C. ass. app. Milano, sent. 3 novembre 2020 (dep. 21 gennaio 2021), Pres. Est. Ichino, imp. Markiv
1. Con la sentenza in allegato la Corte d’assise d’appello di Milano è stata chiamata a pronunciarsi sul complesso tema dei rapporti fra violazione di diritti umani fondamentali e immunità dalla giurisdizione civile degli Stati stranieri.
Nel caso di specie, carattere pregiudiziale e centrale assume l’eccezione sollevata dalla difesa del responsabile civile Stato ucraino nel suo atto di impugnazione. Lo Stato ucraino deduceva come unico motivo di doglianza il difetto di giurisdizione italiana in forza della legge di adesione del nostro Paese al Trattato internazionale sul riconoscimento delle immunità giurisdizionali (l. 14 gennaio 2013 n. 5) e in virtù del principio par in parem non habet iudicium.
Sul punto la decisione della Corte d’Assise d’Appello va ad arricchire e corroborare un quadro giurisprudenziale che vede sempre più consolidato, presso la Corte di Cassazione nonché presso i giudici di merito, quell’indirizzo che, facendo assumere all’Italia una posizione isolata sul piano internazionale, afferma che la consuetudine internazionale dell’immunità degli stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati incontra un limite nelle ipotesi di crimini di guerra o contro l'umanità[1]. Tali sono quei crimini compiuti in violazione di norme internazionali di ius cogens e lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali e la cui vera sostanza consiste in un abuso della sovranità. Ebbene, in tali casi non può, ad avviso delle ultimissime pronunce della giurisprudenza di legittimità, trovare spazio l’immunità[2] (S.U. civili n. 15812/2016; S.U. civili 762/2017; S.U. civili n. 20442/2020).
Sulla base di tali premesse e nel solco della giurisprudenza costituzionale – che tale coraggiosa strada ha intrapreso con la sentenza n. 238 del 22 ottobre 2014 – la Corte d’Assise d’Appello ha respinto l’eccezione di giurisdizione, sollevata anche nel secondo grado di giudizio dalla difesa del responsabile civile Stato ucraino, e dichiarato la sussistenza della propria giurisdizione sui fatti di causa (avvenuti in Ucraina a danno di civili non facenti parti delle ostilità, uno dei quali di nazionalità italiana).
2. Preliminare è l’analisi dei fatti di causa.
Una guerra che ha contato fin ad oggi 13.000 morti quella in corso in Donbass all’epoca degli avvenimenti oggetto della sentenza. Il violento conflitto scoppiato nel 2013 in Ucraina sud-orientale, e non ancora risolto, vede l’Esercito ucraino in lotta contro le forze separatiste filorusse. La morte del fotoreporter italiano Andrea Rocchelli nonché del dissidente russo, militante dei diritti umani, Andrej Mironov, avvenute proprio in Donbass il 24 Maggio 2014, avevano trovato in un’aula della Corte d’Assise di Pavia il loro responsabile: il cittadino italo-ucraino Markiv Vitaly, all’epoca membro della Guardia Nazionale ucraina, condannato all’esito del giudizio di primo grado a 24 anni di carcere per aver fornito un "contributo materiale determinante" all'omicidio dei reporter.
La tesi dell’accusa era che Vitaly Markiv, nel suo ruolo di sentinella a protezione della collina del Karachun, avamposto dell’esercito ucraino in una zona nelle mani dei separatisti filorussi, avesse avvistato dei civili, identificandoli come giornalisti e avesse iniziato a sparare con il suo kalashnikov. I giudici di primo grado avevano ritenuto il materiale probatorio raccolto pienamente idoneo a fondare la responsabilità dell’imputato per entrambi i reati a lui contestati (omicidio del giornalista italiano e tentato omicidio del fotografo francese). L’imputato e il responsabile civile (lo Stato ucraino) erano stati altresì condannati in solido al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.
La Corte d’Assise d’Appello di Milano, con la sentenza in epigrafe, depositata il 21 gennaio 2021, ha però riformato la decisione di primo grado, assolvendo e ordinando la liberazione dell’imputato (in carcere da tre anni e quattro mesi) per non aver commesso il fatto e conseguentemente revocando tutte le statuizioni civili. Le conclusioni a cui sono giunti i giudici di secondo grado possono essere così sintetizzate: sarebbero stati l'esercito e la guardia nazionale ucraini a sparare al gruppo di giornalisti uccidendo Andrea Rocchelli e Andrej Mironov ma non vi è prova oltre ogni ragionevole dubbio che Vitaly Markiv, unico imputato per quell'azione, vi avesse preso parte attiva. Sulla dinamica dei fatti che hanno portato alla morte dei giornalisti la Corte dichiara di condividere quasi integralmente la ricostruzione della vicenda operata dai giudici pavesi. Al contrario, per quanto riguarda l’accertamento e l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato in ordine ai delitti a lui contestati, la sentenza dà atto di una grave lacunosità del quadro probatorio, e proprio a causa di tale lacunosità, delle cui ragioni si tratterà più avanti, la Corte d’Appello è pervenuta all’esito assolutorio sopra anticipato.
