Corte cost. sent. 14 giugno 2022, n. 148, Pres. Amato, rel. Viganò
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1. Dopo la nota vicenda relativa al diritto al silenzio nell’ambito dei procedimenti sanzionatori davanti alla CONSOB, ove era stato riconosciuto dalla Corte costituzionale il diritto a non rendere dichiarazioni indizianti la commissione di un illecito amministrativo punitivo[1], la questione torna al vaglio della Corte costituzionale, questa volta in relazione al diritto dell’acquirente di sostanze stupefacenti a non rilasciare dichiarazioni indizianti la propria responsabilità per gli illeciti amministrativi previsti dall’art. 75 t.u. stupefacenti. Pur confermando i principi affermati nel 2019 e nel 2021, la soluzione nel caso concreto è opposta, negandosi in capo all’acquirente di stupefacenti il diritto al silenzio, posto che le sanzioni di cui all’art. 75 avrebbero finalità preventiva e non punitiva.
2. La questione era risultata rilevante in due procedimenti di convalida dell’arresto e di applicazione di misure cautelari in corso di svolgimento presso il Tribunale di Firenze nei confronti di soggetti indagati per il reato di cui all’art. 73 co. 5, per la cessione a titolo oneroso di piccole quantità di hashish. Il giudice a quo si interroga sull’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’acquirente della sostanza stupefacente, che era stato sentito dalla polizia giudiziaria senza ricevere gli avvisi previsti per la persona sottoposta ad indagini; ai sensi dell’art. 64 co. 3 c.p.p., infatti, tali avvisi devono essere rivolti al soggetto che renda dichiarazioni tali da indiziare la commissione di un reato, mentre al soggetto che aveva riconosciuto l’acquisto dello stupefacente era imputabile solo l’illecito amministrativo previsto all’art. 75 t.u. stup. Il tribunale fiorentino dubita della legittimità costituzionale di tale soluzione, peraltro ritenuta obbligata ai sensi del disposto normativo e della sua pacifica interpretazione in tal senso da parte della giurisprudenza.
Il ragionamento parte dalla premessa che le sanzioni previste dall’art. 75 hanno natura sostanzialmente penale, in quanto caratterizzate da una finalità punitiva della condotta del consumatore di stupefacenti (come emergerebbe dalla constatazione che “l’autorità competente ad irrogarle – il prefetto – non è chiamata ad alcun accertamento sulla effettiva pericolosità dell’interessato, né sulla eventuale trasgressione, da parte di costui, delle norme relative alla circolazione stradale”), e in quanto sanzioni “dall’elevata carica afflittiva, come già riconosciuto da questa Corte nella sentenza n. 68 del 2021 in relazione alla revoca della patente di guida, le quali peraltro si lascerebbero spiegare soltanto quali strumenti funzionali a dissuadere i consociati dall’acquistare sostanze stupefacenti e dall’incrementare, in tal modo, il traffico illecito delle sostanze medesime”[2]. Il Tribunale si richiama allora alla più recente giurisprudenza costituzionale (che, come già accennato sopra, ha esteso il diritto al silenzio alle ipotesi in cui le dichiarazioni richieste potrebbero indiziare la commissione di un illecito amministrativo punitivo[3]), e chiede che venga dichiarata la parziale incostituzionalità dell’art. 64 co. 3 c.p.p. (per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 177, in relazione all’art. 6 CEDU) nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti siano rivolti anche alla persona che si sia resa responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75 t.u. stup. (con la conseguenza, rilevante nel caso concreto, di ritenere inutilizzabili ai sensi dell’art. 64 co. 3-bis le dichiarazioni rese dall’acquirente nel processo penale a carico di chi ha venduto la sostanza)[4].
3. La Corte, come già anticipato, ritiene infondata la questione sottopostale, e la ragione del mancato accoglimento deriva dal rifiuto di accogliere il presupposto logico di tutta l’argomentazione del giudice a quo, e cioè la riconducibilità al novero delle sanzioni sostanzialmente penali secondo i criteri Engel delle misure previste nei confronti del consumatore di sostanze stupefacenti dall’art. 75 t.u. stup.
