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14 Gennaio 2022


L’intervento preventivo a tutela di donne e minori: una corsa ad ostacoli che talvolta ha un lieto fine

C. app. Roma, Sez. IV, decreto 21 ottobre 2021 (dep. 19 novembre 2021), n. 71



1. La sentenza della Corte d’Appello di Roma ha provvidenzialmente concluso una vicenda giudiziaria sintomatica delle difficoltà che si incontrano nelle aule di giustizia quando si chiede una protezione in via anticipata dalla violenza di genere e dalla violenza domestica in particolare; difficoltà ben note alle donne vittime di quella violenza, ma alle quali può andare incontro, come nel caso specifico, anche il magistrato che si sia fatto promotore dell’intervento, perché una maggiore formazione sul fenomeno, rispetto ai colleghi, lo ha reso più pronto a riconoscere la sussistenza di futuri reiterati comportamenti violenti, quali sono quelli «fondati su una precisa e strutturata identità culturale del loro autore, che ha introiettato modelli comportamentali violenti» (p. 16).

 

2. La vicenda trae origine dalla richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli di applicazione, in via d’urgenza, della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla moglie e dal figlio, nei confronti di un uomo in procinto di essere scarcerato per aver terminato l’espiazione della pena e in attesa della esecuzione della misura dell’espulsione, applicata dal giudice «per la spiccata pericolosità dell’imputato». La richiesta era stata inizialmente respinta dalla Sezione specializzata per le Misure di prevenzione del Tribunale di Roma, per essere poi accolta dalla Corte d’appello davanti alla quale il provvedimento di rigetto era stato impugnato.

 

3. La lettura dell’atto di impugnazione – riportato integralmente dalla Corte d’appello nella sua decisione, «per evitare inutili ripetizioni», data la piena condivisione di tutte le argomentazioni in esso contenute – consente non solo di conoscere gli elementi di fatto «rivelatori» dell’attualità della pericolosità sociale del proposto (ritenuta invece insussistente dal Tribunale), ma anche di comprendere come quei dati oggettivi dovevano essere letti e interpretati nel contesto di una situazione di violenza domestica, poiché la misura di prevenzione avrebbe dovuto essere applicata a una persona che stava terminando di scontare la pena inflittagli per il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) realizzato nei confronti della moglie e dei figli e quindi di una persona con una “specifica pericolosità” (pp. 32-33). Un’operazione che il Tribunale non aveva voluto o saputo fare, precludendosi così la possibilità di cogliere la (ben prevedibile) situazione di pericolo che si sarebbe prospettata al momento della scarcerazione dell’uomo e della (probabile) ripresa della convivenza con i familiari, in attesa dell’espulsione. E come opportunamente si ricorda nella sentenza, è per comportamenti di questo tipo, «per non aver tutelato beni primari e, fra tutti, la vita e l’integrità fisica, da rischi che possono stimarsi come immediati e ragionevolmente prevedibili» (pp. 17 e 32), che il nostro Paese è stato condannato dalla Corte EDU nel caso Talpis c. Italia.

 

4. È proprio la sentenza di condanna per il delitto di maltrattamenti - l’ultima in ordine di tempo e quella inspiegabilmente ignorata dal Tribunale – che ha fatto emergere la intensa, «radicata», pericolosità dell’uomo ai sensi degli artt. 1 lett. c) e 4 lett. i-ter) del d.lgs. 159/2011 (Codice Antimafia)[1], gettando una nuova luce sui suoi precedenti penali, peraltro già numerosi, continuativi nell’arco di sette anni, e per reati in parte tipicamente offensivi della sicurezza e della tranquillità pubblica, in parte lesivi della «integrità morale e fisica dei minorenni» – anche nella forma della violenza assistita da parte dei figli delle condotte abituali di maltrattamenti oggetto dell’ultima sentenza di condanna - secondo la formula utilizzata dal legislatore del 2017 nella modifica dell’art. 1 lett. c) del d.lgs. 159/2011. È in quell’ultima sentenza, infatti, che si arrivava a delineare «l’indole particolarmente violenta» dell’uomo, grazie anche alla narrazione da parte della moglie – persona offesa del reato di maltrattamenti – delle «incontrollate esplosioni di collera e di brutalità dell’imputato (…) la folta e prolungata sequenza di gesti di aggressioni, di intimidazione e brutalità sfociata nell’inquietante episodio del 2015», nel quale l’uomo aveva tentato di dare fuoco alla casa di abitazione «cercando addirittura di incendiare una bombola di gas, rimasta fortunatamente inesplosa» (p. 10). D’altra parte, è la stessa sentenza a riportare un ulteriore episodio di violenza allarmante verificatosi al momento dell’arresto, allorquando l’uomo «afferrava uno dei figli minori, minacciandolo con il coltello ed affermando di volerlo sgozzare» (p. 28).