3. Procedendo con ordine si analizzeranno ora i punti salienti dell’apparato motivazionale della sentenza.
La prima questione giuridica che si presenta ai giudici d’appello è, come anticipato, quella che attiene al profilo della giurisdizione: entrambe le difese hanno infatti eccepito il difetto della giurisdizione italiana a conoscere dei fatti di causa nei loro atti di impugnazione. Tali eccezioni si fondano, in primis, sul fatto che la vicenda in esame si è svolta interamente sul territorio di uno stato estero, l’Ucraina, in secundis, sul fatto che la persona chiamata a risponderne risulta avere una doppia cittadinanza, italo-ucraina. L’analisi verterà principalmente sull’esame di tale questione, per poi spostarsi sulla ricostruzione dei fatti operata dai giudici d’appello e sugli sviluppi processuali che hanno interessato in seguito la vicenda.
4. Per quanto riguarda l’eccezione di difetto di giurisdizione proposta dalla difesa dell’imputato, la Corte d’appello ha ribadito la sussistenza della giurisdizione italiana nei confronti di quest’ultimo in applicazione dell’art. 9 c.p. che consente di affermarla 1) in ipotesi di reato comune commesso all’estero da cittadino italiano, per il quale la legge italiana prevede la sanzione dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo ad un anno, 2) a condizione che non sia stata concessa o accettata l’estradizione da parte dello Stato estero ove è stato commesso il delitto e sempre che il cittadino si trovi sul territorio italiano.
Il ragionamento seguito dalla Corte d’Appello è stato il seguente. Agli effetti della legge penale sono considerati cittadini italiani coloro che appartengono per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato (art. 4 c.p.). Il diritto penale mutua la nozione di cittadino dalla disciplina civilistica richiamandosi ricettivamente alle regole di diritto interno che statuiscono sullo stato di cittadinanza[3]. Ai fini della punibilità per i reati commessi dal cittadino all’estero, al giudice penale non è consentito alcun sindacato, neanche in via incidentale, sulle ragioni di acquisto o perdita della cittadinanza. Nel momento in cui è stato iscritto nel Registro generale delle notizie di reato un procedimento penale a carico di Vitaly Markiv, lo stesso risultava già titolare di cittadinanza italiana. L’imputato quindi, essendo cittadino italiano (oltre che ucraino) risponde delle violazioni del codice e della legge penale, a nulla rilevando che, nel caso di specie, egli fosse stato arruolato come militare della Guardia Nazionale in quanto cittadino ucraino. La legge italiana consente allo straniero di acquisire la cittadinanza italiana e di conservarla ad ogni effetto giuridico, così come consente al cittadino italiano che acquisisce una seconda cittadinanza di continuare ad essere cittadino italiano. Proprio perché Markiv è cittadino italiano il Ministro ha autorizzato il Pubblico ministero a procedere contro di lui in Italia ai sensi degli artt. 8 e 9 c.p.
L’esistenza della seconda condizione prevista dall’art. 9 è stata del pari riscontrata dai giudici di secondo grado: l’estradizione non è stata richiesta dall’Ucraina, nonostante siano passati sei anni dagli eventi, a dimostrazione del fatto che tale paese non aveva alcun interesse ad avviare un procedimento penale nei confronti di Vitaly Markiv. La condizione di procedibilità è stata poi riscontrata dalla presenza dell’imputato sul territorio italiano.
5. Quanto alla carenza di legittimazione passiva per ciò che concerne il responsabile civile, pare preliminarmente opportuno ripercorrere le tappe fondamentali dell’evoluzione della norma sull’immunità e inquadrare il contesto storico giuridico in cui è intervenuta la sentenza della Corte dell’Aja del 3 febbraio 2012[4], punto di riferimento sul piano internazionale in tema di immunità.
Solo in seguito si esaminerà quanto affermato dalla Corte d’Appello nel caso di specie.
5.1. La norma consuetudinaria internazionale sull'immunità dalla giurisdizione impone agli Stati l'obbligo di astenersi dall'esercitare la giurisdizione sugli atti compiuti, iure imperii, da uno Stato straniero, qualunque sia il loro contenuto lesivo e anche in ipotesi di crimini contro l'umanità.
Com'è noto, tale norma è ormai da anni al centro di un dibattito che ha coinvolto la Corte di Cassazione, la Corte costituzionale e la Corte Internazionale di Giustizia.
Nel 2004, nel caso Ferrini, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 5044/2004) avevano stabilito che il principio di immunità dalla giurisdizione non trova applicazione in relazione ad azioni derivanti da crimini di guerra e contro l'umanità, pur derivanti da atti iure imperii, consistenti, nel caso di specie, in crimini compiuti dalle truppe del Terzo Reich a danno di cittadini italiani durante la seconda guerra mondiale. Nell’interpretazione delle Sezioni unite, la norma consuetudinaria di diritto internazionale generalmente riconosciuta non presenterebbe valore assoluto, dovendo essere contemperata con i valori fondamentali della libertà e dignità della persona umana.
Tale orientamento aveva incontrato un ampio favore nelle sentenze dei tribunali italiani presso i quali pendevano altri giudizi relativi ad analoghi fatti.