La sentenza inizia con il riportare un passaggio di una propria decisione del 2016, secondo cui “l’art. 75 t.u. stupefacenti rappresenta il momento saliente di emersione della strategia – cui si ispira la normativa italiana in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope a partire dalla legge 22 dicembre 1975, n. 685 – volta a differenziare, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del consumatore della droga da quelle del produttore e del trafficante. L’idea di fondo del legislatore è che l’intervento repressivo debba rivolgersi precipuamente nei confronti dei secondi, dovendosi scorgere, di norma, nella figura del tossicodipendente o del tossicofilo una manifestazione di disadattamento sociale, cui far fronte, se del caso, con interventi di tipo terapeutico e riabilitativo”[5].
Se tale impostazione trova riscontro nel co. 2 dell’art. 75, ove il legislatore prevede proprio la possibilità per il consumatore di stupefacenti di accedere a programmi terapeutici o socio-riabilitativi, o a programmi educativi o informativi personalizzati in relazione alle sue specifiche esigenze, è la stessa Corte ad ammettere come “meno evidente appare, invero, la natura giuridica delle ‘sanzioni’ previste dal comma 1, da irrogarsi entro il minimo e il massimo previsto a seconda che la condotta abbia a oggetto droghe cosiddette “pesanti” o “leggere”, e sottoposte a un procedimento applicativo che ricalca in larga misura quello previsto per la generalità delle sanzioni amministrative dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale): la sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni (lettera a); la sospensione della licenza di porto d’armi o il divieto di conseguirla (lettera b); la sospensione del passaporto o di altro documento equipollente, ovvero il divieto di conseguirli (lettera c); la sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o il divieto di conseguirlo, per ciò che concerne i cittadini extracomunitari (lettera d)”[6].
Il giudizio in ordine alla natura sostanzialmente penale di tali misure parte dall’affermare che la pur riconosciuta “elevata carica di afflittività rispetto ai diritti fondamentali sui quali esse incidono non esclude, di per sé stessa, la loro finalità preventiva, né depone univocamente nel senso di una loro natura ‘punitiva’”[7]. Al riguardo la sentenza ricorda come alle misure personali di prevenzione, che pure hanno una significativa incidenza su svariati diritti fondamentali, sia la Corte costituzionale che la Corte EDU abbiano sempre negato natura sostanzialmente penale, proprio in ragione della loro finalità preventiva e non punitiva.
La Corte individua poi le ragioni per cui, al pari delle misure di prevenzione, anche le misure previste dall’art. 75 t.u. stup. non avrebbero finalità punitiva, ma preventiva.
Quanto alla misura della sospensione della patente, essa ha secondo la Corte una “finalità spiccatamente preventiva”, essendo “evidentemente funzionale a prevenire i rischi connessi alla guida di autoveicoli da parte di soggetti in stato di intossicazione”[8]. La Corte riconosce come la recente sentenza n. 68/2021, citata nell’ordinanza di rimessione, abbia effettivamente riconosciuto “connotazioni sostanzialmente punitive” alla revoca della patente disposta dal giudice penale in caso di condanna per i reati di cui agli art. 589-bis e 590-bis c.p., ma ritiene possibile operare un distinguo rispetto a tale decisione, in quanto la misura oggetto di scrutinio nel 2021 “viene irrogata direttamente dal giudice penale nella stessa sentenza di condanna, ovvero dall’autorità amministrativa a seguito della condanna penale dell’interessato per un fatto costituente reato; mentre nell’ipotesi regolata dall’art. 75 t.u. stupefacenti la misura è disposta dall’autorità amministrativa in conseguenza dell’accertamento di un fatto che l’ordinamento ha scelto di non qualificare come reato, e che quindi non dà luogo ad alcuna conseguenza di natura penale a carico dell’interessato. Tale fatto d’altra parte, denota – nella non irragionevole valutazione del legislatore – la possibile pericolosità del suo autore per la generalità degli utenti del traffico, in considerazione del rischio che egli si ponga alla guida di un autoveicolo in una condizione di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti”[9].
Per quanto riguarda poi la sospensione della licenza di porto d’armi e il divieto di conseguirla, tali misure “appaiono strumentali a evitare l’abuso intenzionale, o anche solo l’uso non accorto, di armi da parte di un soggetto con minori capacità di autocontrollo per effetto dell’assunzione di sostanze stupefacenti”; mentre la misura della sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo “sottende evidentemente il venir meno dei requisiti morali minimi ai quali è subordinato il rilascio, o la persistente validità, del permesso di soggiorno per motivi di turismo nei confronti dello straniero extracomunitario, in conseguenza del paventato pericolo di turbamento dell’ordine pubblico connesso al consumo di sostanze stupefacenti da parte di costui”[10].
