora, è evidente come l’ipotesi in esame sia per certi versi ben diversa, riguardando non il profitto del reato (che nei casi appena citati viene di fatto già neutralizzato dalle condotte restitutorie dell’imputato), ma beni oggetto di lottizzazione abusiva e quindi ritenuti offensivi dell’ambiente e del paesaggio tutelati dalla normativa urbanistica. Tuttavia, è anche vero che, come la restituzione del profitto può far venir meno la necessità di rendere lucrativo il reato attraverso la confisca, così l’adeguamento delle aree alla normativa urbanistica entro un congruo termine potrebbe far venire meno la necessità di confiscare quelle aree, permettendo anzi potenzialmente di raggiungere lo scopo ripristinatorio in tempi più celeri di quelli che normalmente impiega la pubblica amministrazione a seguito della confisca. Inoltre, come si accennava, si permetterebbe in questo modo di offrire alla confisca una natura residuale – o, volendo, di extrema ratio – che, declinata nel senso anzidetto, ci sembra essenziale perché tale misura mantenga ragionevolezza e, nella sua più moderna dialettica, proporzione.
Resta ad ogni modo tutt’altro che scontato che una simile operazione possa dirsi consentita al giudice delle leggi, trattandosi verosimilmente di un intervento che spetterebbe – almeno in via preferenziale – al legislatore.
Invero, la strada intrapresa dall’ordinanza in commento – come si è visto – ci sembra passare attraverso le strettoie di un sindacato costituzionale sulla proporzionalità del trattamento sanzionatorio che richiederebbe di compiere un ulteriore passo nella già avviata evoluzione della giurisprudenza costituzionale. Non semplicemente un giudizio diadico sull’intrinseca sproporzione del trattamento sanzionatorio “a rime non obbligate”; ma anche un’estensione dello stesso in relazione ad una misura – la confisca – strutturalmente diversa dalle pene principali o accessorie, sulla base di un parametro non strettamente penalistico e con l’attribuzione al giudice di un ulteriore strumento “rimediale” nel catalogo delle misure sanzionatorie apprestate dal legislatore per reagire al reato di lottizzazione abusiva. Una strada – dunque – tanto coraggiosa quanto impervia.
[1] Cass., Sez. un., sent. 30 gennaio 2020 (dep. 30 aprile 2020), n. 13539, Pres. Carcano, Est. Andreazza, ric. Perroni.
[2] C.edu, sez. II, sent. 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia, § 105-142; cfr. C.edu, sez. II, dec. 30 agosto 2007, Sud Fondi c. Italia (sull’ammissibilità).
[3] Cfr. Cass., sez. III, 30 aprile 2009, n. 21188, § 1-3; Cass., sez. III, 13 luglio 2009, n. 39078; Cass., sez. III, 9 luglio 2009, n. 36844; Cass., sez. III, 25 marzo 2009, n. 20243.
[4] Cfr., ad esempio, Cass., sez. III, 4 febbraio 2013, n. 17066, § 19.
[5] C.edu, sez. II, sent. 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, § 51-85.
[6] Esprimeva tuttavia un’opinione parzialmente dissenziente alla sentenza il giudice Pinto de Albuquerque, a parere del quale non sarebbe stata quella la ragione dell’illegittimità della misura – da qualificarsi, in base al suo «regime legale», come «misura amministrativa» e non come «pena» – bensì la sua manifesta «sproporzione» nel caso concreto.
[8] Cass., sez. III, ord. 30 aprile 2014, n. 20636, § 14-16.
[9] Corte cost., sent 15 gennaio 2015 n. 49, § 4 ss.
[10] Cfr., ad esempio, Cass., sez. IV, 26 giugno 2015, n. 31239, § 1 e, più di recente, Cass, sez. III, 7 luglio 2017, n. 33051.
[11] Al riguardo è utile in questa sede evidenziare che, ai paragrafi nn. 128-129 della sentenza Sud Fondi c. Italia, richiamati al paragrafo n. 290 della sentenza G.I.E.M. e altri c. Italia, la Corte europea ha messo in luce come nella propria giurisprudenza la confisca sia stata talora qualificata come pena e altre volte come strumento di regolamentazione dell’uso dei beni, ma che «non sia necessario stabilire se la confisca rientri nella prima o nella seconda categoria, poiché in ogni caso si applica il secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1».