La molteplicità di queste pronunzie[5] è stata determinante nell’indurre la Germania a ricorrere alla CIG deducendo la violazione da parte dell'Italia della norma di diritto internazionale consuetudinario sull'immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione. La Corte dell'Aja con sentenza del 2012, accogliendo pressoché integralmente le doglianze dello Stato tedesco aveva stabilito che l'Italia, dichiarando la propria giurisdizione sui procedimenti civili promossi nei confronti della Germania, aveva violato la norma sull'immunità. Con tale pronuncia si è quindi ribadita a livello internazionale l'esistenza di una norma consuetudinaria che impone agli Stati l'obbligo di astenersi dall'esercitare la giurisdizione civile sugli atti compiuti iure imperii da uno Stato straniero, anche nell'ipotesi in cui tali atti costituiscano gravi crimini internazionali (quali erano quelli del Terzo Reich). La Corte dell’Aja ha respinto la tesi per la quale l’immunità recede in presenza di gravi crimini, sulla base della considerazione che l’immunità, impedendo il coinvolgimento nel processo, esiste a priori e non può essere negata o affermata a processo concluso, una volta accertata la gravità dell’illecito.
Si è osservato che tale argomentare sembra però condurre ad un circolo vizioso che inibisce ab origine la possibilità che si formino istanze volte al ridimensionamento di tale consuetudine internazionale; un rilievo paralizzante che porterebbe a riaffermare quell’immunità giurisdizionale assoluta che impediva ogni coinvolgimento di Stati esteri dinanzi ai giudici di altri Stati a prescindere dal fatto che l’atto in questione fosse iure imperii o iure gestionis (quando la prassi giudiziaria ha in realtà da tempo escluso che vi sia immunità per gli atti di diritto privato riconducibili ad uno Stato).
Il perimetro dell'immunità giurisdizionale degli Stati non è così netto e lineare come i giudici della Corte internazionale di giustizia hanno inteso tracciarlo[6], tant’è che la costruzione operata dalla Corte non è stata esente da critiche. Parte della dottrina ha evidenziato come non siano state prese in considerazione le spinte in atto verso un cambiamento della norma sull’immunità. La recente e sempre più dominante pratica internazionale invoca e pretende il massimo di tutela giudiziaria nel caso di gravi crimini contro i diritti umani. Negli ultimi decenni questa tendenza si è manifestata in modo particolarmente incisivo nel campo della responsabilità penale individuale degli autori delle violazioni, generando l’istituzione di diversi tribunali internazionali per accertare e giudicare tali crimini[7]. Tale cambiamento non può non avere riflessi anche sull'istituto dell'immunità, che altrimenti garantirebbe non solo l'impunità ai colpevoli ma anche il mancato risarcimento alle vittime di crimini internazionali.
Tuttavia, i giudici italiani e finanche le stesse Sezioni unite della Corte di Cassazione (n. 4284/2013), prendendo atto che l’opposto principio non aveva trovato accoglimento presso la Comunità internazionale, ha riconosciuto nuovamente la prevalenza della regola della immunità[8].
Non molto tempo dopo però, il tribunale di Firenze, chiamato ancora una volta a condannare la Germania al risarcimento dei danni nei confronti di vittime di crimini internazionali, anziché dichiarare il difetto di giurisdizione, si è rivolto alla Consulta.
La Corte costituzionale veniva così chiamata a giudicare la costituzionalità della norma sull'immunità dalla giurisdizione civile di uno Stato estero, che sarebbe stata efficace nel nostro ordinamento grazie alla clausola di adattamento del diritto interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost.). Oggetto della verifica di legittimità costituzionale era quindi la validità ed efficacia nell’ordinamento interno della norma di diritto consuetudinario – quella sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati – così come interpretata dalla Corte internazionale di giustizia.
Il giudice delle Leggi[9] ha affermato innanzitutto che la norma consuetudinaria che garantisce l’immunità di uno Stato estero per le azioni di danni provocati da atti corrispondenti a gravi violazioni di diritti umani contrasta con gli artt. 2 e 24 della Costituzione. I principi fondamentali e i diritti inviolabili tutelati dalla Costituzione possono infatti, in taluni casi, fungere da limite all'ingresso nel nostro ordinamento delle consuetudini internazionali (che pure sono fonti di rango equivalente a quello costituzionale, in virtù del rinvio di cui all'art. 10, comma 1, Cost.).
Applicando così la teoria dei “controlimiti” la Consulta ha dichiarato che la parte della norma sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati che confligge con i principi fondamentali non era entrata nell’ordinamento italiano e non vi spiegava, quindi, alcun effetto.
In coerente sviluppo di tale asserzione veniva dichiarata la incostituzionalità dell’art. 3 della legge n. 5 del 2013 (legge di adesione del nostro Paese al Trattato internazionale sul riconoscimento delle immunità giurisdizionali), per effetto della quale i giudici italiani erano vincolati al rispetto della pronuncia della Corte internazionale di giustizia del 2012.
La questione di legittimità riguardante la norma prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento, ai sensi dell'art. 10, comma 1, Cost., della norma consuetudinaria di diritto internazionale sull'immunità, era stata invece ritenuta dal Giudice delle Leggi non fondata. La Corte costituzionale aveva ritenuto, come sopra anticipato, che il rinvio di cui al primo comma dell’art. 10 Cost. non operava in riferimento alla norma consuetudinaria internazionale, limitatamente alla parte in cui la stessa estende l’immunità anche agli atti ritenuti iure imperii lesivi dei diritti inviolabili della persona. Perciò, la norma consuetudinaria internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati effettivamente entrata nell’ordinamento italiano, era quella che non violava il dato costituzionale; una norma che, pur riconoscendo tendenzialmente l’immunità degli Stati per gli atti iure imperii, disconosceva tale immunità, rendendola non operante, in presenza di atti che integrino crimini di guerra o contro l’umanità e come tali siano lesivi dei diritti inviolabili della persona (art. 24 Cost., letto congiuntamente all’art. 2 Cost.).