Esclusa per le ragioni appena riferite la finalità punitiva delle misure di cui all’art. 75 t.u. imm., prima di concludere per il rigetto della questione la Corte ha cura di precisare come la riconosciuta finalità preventiva di tali misure debba essere tenuta in considerazione dell’autorità amministrativa al momento di decidere in ordine alla loro concreta applicazione[11], ritenendo conclusivamente che “in tali valutazioni dovrà restare a priori esclusa ogni impropria logica punitiva, la quale chiamerebbe necessariamente in causa lo statuto costituzionale della responsabilità penale, incluso lo stesso ‘diritto al silenzio’ nell’ambito del procedimento applicativo delle sanzioni qui all’esame’[12].
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4. La sentenza in esame, pur ponendosi nel solco degli indirizzi più recenti, segna una battuta d’arresto nell’ormai lungo percorso di estensione delle garanzie proprie della materia penale alle sanzioni amministrative: senza mettere in discussione il principio dell’applicabilità di tali garanzie agli illeciti amministrativi punitivi, la Corte arriva a respingere la questione sollevata mediante un’interpretazione a nostro avviso molto discutibile della finalità da attribuire alle sanzioni amministrative previste per il consumatore di stupefacenti. Prima però di analizzare le ragioni del nostro dissenso rispetto alla soluzione adottata dalla sentenza, vogliamo spendere qualche considerazione più generale sullo schema adottato dalla Corte per accertare la natura sostanzialmente penale di un illecito amministrativo.
5. L’iter argomentativo seguito dalla sentenza rappresenta l’ennesima ed esplicita conferma che, secondo la criteriologia della materia penale adottata dalla Corte, i celebri tre criteri Engel sono in realtà solo due. Come noto, i criteri (alternativi, e non cumulativi) fissati dalla celebre sentenza della Corte EDU del 1976 per delimitare la materia erano appunto tre: la qualificazione dell’illecito come penale da parte della legislazione interna, la natura dello stesso e la gravità della sanzione. La gravità della sanzione era dunque, secondo il modello originario, un criterio autonomo della natura sostanzialmente penale dell’illecito: tanto che, proprio nel caso Engel, la Corte aveva escluso che una misura disciplinare detentiva applicata ad un militare avesse natura punitiva e dunque fosse da considerare penale ai sensi del secondo criterio, ma aveva qualificato comunque come sostanzialmente penale la sanzione alla luce del terzo criterio, in ragione della sua elevata carica afflittiva.
Ora, tale modello risulta espressamente derogato dalla Corte nella sentenza in commento, quando si sostiene che l’elevata carica di afflittività della misura non depone univocamente nel senso della sua natura punitiva, né è incompatibile con una finalità preventiva. Da autonomo criterio di qualificazione della natura penale di un illecito, quale è da considerare secondo la criteriologia Engel, la gravità della sanzione (id est la sua carica afflittiva) è “declassata” ad elemento (non decisivo) da tenere in considerazione insieme ad altri per valutare la natura punitiva dell’illecito, che diventa dunque l’unico criterio per valutare la natura sostanzialmente penale di una misura amministrativa[13].
Non si tratta certo di una novità della sentenza qui in esame, che sul punto non fa che richiamarsi ai precedenti (propri e della Corte EDU) in materia di misure di prevenzione personali, ove è stata negata natura penale a misure fortemente afflittive, come la sorveglianza speciale, proprio in ragione della loro asserita finalità preventiva e non punitiva. Se non è questo breve commento la sede per discutere di un orientamento già consolidato[14], la conferma di tale principio da parte della sentenza in esame è però interessante perché porta all’attenzione dell’interprete profili di criticità che in relazione alle decisioni sulle misure di prevenzione erano rimasti sottotraccia.
