Corte cost., sent. 9 ottobre 2019 (dep. 8 novembre 2019), n. 229, Pres. Lattanzi, Rel. Viganò
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1. Con la sentenza n. 229 del 2019, la Consulta ha avuto l’occasione di completare l’opera già intrapresa dalla precedente pronuncia n. 149 del 2018, sancendo l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4 ord. pen. anche nella parte che in quella sede non era stata interessata da questioni di costituzionalità. Tale norma, ora integralmente censurata dalla Corte costituzionale, era volta a configurare uno speciale regime detentivo nei confronti dei condannati per i delitti di cui agli artt. 289-bis (“Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione”) e 630 (“Sequestro di persona a scopo di estorsione”) c.p. che avessero altresì cagionato la morte del sequestrato: si prevedeva, infatti, che costoro non potessero godere dei benefici penitenziari – comunque alle condizioni di cui all’art. 4-bis, comma 1 ord. pen., trattandosi di reati c.d. ostativi – qualora non avessero effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata, o, in caso di condanna all’ergastolo, almeno ventisei anni di pena.
Se la sentenza n. 149 del 2018 aveva avuto come specifico oggetto il trattamento penitenziario degli ergastolani detenuti per tali reati, che veniva così allineato a quello di tutti gli altri ergastolani condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis ord. pen., la pronuncia ora in esame concerne invece la prima parte della disposizione in questione, operando in favore di tutti i detenuti condannati per i reati di cui sopra a pena temporanea.
2. Il giudizio di legittimità costituzionale era stato promosso dai Magistrati di sorveglianza di Milano e di Padova, i quali, chiamati a valutare la possibilità di concedere un permesso premio a detenuti condannati in via definitiva per sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte del sequestrato, avrebbero dovuto rigettare le istanze per inammissibilità, non avendo costoro maturato un periodo di detenzione pari a quello richiesto dall’art. 58-quater c. 4 ord. pen., ossia agli effettivi due terzi della pena irrogata; ciò, sebbene in relazione a entrambi sussistessero le condizioni di cui all’art. 58-ter ord. pen., avendo collaborato con la giustizia l’uno e trovandosi in una situazione di “collaborazione impossibile” l’altro.
Entrambi i giudici, tuttavia, dubitavano della legittimità costituzionale della disposizione in questione: anzitutto alla luce dell’art. 3 Cost., in virtù della irragionevole disparità di trattamento venutasi a creare dopo l’intervento della stessa Corte costituzionale tra la situazione dei detenuti condannati all’ergastolo (i quali, alle condizioni descritte dall’art. 58-ter ord. pen., possono accedere ai benefici penitenziari dopo aver espiato dieci anni di pena, ulteriormente riducibili per effetto della liberazione anticipata) e quella dei detenuti condannati a pena temporanea (per i quali si richiedeva l’effettiva espiazione dei due terzi della pena irrogata, senza poter usufruire della liberazione anticipata); in secondo luogo, sempre con riferimento all’art. 3 Cost., per la irragionevole differenziazione nel trattamento penitenziario riservato ai condannati per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte del sequestrato rispetto a quello dei condannati per gli altri gravi delitti di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen.; infine, con riguardo al principio di rieducazione del condannato di cui all’art. 27 c. 3 Cost., in relazione ai medesimi vizi già riscontrati dalla Consulta nella precedente sentenza n. 149 del 2018.
3. La pronuncia in esame, in effetti, costituisce una sostanziale riaffermazione di quanto già sancito dal giudice delle leggi nella appena richiamata sentenza n. 149 del 2018, oltre che naturale completamento di questa; in quella sede, l’art. 58-quater c. 4 ord. pen. era stato ritenuto in contrasto – nella parte in cui subordinava l’accesso ai benefici da parte degli ergastolani per i delitti di cui sopra all’effettiva esecuzione di ventisei anni di pena – con gli artt. 3 e 27 c. 3 Cost. in combinato disposto, in quanto la disciplina che ne risultava appariva intrinsecamente irragionevole avuto riguardo alla funziona rieducativa che la pena deve necessariamente perseguire nel nostro ordinamento[1].