Tali principi, affermati dalla Corte Costituzionale[10] nel 2014 e più volte richiamati e ribaditi dalla Corte di Cassazione (da ultimo S.U. civili 20442/2020)[11], trovano certamente applicazione, ad avviso della Corte d’Assise d’Appello di Milano, nel caso di specie.
5.2. Tali rilievi ci consentono di seguire al meglio il ragionamento svolto dalla sentenza in commento. Nell’atto di impugnazione la difesa dello Stato ucraino ha eccepito l’erronea valutazione delle prove in ordine alla ritenuta sussistenza di un atto iure imperii attribuibile allo Stato ucraino.
Nel capo d’imputazione, sottolinea infatti la difesa, non è possibile ravvisare la catena di ordini sino all’autore materiale del reato e i requisiti sostanziali che caratterizzano l’atto iure imperii, nonché i presupposti per cui tale atto possa costituire crimine di guerra idoneo a legittimare la giurisdizione dello Stato italiano secondo i principi dettati dalla Corte Cost. n. 238/2014. L’erronea applicazione dei principi dettati dalla pronuncia costituzionale è stata quindi eccepita dallo Stato ucraino sulla base del fatto che, nel caso di specie, mancherebbero tre presupposti fattuali essenziali: a) l’esistenza di un atto iure imperii; b) la consumazione di un crimine di guerra; c) la consumazione di un crimine di guerra che sia avvenuta almeno in parte sul territorio italiano.
Nel motivare sul punto la Corte d’Assise d’Appello ricorda come la valutazione sulla legittimazione passiva sia necessariamente da riportare al momento in cui il responsabile civile è stato citato in giudizio con una specifica imputazione.
Nella prospettazione della vicenda, così come descritta nel capo di imputazione, si fa espresso riferimento all’appartenenza dell’imputato al Corpo Paramilatare Ausiliario, denominato Guardia Nazionale, affiancato alle milizie regolari dell’Esercito Ucraino impegnate nella repressione dei moti separatisti sviluppatisi nella regione Ucraina del Donbass e quindi in operazioni, si legge nella decisione, che sono “palesemente espressione” dell’esercizio di attività iure imperii.
Quanto al secondo presupposto fattuale – la consumazione di un crimine di guerra – la sentenza afferma come fosse incombente sugli affiliati della Guardia Nazionale, così come sugli arruolati nell’esercito regolare, il rispetto delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 per la protezione delle vittime di guerra. Tra i doveri imposti dalle Convenzioni, il Primo protocollo aggiuntivo adottato a Ginevra in data 8 giugno 1977, al titolo IV (contenente disposizioni sulla popolazione civile), prevede espressamente misure di protezione dei giornalisti, stabilendo che “i giornalisti che svolgono missioni professionali pericolose nelle zone del conflitto armato saranno considerati come persone civili ai sensi dell’art. 50 paragrafo 1” e in quanto tali sono protetti.
La Corte d’Assise d’Appello ha quindi ritenuto che la condotta delittuosa trovi collocazione nell'alveo dei crimini di guerra, per inquadrare i quali occorre richiamare la previsione dell'art. 8 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Al paragrafo 2, lett. e) di tale articolo è ricompreso infatti tra le gravi violazioni anche il seguente atto: “dirigere deliberatamente attacchi contro popolazioni civili in quanto tali o contro civili che non prendano direttamente parte alle ostilità”. A questa categoria di crimini internazionali devono essere ricondotti quei comportamenti che, posti in essere nell'ambito di un conflitto armato, pur risultando privi di quei connotati di estensione e di sistematicità propri dei crimini contro l'umanità, si caratterizzano per la lesione dei valori universali di rispetto della dignità umana, che trascendono gli interessi delle singole comunità statali che si fronteggiano in un contesto bellico.
Quanto infine al terzo presupposto oggetto di censura, la Corte d’Assise d’Appello ha risposto che la circostanza che i fatti si siano svolti interamente sul territorio di uno Stato estero (la regione ucraina del Donbass) non costituisce affatto un elemento ostativo per l’applicazione dei principi affermati dalla Corte Cost. 238 del 2014.
La Corte costituzionale non richiede, quale presupposto per affermare la giurisdizione dello Stato italiano in presenza di crimini contro l’umanità commessi iure imperii da uno Stato straniero, che tali crimini siano stati consumati almeno in parte nel territorio dello Stato italiano.
Anche la Corte di cassazione – in tutte le sentenze sul tema e da ultimo nella pronuncia a Sezioni Unite del novembre 2020 – è molto chiara: non è possibile negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona, nulla specificando in merito al luogo ove tali crimini debbano essere consumati affinché operi tale deroga all’immunità
La ricostruzione della vicenda così come operata nel capo di imputazione ha consentito quindi alla Corte di affermare che lo Stato ucraino fosse stato ab origine correttamente citato in giudizio in qualità di responsabile civile per il fatto dell’imputato.