 

5. Una valutazione «globale» e non banalmente «parcellizzata» della personalità dell’uomo imponeva del resto di collegare quegli stessi precedenti penali con altre «manifestazioni sociali della sua vita», attribuendo rilevanza al fatto che quella attività criminosa si era interrotta solo nei periodi trascorsi in carcere – per provvedimenti di custodia cautelare o per l’esecuzione di una sentenza di condanna – mostrando così, tra l’altro, l’assenza di ricadute positive della detenzione sofferta. Parimenti rilevanti, ai fini di quella valutazione, dovevano essere alcune caratteristiche personali dell’uomo, prime fra tutte la dipendenza da alcol e sostanze stupefacenti (in particolare cocaina), «da cui non si è mai liberato, anche quando era ormai uscito dal carcere» (p. 31) né risulta aver intrapreso alcun percorso di recupero durante l’ultima detenzione. Gli elementi di fatto dai quali desumere la pericolosità del soggetto erano dunque numerosi e tali da confermarne anche l’attualità: del resto, come ricorda la Corte d’appello, secondo la giurisprudenza della Cassazione l’attualità della pericolosità sociale «può essere desunta anche da fatti remoti, purché costituenti univoco indice della persistenza (…) del comportamento antisociale» (p. 30).

 

6. A supporto della “attualità” della pericolosità sociale dell’uomo, il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Tivoli richiama anche l’attenzione dei giudici sull’«assenza di un contesto familiare e sociale di tutela della donna vittima» (p. 35). Con grande lungimiranza e sensibilità, la richiesta della misura di prevenzione non si basava solo sulla presa d’atto, suffragata da dati oggettivi, della spiccata pericolosità sociale del proposto e sull’accertamento del suo possibile inquadramento nelle fattispecie di pericolosità previste dalla legge, ma anche sulla verosimile incapacità della moglie di difendere se stessa e i figli di fronte a quello che veniva valutato come «un “alto rischio” di reiterazione del reato, non solo per “vendetta” ma anche perché, avendo scelto di denunciare, non ha riconosciuto all’autore della violenza il suo ruolo autoritario e sovraordinato e, allo stesso tempo, si è sottratta alla posizione di soggezione in cui era costretta» (p. 32).

 

7. La condizione di particolare vulnerabilità della donna e dei suoi figli era ricostruita sulla base innanzitutto delle caratteristiche personali, come la dipendenza economica dal marito – peraltro senza lavoro al momento della dimissione dal carcere – e la necessità di accudire due bambini ancora piccoli. Si aggiungeva il probabile senso di colpa per la carcerazione dell’uomo in seguito alla sua denuncia e l’apparente incapacità di comprendere la portata del rischio incombente, testimoniati dalla ripresa dei colloqui in carcere con il marito (alla quale il Tribunale aveva dato, in modo superficiale, tutt’altra valenza). Per altro verso, preoccupante era la riscontrata inerzia dei servizi sociali del territorio, ai quali erano state fatte le necessarie segnalazioni affinché monitorasse la situazione familiare, così come del Tribunale per i minorenni, al quale era stato sollecitato un provvedimento sulla responsabilità genitoriale del padre, ai sensi dell’art. 330 c.c. Di fronte a questo scenario, la Corte d’appello non ha potuto fare altro che prendere atto che «nel caso in esame la vittima non ha strumenti per sottrarsi all’uomo maltrattante, pericoloso e recidivo per reati di violenza contro la persona, non solo perché ha due bambini piccoli, ma perché verosimilmente ha anche difficoltà economiche, non ha luoghi o persona che possano tutelarla, è soggetta al controllo della numerosa famiglia del marito che non l’ha mai sostenuta nella fuoriuscita dalla violenza, ma ben consapevole di quello che viveva ha consentito che anche i bambini ne fossero drammaticamente vittime» (pp. 24 e 35), e disporre senza indugio la misura della sorveglianza speciale per due anni, accompagnata dal divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati abitualmente dal coniuge e dai due figli minorenni e l’obbligo di allontanarsi immediatamente da loro qualora dovesse casualmente incontrarli. Un amaro lieto fine.

 

 

[1] In base a queste disposizioni, destinatari delle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria possono essere, tra gli altri, “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, (…) che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica” (art. 1 lett. c) d.lgs. 159/2011, come modificato dal d.l. 14/2017, conv. con modif. nella l. 48/2017), nonché i “soggetti indiziati dei delitti di cui agli articoli 572 e 612-bis del codice penale” (art. 4 lett. i-ter) del medesimo decreto, come modificato da ultimo con la l. 69/2019, c.d. Codice Rosso).