Più nello specifico, la Corte costituzionale ha in quell’occasione ritenuto che l’“appiattimento” della possibilità di accedere ai benefici penitenziari sulla rigida soglia dei ventisei anni di pena effettivamente eseguita fosse contrario ai principi di progressività del trattamento e di flessibilità della pena, direttamente desumibili dall’art. 27 c. 3 Cost. in quanto necessari ai fini del «graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l’intero arco dell’esecuzione della pena»[2]. La disciplina di legge, peraltro, aveva l’effetto di sovvertire irragionevolmente la logica gradualistica alla base del principio di progressività trattamentale, potendo paradossalmente l’ergastolano accedere prima alla liberazione condizionale (alla quale l’ergastolano ostativo è ammesso, alle condizioni di cui all’art. 58-ter ord. pen., dopo ventisei anni di pena, riducibili fino a ventuno anni in presenza dei presupposti per la liberazione anticipata) che ai benefici penitenziari, il cui fine dovrebbe invece essere proprio quello di preparare il detenuto a una successiva liberazione[3].
Oltre a ciò, la Consulta ha considerato che l’impossibilità per l’ergastolano ai sensi dell’art. 58-quater c. 4 ord. pen. di avvalersi degli sconti di pena applicabili attraverso l’istituto della liberazione anticipata per ben ventisei anni di reclusione potesse avere l’effetto di disincentivare il detenuto dal partecipare all’opera di rieducazione, così frustrando la fondamentale finalità alla base della stessa liberazione anticipata, la quale «costituisce diretta attuazione del precetto costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.»[4].
Infine, anche il carattere automatico della preclusione di cui all’art. 58-quater c. 4 ord. pen. a giudizio della Corte si scontrava frontalmente con l’imprescindibile finalità di rieducazione sottostante all’esecuzione della pena detentiva: solo una valutazione individuale del giudice che rintracci concrete esigenze di prevenzione speciale – e dunque accerti l’effettiva pericolosità sociale del detenuto – potrebbe pertanto giustificare la non applicazione dei benefici penitenziari in favore di un condannato, una volta che siano decorsi i termini considerati adeguati, in linea generale, dalla legge[5]. Tale conclusione appare a maggior ragione obbligata, secondo la Consulta, avuto riguardo ai recenti approdi interpretativi della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha fortemente valorizzato il principio di risocializzazione del condannato (pur non sancito espressamente dalla Cedu) ancorandolo al necessario rispetto della dignità dell’essere umano, valore cui è orientato l’intero sistema convenzionale e che si estrinseca, con riferimento all’ambito detentivo, nel divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 Cedu; in particolare, in diverse pronunce i giudici di Strasburgo hanno espressamente dichiarato l’obbligo in capo agli Stati di preservare anche in favore degli ergastolani la speranza di un futuro reinserimento nella società, una volta scontata una parte della propria pena, garantendo anche a loro la possibilità di ottenere la propria liberazione attraverso la partecipazione all’opera rieducativa[6].
4. Coerentemente con il percorso argomentativo sviluppato nella pronuncia appena richiamata, la Corte costituzionale riconosce ora che anche la soglia fissa dei due terzi della pena detentiva temporanea irrogata quale condizione per l’accesso ai benefici penitenziari ai sensi dell’art. 58-quater c. 4 ord. pen. «opera in senso distonico rispetto all’obiettivo, costituzionalmente imposto, di consentire alla magistratura di sorveglianza di verificare gradualmente e prudentemente, anzitutto attraverso la concessione di permessi premio e l’autorizzazione al lavoro all’esterno, l’effettivo percorso rieducativo compiuto dal soggetto, prima di ammetterlo in una fase successiva dell’esecuzione – sulla base anche dell’esito positivo di quelle prime sperimentazioni – alla semilibertà e poi alla liberazione condizionale»[7]. Ne consegue, pertanto, l’illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3 e 27 c. 3 della Costituzione, per le medesime ragioni già sviluppate nella sentenza n. 149 del 2018.
Per la Consulta è inoltre evidente l’esistenza di un contrasto con l’art. 3 Cost. imputabile all’irragionevole disparità di trattamento venutasi a creare tra condannati all’ergastolo e alla pena della reclusione, per il medesimo titolo di reato, proprio in conseguenza della precedente pronuncia di illegittimità costituzionale; disparità che, del resto, la stessa Corte aveva in quella sede già messo in evidenza – pur senza poter risolvere il problema in virtù del principio processuale di “corrispondenza tra chiesto e pronunciato” – sollecitando (senza successo) l’attenzione del legislatore sul punto.
Essendo la questione emersa con riferimento alla situazione di un soggetto detenuto per il delitto di cui all’art. 630 c.p., la Corte ha provveduto a estendere la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater c. 4 ord. pen. anche nella parte in cui concerne il delitto di cui all’art. 289-bis c.p., come precedentemente era avvenuto anche nella sentenza n. 149 del 2018.