6. Per quanto attiene invece alla ricostruzione degli eventi la decisione in esame concorda, come sopra accennato, con la Corte di primo grado in merito alla tipologia e alla provenienza dei colpi che hanno ucciso i fotoreporter: si trattava di colpi di mortaio sparati dalla collina del Karachun ad opera dei militari dell’armata ucraina in direzione del fossato ove erano nascosti i civili.
I giornalisti si erano recati nella zona per documentare lo stato dei luoghi, erano arrivati in loco con una macchina civile, si erano fermati a scattare fotografie e camminavano distanziati lungo la strada antistante la fabbrica Zeus. I militari ucraini in servizio sulla collina, intenti a osservare quanto accadeva a valle, hanno avvertito i superiori della presenza e dei movimenti del gruppo di giornalisti. A quel punto i comandanti, valutata la situazione, hanno dato l’ordine ai militari della Guardia Nazionale di attivare l’artiglieria leggera e hanno altresì fornito all’esercito le coordinate per azionare l’artiglieria pesante. La Corte d'Assise d’Appello aderisce quindi in gran parte alla ricostruzione dei fatti elaborata dai giudici di primo grado e ne accoglie in particolare la circostanza per cui la Guardia Nazionale e l'Esercito ucraini siano stati i primi a sparare, mentre erano asserragliati a difesa della collina di Karachun e fronteggiavano ogni giorno i separatisti supportati dalla Russia in Donbass. Vi era senz’altro, si afferma in sentenza, “l'intenzione di eliminare” il gruppo di fotoreporter, perché, per difendere strenuamente quella posizione strategica i militari facevano in modo che nessuno potesse avvicinarsi senza distinguere tra oggetti civili e obiettivi militari e senza mettere in atto una necessaria e rigorosa adesione al principio di proporzionalità nella misura degli attacchi che possono causare perdite di vite civili.
Del resto, numerosi sono i documenti che attestano come in quel contesto bellico ben poco rispetto venisse riservato alla stampa e ai civili, tra i quali il rapporto OSCE del 23 maggio 2014[12] e il rapporto di Human Rights Watch del 6 giugno 2014. Tale ultimo documento contiene dure parole di ammonimento: “la condotta criminale degli insorti non solleva le forze ucraine dai loro obblighi di agire in conformità con il diritto internazionale nella condotta delle loro operazioni militari né dall’obbligo di non dirigere attacchi contro civili o oggetti civili o di compiere attacchi indiscriminati. […] Gli insorti, dal canto loro, sono vincolati agli stessi obblighi”.
Tuttavia, nonostante il 24 maggio 2014 i militari in servizio sul Karachun avessero agito senza attenersi alle citate disposizioni internazionali, la sentenza afferma chiaramente come non vi sia prova oltre ogni ragionevole dubbio che l’imputato abbia concorso con gli altri commilitoni nelle condotte di cui al capo di imputazione.
La presenza dell’imputato sulla collina il giorno dei fatti era circostanza pacifica e indiscussa, tuttavia non è stato possibile dimostrare che la postazione dalla quale erano visibili i giornalisti fosse proprio quella nella quale prestava servizio l’imputato.
Tale vuoto probatorio si è verificato anche a causa dell’inutilizzabilità delle testimonianze del generale Matkivskyi (diretto superiore dell’imputato nei confronti del quale la sentenza di primo grado aveva già chiesto la trasmissione degli atti al Ministro per una eventuale autorizzazione a procedere nei suoi confronti ai sensi dell’art. 10 c.p.) e degli altri militari ucraini sentiti in dibattimento di primo grado; secondo la Corte d’Appello costoro avrebbero dovuto essere ascoltati come indagati alla presenza di un difensore e non come testimoni a conoscenza dei fatti, in quanto nei loro confronti esistevano già o avrebbero potuto emergere indizi del concorso nel medesimo reato.
Per di più la decisione attesta come non risulti del pari provato che l’imputato fosse in servizio proprio all’orario pomeridiano in cui i fotoreporter venivano uccisi o feriti.
In conclusione, stante la frammentarietà delle prove raccolte, la Corte d’Assise d’appello ha ritenuto di dover riformare il giudizio di primo grado e pronunciare nei confronti dell’imputato sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p. per l’insufficienza delle risultanze probatorie a fondare il suo concorso; conseguentemente sono state revocate la pronuncia di condanna nei confronti dello Stato ucraino, citato in giudizio quale responsabile civile, e tutte le altre statuizioni civili disposte dalla sentenza di primo grado.
7. Da ultimo si ritiene opportuno riferire della richiesta effettuata dal procuratore generale alla Corte d’Appello di ordinare la cancellazione di alcune frasi offensive pronunciate dai difensori nel corso delle loro arringhe, in applicazione di quanto disposto dal capoverso dell’art. 598 c.p. Come noto, la norma ha la finalità di tutelare la libertà di discussione giudiziale, come condizione imprescindibile del diritto di difesa, e a tal fine prevede una specifica causa di non punibilità delle espressioni offensive o diffamatorie contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti nei procedimenti avanti all’Autorità giudiziaria, purché pertinenti all’oggetto della causa. La norma non attribuisce però un diritto all’ingiuria e prevede che il giudice possa disporre la cancellazione o la soppressione in tutto o in parte delle espressioni offensive.