Le recenti decisioni in cui è stata negata natura penale alle misure di prevenzione (dalla sentenza De Tommaso della Corte EDU alle decisioni della Corte citate nella sentenza) sono, infatti, tutte ipotesi in cui la garanzia penalistica che veniva invocata (il principio di legalità) trovava riscontro anche nelle garanzie apprestate dalla Convenzione (o dalla nostra Costituzione) a tutela del diritto fondamentale (la libertà di circolazione) su cui andava ad incidere la misura di prevenzione. Alla negazione della natura penale aveva fatto quindi seguito il riscontro della violazione (o dell’eccezione di costituzionalità) perché era stato ritenuto violato il principio per cui le misure incidenti sulla libertà di circolazione devono essere descritte in modo tassativo dalla legge: il rilievo dell’affermazione circa la natura non penale delle misure di prevenzione, anche se gravemente afflittive, era stato allora messo in ombra dall’importanza di decisioni che avevano comunque segnato una svolta in senso garantistico.
Nel caso ora in esame, invece, la garanzia invocata dal giudice a quo a fondamento della questione di costituzionalità è peculiare della materia penale, e di conseguenza la negazione della natura sostanzialmente penale della misura conduce inevitabilmente a negare anche l’estensione della garanzia in questione. Appare allora evidente come la riduzione del criterio della gravità della misura a mero indicatore della finalità punitiva porti con sé una significativa riduzione dell’area della materia penale in senso lato, negandone l’estensione ad ipotesi (come, quasi per paradosso, quella oggetto del leading case del 1976) di misure anche gravemente afflittive dei diritti fondamentali del destinatario.
Su quali basi si fonda questa operazione di riduzione della materia penale à la Engel, effettuata senza che né la Corte EDU né la Corte costituzionale abbiano mai espressamente dichiarato il superamento dell’originaria criteriologia? E se davvero l’afflittività della misura non ne comporta di per sé la natura penale, anche misure preventive che incidano sulla libertà personale giacerebbero al di fuori della materia penale, e il loro corredo di garanzie sarebbero allora solo quello previsto dalle norme poste a presidio di tale diritto (l’art. 13 Cost. e l’art. 5 CEDU)? O invece quando è in gioco la libertà personale, le garanzie della materia penale dovrebbero comunque ritenersi applicabili, anche al di là della finalità perseguita dal legislatore nel disporre la misura?
Non si tratta di domande nuove per la letteratura in argomento, ma sinora esse non hanno trovato una esplicita risposta nella giurisprudenza della Corte costituzionale. La vicenda ora in esame ha posto in luce, con maggiore evidenza che in passato, quanto tali domande siano rilevanti ai fini della tutela dei diritti fondamentali coinvolti, e sarebbe auspicabile che i nostri giudici delle leggi trovino in futuro l’occasione per una più nitida ed argomentata delimitazione della nozione costituzionale di materia penale, anche alla luce dei suoi rapporti con la formulazione fornitane dalla sentenza Engel, il cui richiamo pare ormai poco più che tralatizio.
6. L’aspetto che desta maggiori perplessità della decisione in commento è però, come già accennato, quello relativo alla decisione di ritenere che le sanzioni previste dall’art. 75 t.u. stup. non abbiano natura punitiva, essendo tutte a vario titolo caratterizzate da uno scopo preventivo (prevalente o esclusivo, la sentenza non è esplicita al riguardo). Tutti gli argomenti utilizzati paiono, a ben vedere, assai discutibili.
7. Partendo dagli argomenti relativi alle singole misure previste dalla norma, quanto alla sospensione della patente la Corte, come visto sopra, ritiene addirittura “evidente” la sua finalità di prevenire i rischi connessi all’uso di veicoli da parte di soggetti in stato di intossicazione da stupefacenti, e ritiene non decisivo il proprio precedente in cui era stata riconosciuta natura punitiva alla confisca del veicolo conseguente alla condanna per i reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis, posto che in quel caso la misura era disposta dal giudice penale o dall’autorità amministrativa in seguito alla condanna penale, mentre nel caso in esame la misura ha natura esclusivamente amministrativa. Il passaggio che non ci convince riguarda il distinguishing operato rispetto al precedente del 2021, in cui si valorizza la circostanza che nel caso in esame l’applicazione della misura sia indipendente dalla commissione di un reato. In realtà, nella criteriologia della materia penale di origine convenzionale, quello del legame della misura con un procedimento penale è un criterio distinto da quello della finalità della misura: per stabilire la natura dell’illecito (secondo criterio Engel), quando la finalità punitiva o preventiva risulti incerta, possono essere utilizzati altri criteri sussidiari, tra cui appunto il suo legame con un procedimento formalmente penale o la sua applicazione da parte del giudice penale. Nella sentenza in esame, invece, l’assenza di tale legame sembra venire utilizzata a sostegno della sua natura preventiva, e quindi come fattore in grado di fondare il distinguo rispetto all’affermata natura punitiva della revoca della patente da parte del giudice penale. L’argomento della mancanza di legame con un procedimento penale avrebbe allora potuto, a nostro parere, venire utilizzato dalla Corte nel giudizio complessivo sulla natura sostanzialmente penale dell’illecito, ma non a sostegno della tesi della finalità preventiva della misura, posto che la finalità di una misura non dipende dal soggetto chiamato ad applicarla.