5. Per effetto delle due pronunce di legittimità costituzionale qui prese in considerazione, l’art. 58-quater c. 4 ord. pen. è ormai da ritenersi integralmente inefficace: tanto gli ergastolani, quanto gli altri detenuti condannati per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 c.p. aggravati dalla morte del sequestrato potranno godere dei benefici penitenziari in base alla sola disciplina di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen., al pari, dunque, di tutti gli altri condannati per reati c.d. ostativi. Disciplina che, peraltro, non potrà non subire radicali modifiche a seguito della recentissima decisione della Consulta, emessa lo scorso 23 ottobre e ancora in corso di pubblicazione, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dello stesso articolo 4-bis c. 1 ord. pen., nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia anche qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere tanto l’attualità della partecipazione all’associazione criminale, quanto in generale il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, e sempre che il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo[8].
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6. Con la pronuncia in esame, si è già detto, la Corte costituzionale completa l’opera intrapresa con la sentenza n. 149 del 2018, sancendo l’integrale illegittimità costituzionale del regime speciale previsto dall’art. 58-quater c. 4 ord. pen. in relazione ai condannati per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione, di terrorismo o di eversione che abbiano cagionato la morte del sequestrato: regime che si configurava come un vero e proprio “doppio binario nel doppio binario”, aggiungendosi alla già gravosa disciplina di cui all’art. 4-bis ord. pen.
Lasceremo ad altra sede il compito di un più approfondito commento delle diverse decisioni qui richiamate; ci sembra tuttavia opportuno mettere fin d’ora in luce il particolare ruolo che la sentenza n. 149 del 2018 – i cui arresti sono interamente confermati dalla pronuncia qui in esame – ha svolto nel conferire nuova linfa al principio di rieducazione del condannato sancito dall’art. 27 c. 3 Cost. La pronuncia in questione ha infatti fornito alla Consulta l’occasione per ribadire l’assoluta «non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»[9], oltre che per consacrare i principi di progressività trattamentale e flessibilità della pena quali diretti corollari dello stesso principio di rieducazione (parimenti non sacrificabili, dunque). In questo modo, come si è già sottolineato in dottrina[10], la Corte ha espressamente riconosciuto l’esistenza, sul piano positivo, di un obbligo costituzionalmente imposto al legislatore ordinario di prevedere istituti funzionali a garantire l’attuazione di tali principi, favorendo l’adesione del condannato a pena detentiva – tanto temporanea, quanto perpetua – al percorso rieducativo offertogli e permettendogli di mettersi alla prova attraverso un progressivo ritorno alla società, al fine di ancorare (almeno in parte) la durata della pena concretamente espiata in condizioni di reclusione agli effettivi risultati del percorso trattamentale.
Coerentemente, immediata conseguenza dei richiamati vincoli discendenti dall’art. 27 c. 3 Cost. è altresì il superamento di automatismi volti a precludere l’accesso ai benefici penitenziari o alla liberazione condizionale in ragione di presunzioni di pericolosità sociale del condannato legate al mero titolo di reato per cui la pena è stata inflitta; una volta maturati i requisiti previsti dalla legge in linea generale e astratta per l’accesso ai suddetti benefici, cioè, il detenuto ha il diritto di ottenere una valutazione individuale da parte del giudice (ossia della magistratura di sorveglianza) della propria situazione personale, volta a vagliare gli effettivi risultati del percorso rieducativo, da un lato, e a valutare in concreto la persistente pericolosità del condannato, dall’altro.
7. Tale conclusione, già raggiunta dalla Corte costituzionale n. 149 del 2018 e ribadita dalla pronuncia qui in commento, pare verosimilmente alla base anche della più recente decisione – come già si è detto, ancora in attesa di pubblicazione – concernente direttamente l’art. 4-bis ord. pen., la quale apre la strada alla concessione di permessi premio nei confronti di soggetti detenuti per reati ostativi (ergastolani e non) che, pur non avendo collaborato con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ord. pen., né trovandosi in condizioni di collaborazione “impossibile” o “irrilevante”, abbiano comunque preso le distanze dalla realtà criminale di appartenenza, non siano socialmente pericolosi e abbiano positivamente intrapreso un percorso trattamentale. Di segno simile, peraltro, è anche la conclusione fatta propria dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Viola c. Italia, con la quale i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto – pochi mesi prima che la Corte costituzionale fosse chiamata a valutare la legittimità dell’art. 4-bis ord. pen. – che il c.d. ergastolo ostativo è contrario al divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 Cedu, non potendosi imporre al condannato a pena perpetua la collaborazione con la giustizia quale unica via per conservare una “speranza di liberazione”[11].