La Corte pur sottolineando la palese gratuità di taluni apprezzamenti e l’asprezza ingiustificata di talune espressioni – che in ordinamenti di common law potrebbero integrare il Contempt of Court– ha ritenuto che le stesse dovessero essere lette nel contesto di una dura ma tutto sommato legittima critica dei provvedimenti giudiziari di primo grado e non quali offese direttamente rivolte alle persone dei magistrati; per tale ragione ha ritenuto di non ordinarne la cancellazione.
8. La vicenda processuale non può dirsi conclusa. Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano e due avvocati, difensori della quasi totalità delle parti civili, hanno infatti presentato ricorso per cassazione contro l’assoluzione dell’imputato; i motivi di ricorso sono nella loro sostanza per lo più sovrapponibili.
Negli atti di impugnazione le parti rilevano come la Corte d’Assise d’Appello nel sancire l’inutilizzabilità delle deposizioni di taluni testi (poiché nei loro confronti vi erano o potevano esservi fin dall’inizio della loro deposizione indizi di correità) abbia in realtà escluso le testimonianze di alcuni militari nei confronti dei quali non emergerebbero affatto, ad avviso dei ricorrenti, elementi che possano far ritenere sussistente nei loro confronti l’attribuibilità in termini sostanziali di qualsivoglia penale responsabilità in ordine ai reati per cui si procede. Da tali testimonianze, pienamente valutabili, emergerebbero invece elementi di prova decisivi a carico dell’imputato. Il giudice del gravame, tagliando fuori tali dichiarazioni dal compendio probatorio, sarebbe incorso nei vizi di violazione di legge (artt. 63 e 210 c.p.p.), di illogicità della motivazione e di travisamento della prova.
A causa dei vizi il procuratore generale e gli avvocati delle parti civili hanno chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza per un nuovo giudizio.
La sentenza in commento non sembrerebbe invece a prima vista produrre effetti immediati e diretti sul rapporto processuale tra il responsabile civile e il danneggiato. Ciononostante, anche la difesa dello Stato ucraino ha presentato ricorso avverso la pronuncia della Corte d’Assise d’Appello, sostenendo la sussistenza di legittimazione ex art. 568 comma 3 c.p.p. in capo al responsabile civile nonché il suo interesse a ricorrere ex art. 568 comma 4 c.p.p. Seppur assolutoria, la pronuncia produrrebbe, ad avviso della difesa, inevitabili conseguenze a carico dello Stato ucraino. L’imputato, si legge nell’atto di impugnazione, è stato infatti assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” (e non con la formula “perché il fatto non sussiste”) nell’ambito di un giudizio in cui si sposa la ricostruzione dei fatti operata dalla prima pronuncia di merito e si conferma pienamente la responsabilità dello Stato ucraino.
Successivamente la difesa eccepisce l’inosservanza dell’art. 20 c.p.p. in relazione all’art. 3 della l. n. 5 del 2013 come risultante dalla sentenza della Corte cost. n. 238 del 2014 e quindi l’erronea applicazione dei principi dettati dalla pronuncia costituzionale (cui si è fatto ampio cenno in precedenza), nonché la carenza della motivazione con riferimento alla sussistenza della giurisdizione dello Stato italiano nei confronti del responsabile civile Stato ucraino.
È quindi atteso sia in tema di giurisdizione, sia in tema di utilizzabilità delle testimonianze, un chiarimento della Suprema Corte che, in uno degli scenari possibili, potrebbe condurre all’apertura di un nuovo giudizio a distanza di quasi dieci anni dal verificarsi dei fatti.
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9. Sulla delicata questione che riguarda la possibilità di radicare la giurisdizione italiana per le azioni risarcitorie derivanti da crimini internazionali commessi iure imperii pare opportuno svolgere alcune considerazioni conclusive.
Nel 2015 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pronunciandosi sul complesso caso Flatow[13], si erano occupate dei risarcimenti dei danni causati da crimini internazionali, negando l’esistenza nel nostro ordinamento di un principio di giurisdizione civile universale[14].
La Suprema Corte (sentenza n. 21947/2015) ha in quella sede affermato che la gravità dei fatti adotti in giudizio non può giustificare la deroga alle regole processuali; la necessità per i giudici di ricercare un criterio di collegamento giurisdizionale conforme a quello dell'ordinamento italiano, non può dirsi venuta meno per effetto della più volte citata sentenza della Corte cost. del 2014. Con tale pronuncia non si è infatti introdotto un principio di giurisdizione civile universale per le azioni risarcitorie da delicta imperii, ma si è “soltanto” affermata l'inoperatività della norma consuetudinaria sull'immunità dalla giurisdizione civile in presenza di domande dirette ad ottenere il risarcimento dei danni derivati dalla commissione di crimini di guerra e contro l'umanità. Per effetto della sentenza costituzionale quindi, “il giudice – sempreché gli sia attribuita la competenza giurisdizionale secondo un titolo valido per il nostro ordinamento – non può negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona” .