Solo pochi cenni vengono poi dedicati alla misura del ritiro del porto d’armi, che, tra le diverse misure previste dalla norma, è quella rispetto alla quale la tesi della natura preventiva pare effettivamente più plausibile; e a quella del diniego del permesso di soggiorno per motivi di turismo, ove la sentenza fa riferimento a non meglio precisati “requisiti morali minimi” ai quali sarebbe subordinato tale permesso (in realtà non ci pare ci sia alcuna norma che preveda tale requisiti, la cui formulazione nei termini usati dalla sentenza lascerebbe peraltro dubitare della sua legittimità sotto il profilo del rispetto della riserva di legge di cui all’art. 10 co. 2 Cost.), e al pericolo per l’ordine pubblico rappresentato da uno straniero che consumi stupefacenti.
Il punto più debole della motivazione consiste tuttavia nella scelta di non fare neppure un cenno alle ragioni per cui sarebbe da attribuire natura preventiva alla misura del ritiro del passaporto. In effetti, davvero non si vede quale esigenza di prevenzione possa stare a fondamento di una misura che non ha all’evidenza altra finalità che quella di punire il consumatore di stupefacenti, impedendogli di lasciare il Paese, e dunque limitando in modo significativo un diritto costituzionale senza alcuna finalità di tutela preventiva dell’ordine o della sicurezza pubbliche. La mancanza di ogni riferimento a tale misura rappresenta l’implicito riconoscimento che rispetto ad essa non vi erano appigli per motivarne la finalità preventiva, e dunque equivale in sostanza a riconoscere che almeno una delle misure previste dall’art. 75 t. stup. ha indiscutibilmente finalità punitiva.
8. Se rispetto alle singole misure l’argomentazione della loro natura preventiva non pare dunque particolarmente solida (se non rispetto al porto d’armi), ed è poi addirittura del tutto assente rispetto alla misura che ha un evidente scopo punitivo (il ritiro del passaporto), vi sono anche altri elementi di contesto, non valorizzati dalla Corte, che a nostro avviso depongono nel senso della natura punitiva delle misure previste dall’art. 75.
Innanzitutto, ci pare indicativo della finalità punitiva il criterio di quantificazione della durata delle stesse, che dipende dal fatto che si tratti di droga pesante o leggera, secondo il medesimo modello adottato dall’art. 73 per la determinazione delle pene per i reati di cessione di stupefacenti. Certo tale criterio potrebbe essere giustificato anche in chiave preventiva, supponendosi che il consumatore di droghe pesanti rappresenti un pericolo più persistente per l’ordine pubblico; ma in realtà, nel disegno complessivo del legislatore, la differenza sanzionatoria tra droghe pesanti e droghe leggere trova una spiegazione più piana nella volontà di “trasferire” il sistema punitivo previsto in sede penale per le ipotesi di cessione, al sistema “punitivo” amministrativo previsto per il consumatore.
Depone poi per una qualificazione in senso punitivo la circostanza che l’applicazione di almeno una misura sia obbligatoria per il prefetto, posto che in prospettiva preventiva dovrebbe essere concessa all’autorità amministrativa la possibilità di astenersi dall’applicare alcuna misura, quando nel caso concreto il consumatore non mostri profili di pericolosità per l’ordine pubblico, mentre la necessità di applicare comunque una misura è perfettamente coerente con una logica punitiva. L’art. 75 co. 14, in realtà, prevede che le misure di cui al co. 1 possano essere sostituite (solo per la prima volta) con un ammonimento a non fare più uso delle sostanze, quando “il caso sia di particolare tenuità e ricorrano elementi tali da far presumere che la persona si asterrà, per il futuro, dal commettere i fatti di cui al primo comma”. Ma anche tale disposizione si legge più agevolmente in una logica punitiva piuttosto che preventiva, considerato come la non applicazione di alcuna misura sia legata alla tenuità del caso e sia praticabile solo la prima volta in cui venga contestata la violazione, entrambi requisiti da cui emerge la minore gravità del fatto oggetto di (non) punizione, più che la mancanza di pericolosità del suo autore.