Con tale decisione le Sezioni Unite del 2015 (chiamate a decidere dell’esecuzione di una sentenza straniera in Italia, della quale la Corte d’Appello di Roma aveva negato il riconoscimento in ragione del principio di immunità giurisdizionale applicabile allo Stato convenuto), da un lato hanno affermato l'esclusione dell'immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per gli atti commessi iure imperii gravemente lesivi dei diritti fondamentali, allineandosi così alla nuova visione dell’immunità sancita dalla Consulta (nel caso di specie il risarcimento del danno era stato accordato a seguito di un fatto terroristico, evento pacificamente annoverato tra i crimini internazionali commessi in violazione dei diritti inviolabili dell'uomo). Dall’altro lato, le Sezioni Unite hanno però dichiarato che, anche in simili casi, la sentenza straniera può trovare esecuzione solo se il tribunale che l'ha pronunciata può essere qualificato come competente in base ai principi sulla competenza giurisdizionale propri dell'ordinamento italiano. Nemmeno davanti a gravi crimini internazionali, pertanto, si può prescindere dalle condizioni per l'ottenimento dell'exequatur indicate dall'art. 64 della Legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del diritto internazionale privato italiano. Se ne deduce quindi che non esiste nel nostro ordinamento un principio di giurisdizione civile universale per le azioni risarcitorie da delicta imperii.
Per tale ragione, un’analisi autonoma volta ad affermare esplicitamente la giurisdizione italiana va necessariamente condotta prima (o dopo) aver condiviso l'interpretazione della giurisprudenza circa l'inoperatività della norma sull'immunità nell'ordinamento giuridico italiano: il piano della inoperatività della norma sull'immunità e quello della sussistenza della giurisdizione vanno infatti tenuti distinti.
Alla luce di tali premesse, la Corte di cassazione, pur dichiarando inoperante la regola consuetudinaria dell’immunità in presenza di crimini contro l’umanità, ha rigettato il ricorso dei Flatow, in quanto la Corte distrettuale statunitense della quale veniva chiesto l’exequatur non poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano. La Suprema Corte ha infatti ritenuto che nessuno dei criteri stabiliti per la competenza per territorio dal codice di procedura civile italiano potesse trovare applicazione nel caso di specie (l’Iran non poteva essere rappresentato negli Stati Uniti, ai sensi dell’art. 19 c.p.c., avendo i due paesi da tempo interrotto ogni tipo di relazione diplomatica e nessun altro collegamento giurisdizionale è stato ritenuto sussistente)[15].
Anche nel caso oggetto della sentenza in esame, vi era quindi la necessità, dopo aver risolto in senso negativo la questione circa la sussistenza dell'immunità giurisdizionale, di ricercare un criterio di collegamento idoneo a radicare la giurisdizione italiana. La sussistenza della giurisdizione italiana si afferma in base ai criteri di competenza territoriale interna ex art. 3, comma 2, L. 31 maggio 1995, n. 218. L’affermazione di quest’ultima, implicitamente ritenuta sussistente dalle Corti d’Assise, avrebbe potuto essere anche esplicitamente ribadita, in base alla competenza territoriale interna[16] e nello specifico in applicazione dei criteri stabiliti per la competenza per territorio dal codice di procedura civile, in particolare ex art. 19 comma 2 c.p.c. Tale disposizione stabilisce che quando il convenuto è un soggetto avente personalità giuridica internazionale, lo Stato del foro è competente a condizione che lo Stato estero abbia in esso un rappresentante autorizzato a stare in giudizio. A differenza del caso Flatow, tale circostanza risultava in questo processo pacificamente sussistente in quanto è dai primi anni Novanta che tra la Repubblica Italiana e l’Ucraina intercorrono stabili relazioni diplomatiche[17]. Per lo Stato ucraino, citato in qualità di responsabile civile, si era infatti costituito fin da subito in giudizio l’ambasciatore pro tempore in Italia, in qualità di suo rappresentante legale.
L’orientamento assunto dalle Sezioni Unite del 2015, pur non ponendo problemi per la decisione del caso in esame, potrebbe in altri casi di azioni risarcitorie da delicta imperii rilevarsi dirimente, con tale decisione si sancisce infatti un argine alle richieste di risarcimento dei danni derivati da crimini internazionali.
Il limite della competenza internazionale, posto in forza dell'art. 64 della Legge n. 218/95, nonostante quanto affermato dalla stessa Cassazione nella pronuncia a Sezioni Unite Ferrini (secondo cui nei casi di crimini internazionali la giurisdizione andrebbe individuata secondo i principi della giurisdizione universale), pare in realtà ampiamente condivisibile.
Tra i principali rischi del principio della giurisdizione civile universale vi è senz’altro quello di consentire indiscriminatamente all'attore di scegliere il foro in base alle norme a lui più favorevoli, e ciò anche nei casi in cui il giudice ha un debolissimo (come nel caso Flatow), se non del tutto inesistente, collegamento con i fatti di causa.
[1] Così come definite dall’art. 8 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale: sono “crimini di guerra” gli atti posti in essere contro le persone protette dalle norme delle Convenzioni di Ginevra, fra i quali, per esempio, gli “atti di violenza contro la vita e l’integrità della persona, in particolare tutte le forme di omicidio” e “dirigere intenzionalmente attacchi contro civili che non partecipano direttamente alle ostilità”.