Orienta ancora nella medesima direzione il giudizio anche l’elemento dell’applicabilità all’illecito di cui all’art. 75 delle disposizioni previste per la generalità degli illeciti amministrativi dalla l. 689/1981; non solo, infatti, come ricorda la Corte, il procedimento applicativo ricalca quello delineato dalla legge del 1981, ma è lo stesso art. 75 co. 12 a prevedere che “si applicano, per quanto compatibili, le norme della sezione II del capo I (rubricato ‘applicazione’) e il secondo comma dell’art. 62 della legge n. 689/1981”[15]. Ora, considerato come il genus di illecito ammnistrativo delineato dalla legge 689/1981 rappresenti per unanime opinione l’archetipo dell’illecito amministrativo punitivo, riconducibile alla materia penale in senso lato, l’ampio ed espresso riferimento dell’art. 75 a tale legge ci pare un indizio importante delle reali finalità del legislatore.
Volgendo poi lo sguardo alla complessiva strategia di contrasto al consumo di stupefacenti delineato dall’attuale normativa, il richiamo alle finalità di intervento “terapeutico e riabilitativo” cui sarebbe orientato l’art. 75 può valere, come sottolinea la Corte, per la misura della partecipazione volontaria ad un programma riabilitativo prevista dal co. 2, ma davvero non ci pare possa essere esteso alle misure del co. 1. La nostra legislazione degli ultimi decenni in materia di stupefacenti è caratterizzata da un solidissimo impianto punitivo, al punto che l’originaria formulazione dell’art. 75 co. 1 prevedeva che la sanzione amministrativa si applicasse in luogo di quella penale solo se la detenzione a fine di consumo avesse ad oggetto una quantità di sostanza non superiore alla “dose media giornaliera”, e solo l’esito del referendum del 1993 ha escluso in ogni caso la rilevanza penale della detenzione con finalità di consumo personale[16]. Lungi, quindi, dal costituire misure a finalità preventiva, nel disegno del legislatore del 1990 le misure dell’art. 75 co. 1 rappresentavano una forma meno grave di sanzione, da applicare al consumatore in luogo di quella penale per evitare una criminalizzazione a tappeto del consumo che sarebbe stata impossibile da gestire da parte dell’apparato repressivo: una misura meno grave, ma a tutti gli effetti e senza dubbi una misura punitiva, a cui il co. 2 affiancava la previsione, essa sì formulata in chiave preventiva, di percorsi di recupero cui il consumatore poteva decidere di accedere. Insomma, una lettura sistematica porta a considerare le sanzioni di cui all’art. 75 co. 1 non già come un intervento preventivo che si contrappone alla logica punitiva dell’art. 73, bensì come un affievolimento del trattamento sanzionatorio per il consumatore rispetto allo spacciatore, all’interno comunque di un approccio punitivo nei confronti di entrambe le tipologie di condotte (al punto che, come appena visto, nel sistema pre-referendum anche il consumatore poteva andare incontro a sanzioni penali, se trovato in possesso di un significativo non modesto di stupefacente).
9. Ci pare di avere esposto le ragioni per cui non riteniamo condivisibile la decisione della Corte di negare natura sostanzialmente penali alle sanzioni amministrative di cui all’art. 75 co. 1 t.u. stup. Se anche, rispetto almeno ad alcune delle misure previste, è plausibile ritenere che esse siano finalizzate anche al raggiungimento di scopi preventivi, vi sono elementi da cui traspare con evidenza che esse non siano scevre anche di connotati punitivi, ancora più evidenti se l’art. 75 co. 1 viene interpretato in chiave sistematica. Ci troviamo di fronte ad un caso in cui nelle misure sottoposte a scrutinio convivono finalità punitiva e preventiva, e dove quindi (secondo un costante insegnamento della giurisprudenza della Corte EDU) la forte afflittività della misura, se non basta da sola a fare qualificare come penale una misura genuinamente ed esclusivamente preventiva, avrebbe dovuto orientare l’interprete per il riconoscimento della natura penale[17].
Non sfuggono a chi scrive le importanti conseguenze pratiche che avrebbe comportato per il sistema di law enforcement una pronuncia di accoglimento della questione prospettata. Mentre oggi, al consumatore che si rifiuti di fornire informazioni circa il soggetto responsabile della cessione, l’ufficiale di polizia giudiziaria può prospettare l’addebito del delitto di favoreggiamento personale, qualora l’eccezione fosse stata accolta non solo il consumatore non si sarebbe reso responsabile di alcun reato in caso di reticenza, ma avrebbe dovuto essere sentito con le garanzie previste dall’art. 64 c.p.p. Un mutamento di non poco conto, che sarebbe andato ad impattare in particolare proprio sull’attività di contrasto allo spaccio al minuto (dove è decisivo il contributo in sede di identificazione da parte dei cessionari della sostanza), che più di ogni altra incide su quella “sicurezza percepita” che da decenni orienta la politica criminale del nostro legislatore. Un conto allora è riconoscere il diritto al silenzio negli ovattati locali dove la CONSOB svolge la propria attività sanzionatoria, un conto è riconoscerlo ad un consumatore di stupefacenti fermato mentre acquista la sostanza vietata. Per evitare di mettere in discussione i principi affermati nelle decisioni precedenti, ed al contempo evitare una pronuncia di incostituzionalità dagli effetti probabilmente dirompenti in un settore politicamente così delicato come quello del contrasto al traffico di stupefacenti, alla Corte si apriva solo la strada tutta in salita del negare natura sostanzialmente penale alle misure dell’art. 75 t.u. stup., e tale strada è stata imboccata.
Il rischio, insito nella decisione assunta dalla Corte, è che si perpetui proprio quella “truffa delle etichette”, che l’adozione della nozione di materia sostanzialmente penale intendeva scongiurare. Se, infatti, come noto, l’estensione delle garanzie penalistiche anche a sanzioni amministrative sostanzialmente penali voleva evitare la possibilità che la mera qualificazione formale di una misura consentisse al legislatore di negarle l’applicabilità delle garanzie sovra-legali proprie della materia penale, ora il medesimo risultato si può conseguire attribuendo alla misura l’etichetta di misura preventiva invece che punitiva, sulla base di criteri vaghi ed aperti ad una imponente discrezionalità dell’interprete.
Per evitare che tale rischio si concretizzi, e che l’attribuzione di finalità preventiva alle misure dell’art. 75 si risolva solo in un escamotage per negarne la natura di misure sostanzialmente penali, è fondamentale che non si perda nel vuoto l’indicazione fornita dalla Corte, proprio in chiusura della sentenza, a che l’autorità amministrativa sia attenta a considerare tale finalità preventiva al momento di decidere l’an e il quantum delle misure concretamente da applicare. Il prefetto dovrà decidere quali misure applicare e per quale durata sulla base di una valutazione relativa al rischio che il destinatario può rappresentare per l’ordine e la sicurezza pubblica, calibrando la risposta afflittiva in modo che “rimanga a priori esclusa ogni impropria logica punitiva”: con la conseguenza (ci permettiamo di aggiungere al ragionamento della Corte) che una misura come quella del ritiro del passaporto dovrebbe de facto considerarsi inapplicabile, considerata la sua totale estraneità ad una logica preventiva.
Ci auguriamo che i prefetti, cui la Corte rivolge il proprio monito, siano celeri nell’accoglierlo, motivando da oggi i propri provvedimenti in quella logica preventiva imposta dalla sentenza; e ci auguriamo altresì che, qualora ciò non avvenga, i difensori dei destinatari siano pronti ad impugnarne le decisioni, qualora da esse traspaia una illegittima finalità punitiva. Se ciò avvenisse, sarebbe un passaggio importante verso il superamento di quella logica ferocemente punitiva, che permea la nostra legislazione in tema di stupefacenti; se invece tutto rimarrà come prima, e la qualificazione come misure preventive resterà solo sulle pagine della sentenza, rimarrà l’amaro in bocca per una decisione che risulta distonica, almeno negli esiti, rispetto a quel percorso di estensione delle garanzie penalistiche al vasto mondo dell’illecito ammnistrativo, che la Corte ha con decisione intrapreso negli ultimi anni.