[2] L'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile ha da sempre costituito l’obiettivo principe del diritto internazionale: mantenere buoni i rapporti all’interno di una «società delle Nazioni» i cui membri sono in condizione di pari sovranità. A questo si aggiunge, oggi, una nuova necessaria funzione: difendere i diritti fondamentali degli individui.
[3] La cui nozione specifica va principalmente ricercata nella legge 13 giugno 1912 n. 555.
[4] Corte internazionale di giustizia, Germany c. Italy, sent. 3 febbraio 2012
[5] in particolare, quella emanata dalla Corte d'appello di Firenze nel 2005 che aveva consentito d'iscrivere un'ipoteca su Villa Vigoni, prestigioso immobile di proprietà dello Stato tedesco nei pressi del lago di Como.
[6] A tal proposito si evidenzia la Dissenting opinion (CIG, Germania c. Italia) del giudice Yusuf; nonché la Dissenting opinion del giudice Trindade, nella quale si legge che “I crimini di guerra, i crimini contro la pace ed i crimini contro l’umanità sono commessi in modo pianificato ed organizzato e per ciò sono crimini che coinvolgono una responsabilità collettiva. Questi crimini fanno affidamento sulle risorse dello Stato e per ciò essi sono crimini di Stato. Per questo è necessario che vi sia una responsabilità congiunta: la responsabilità internazionale dello Stato e la responsabilità penale degli individui […]. Non vi è immunità per così gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, per crimini di guerra e contro l’umanità. L’immunità non è mai stata concepita per simili iniquità”.
[7] Istituzione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite del Tribunale internazionale ad hoc per l’ex Jugoslavia (1993) e per il Ruanda (1994).
[8] Anche il nostro legislatore, in ottemperanza alla decisione dell’Aja, adottò nel 2013 la legge n. 5, a mezzo della quale si prescrive ai giudici di dichiarare il difetto di giurisdizione nei giudizi civili in corso nei confronti dello Stato tedesco.
[9] Con la già richiamata pronuncia n. 238 del 2014.
[10] Non mancano tuttavia gli autori che ne hanno compiuto un’aspra e dura critica di tale decisione. Tra cui Tanzi in, Immunità dello Stato e crimini internazionali tra consuetudine e bilanciamento, in La Comunità internazionale, 2012), ove si evidenza come tale pronuncia contribuisca in realtà all’indebolimento della legalità internazionale e dei suoi presidi giurisdizionali, dando così vita ad “un sistemico sostegno alla tendenza a comportamenti unilateralistici di potenze di più alto calibro”.
[11] Precedentemente Cass. pen. n. 43696/2015; S.U. civili 21947/2015; S.U. civili 15812/2016; S.U. civili 762/2017.
[12] Ove si denunciano numerosi casi di violenze e intimidazioni nei confronti di giornalisti e spegnimenti illegali di trasmissioni televisive da parte dei filorussi
[13] La famiglia Flatow decise di agire civilmente nelle corti federali statunitensi per ottenere il risarcimento dei danni in seguito ad un atto terroristico occorso nella striscia di Gaza nel quale A. Flatow aveva perso la vita e a cui si riteneva avesse collaborato l'Iran. La corte del District of Columbia affermò la propria giurisdizione negando l'immunità di giurisdizione all’Iran in quanto Stato sponsor del terrorismo e condannandolo al risarcimento dei danni. Gli attori avevano poi chiesto l'esecuzione della sentenza statunitense in Italia.
[14] Nella giurisdizione universale, sia in ambito civile che penale, il potere giurisdizionale è esercitato senza che vi sia alcun collegamento con lo Stato del foro. La ratio di tale forma di giurisdizione è la tutela di interessi di ordine generale quali la persecuzione e la punizione dei crimini internazionali. All’interno del diritto internazionale, tuttavia, non esiste attualmente alcuna norma di fonte consuetudinaria o pattizia che obblighi gli Stati ad applicare tale principio, (V. CEDU, Grande Camera, Nait-Liman v. Switzerland, del 15 marzo 2018).
[15] Le S.U. nell’indagine volta alla ricerca di un collegamento giurisdizionale rilevarono che non poteva trovare applicazione né il Regolamento «Bruxelles I», non trattandosi di materia civile e commerciale, né i criteri stabiliti per la competenza per territorio dal codice di procedura civile. L’art. 19,2 non era applicabile poiché i convenuti, soggetti aventi personalità giuridica internazionale, non erano rappresentati negli Stati Uniti: le relazioni con l'Iran si erano interrotte dal 1979. L’art. 20 (locus commissi delicti) non era applicabile poiché sia la condotta illecita, sia l'evento dannoso erano avvenute al di fuori degli Stati Uniti. Il criterio della residenza dell’attore, utilizzato dalla corte americana, risultava infine non coerente con i criteri sulla competenza giurisdizionale italiani (avente carattere residuale ex art. 18,2).
[16] Ex art. 3, comma 2, L. 31 maggio 1995, n. 218. Trattandosi di atti iure imperii anche qui, come nel caso Flatow, è da escludere l’applicazione del Regolamento «Bruxelles I» che si applica in materia civile e commerciale.
[17] Il 28 dicembre 1991 l’Italia riconobbe infatti l’Ucraina (proclamatasi indipendente il 24 agosto 1991) ed è dal 1993 che l’Ambasciata d’Ucraina a Roma ha iniziato i suoi lavori.