[1] Il riferimento è all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117/2019, che aveva formulato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, deciso dalla Grande sezione nel 2019 (C-489/19), in seguito al quale la Corte costituzionale aveva poi emesso la sentenza n. 84/2021: tutte decisioni oggetto di commento sulle pagine di questa Rivista.
[2] Così vengono sintetizzati gli argomenti del giudice a quo al § 4.1 del considerato in diritto.
[3] L’ordinanza di rimessione fa appunto riferimento alle pronunce della Corte costituzionale del 2019 e del 2021 già citate sopra.
[4] L’ordinanza aveva chiesto che fosse dichiarata la parziale incostituzionalità del solo art. 64 co. 3 c.p.p., senza alcun riferimento al co. 3-bis, che è invece la norma la cui applicazione è rilevante nel giudizio a quo; la Corte, tuttavia, ritiene che “dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, alla cui luce deve essere interpretato il relativo dispositivo (da ultimo, sentenza n. 73 del 2022), si evince che il giudice ha inteso in effetti censurare il combinato disposto dei commi 3 e 3-bis dell’art. 64 cod. proc. pen.,” (§ 3.2 del considerato in diritto), e reputa di conseguenza che il mancato richiamo del co. 3-bis nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione non rappresenti un motivo di inammissibilità della stessa.
[5] C. Cost., 109/2016, § 4 del considerato in diritto: la sentenza è relativa alla legittimità costituzionale della mancata previsione della coltivazione tra le condotte che, se compiute per farne uso personale, rilevano ai sensi dell’art. 75 t.u. stup., e non del reato di cui all’art. 73
[6] § 4.2.2 del considerato in diritto.
[7] § 4.2.3 del considerato in diritto.
[8] § 4.2.4 del considerato in diritto.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] “Nell’esercitare, dunque, la propria discrezionalità nella decisione relativa tanto all’an (nei limiti consentiti dal menzionato comma 14), quanto alla tipologia delle sanzioni da irrogare in concreto e alla loro durata, il prefetto non potrà non orientarsi alla logica preventiva che sorregge la scelta legislativa. Ogni determinazione relativa alla sanzione, e alla sua concreta durata, dovrà pertanto giustificarsi al metro dei criteri di idoneità, necessità e proporzionalità rispetto alle legittime finalità di ciascuna sanzione, alla luce delle caratteristiche del caso concreto, e segnatamente della peculiare situazione del destinatario delle misure. Questi potrebbe collocarsi in qualsiasi punto, estremo o intermedio, dell’ideale scala che conduce dalla figura del consumatore occasionale di una droga “leggera” sino a quella di un tossicodipendente il cui comportamento sia ormai gravemente condizionato dall’uso continuo di sostanze stupefacenti, e nei cui confronti certamente sussisteranno, ad esempio, ragioni cogenti per sospendere la patente di guida e la licenza di porto d’armi”: § 4.2.5 del considerato in diritto.
[12] Ibidem.
[13] Per una più distesa argomentazione sul punto, oltre che per i necessari riferimenti giurisprudenziali e dottrinali, sia consentito rinviare a L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, 2018, in particolare p. 210 ss.
[14] Abbiamo sviluppato alcune considerazioni critiche in argomento in L. Masera, La nozione, p. 215 ss.
[15] Art. 68 co. 2 l. 689/1981: “Quando il condannato svolge un lavoro per il quale la patente di guida costituisce indispensabile requisito, il magistrato di sorveglianza può disciplinare la sospensione in modo da non ostacolare il lavoro del condannato”.
[16] Per una ricostruzione delle vicende relative all’art. 75 e più in generale alla disciplina del consumo di stupefacenti, cfr. P. Sorbello, Attività autorizzate ed illeciti penali ed amministrativi. L’uso di sostanze stupefacenti, in I reati in materia di stupefacenti, a cura di G. Insolera, G. Spangher, L. Della Ragione, Milano, 2019, p. 767 ss.
[17] Sulla giurisprudenza europea relativa allo specifico tema della compresenza di più finalità, cfr. L. Masera, La nozione, cit., p. 69.