Ci sembra possibile, pertanto, rintracciare una consistente linea di continuità non solo tra le più recenti posizioni espresse in materia di esecuzione della pena dalla nostra Corte costituzionale, ma altresì tra queste e quelle della Corte di Strasburgo; la stessa sentenza Viola c. Italia, del resto, nel negare la legittimità di una presunzione assoluta di pericolosità del condannato legata al solo reato da questi a suo tempo commesso (anche qualora si tratti di reato di eccezionale allarme sociale[12]), non ha mancato di valorizzare, seppure ad abundantiam, la stessa sentenza n. 149 del 2018, che ha ritenuto espressiva a livello nazionale di una più «recente tendenza a rimettere in discussione la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale» volta a precludere a taluni soggetti la piena esplicazione del trattamento penitenziario[13].
[1] Si osserva che la Consulta ha preliminarmente valutato la questione della compatibilità della norma oggetto di censure con il principio di rieducazione del condannato, considerando poi assorbita l’ulteriore questione ex art. 3 Cost. concernente la disparità di trattamento tra i condannati per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 c.p. e gli altri delitti contemplati dall’art. 4-bis ord. pen.
[2] Cfr. in particolare Corte cost., sentenza 21 giugno 2018 (dep. 11 luglio 2018), n. 149, § 5; per un primo commento della pronuncia in questione può rimandarsi a E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., 18 luglio 2018.
[3] Come conseguenza dell’assenza di gradualità e progressività nella concessione dei benefici penitenziari, la Corte costituzionale evidenziava peraltro il rischio che la concessione della semilibertà, pur all’esito dei ventisei anni di pena effettivamente eseguita, potesse comunque essere in concreto negata al condannato proprio in ragione dell’assenza di previe positive esperienze extramurarie negli anni precedenti.
[4] Si ricorda che proprio l’originaria impossibilità per il condannato all’ergastolo di avvalersi dell’istituto della liberazione anticipata fu oggetto di censura di legittimità costituzionale da parte di Corte cost., sentenza del 21 settembre 1983, n. 274, nella quale la Consulta aveva riconosciuto (§4) che «la possibilità di acquisire una riduzione della pena incentiva e stimola nello stesso soggetto la sua attiva collaborazione all'“opera di rieducazione”. Così, nel premiare il comportamento del condannato, che è invogliato a partecipare all'opera della sua rieducazione e ad assecondarla rendendola meno difficile e più efficace, la riduzione della pena si raccorda sul piano teleologico con il presupposto della liberazione condizionale, e cioè con il risultato della rieducazione medesima, sollecitando e corroborando il ravvedimento del condannato ed il conseguente suo reinserimento nel corpo sociale».
[5] Di conseguenza, la Corte cost. 149 del 2018 affermava perentoriamente che «Incompatibili con il vigente assetto costituzionale sono invece previsioni (…) che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati – i quali pure abbiano partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione, e rispetto ai quali non sussistano gli indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso legislatore nell’art. 4-bis ordin. penit. – in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati».
[6] Possono citarsi, in particolare, Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza del 9 luglio 2013, Vinter e a. c. Regno Unito; Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza del 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi; Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza del 17 gennaio 2017, Hutchinson c. Regno Unito. Su questa scia, la recentissima Corte eur. dir. uomo, sentenza del 13 giugno 2019, Viola c. Italia, da poco divenuta definitiva a seguito del rigetto del referral alla Grande Camera richiesto dal Governo italiano, ha riconosciuto che anche la disciplina dell’ergastolo c.d. ostativo ai sensi dell’art. 4-bis ord. pen. viola l’art. 3 Cedu, ritenendo che la possibilità per il condannato di accedere ai benefici e alla liberazione condizionale mediante collaborazione (salvo i casi di collaborazione impossibile o irrilevante) non sia sufficiente ad assicurare a quest’ultimo una concreta ed effettiva prospettiva di liberazione, non potendosi automaticamente equiparare la mancata collaborazione al perdurare di collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata e pertanto della sua pericolosità sociale. Per un commento a tale pronuncia può rimandarsi a S. Santini, Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo”: dalla Corte di Strasburgo un monito al rispetto della dignità umana, in Dir pen. cont., 1 luglio 2019.
[7] Così § 4.1. della sentenza in commento.
[8] Per un commento dell’ordinanza con cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale si può rimandare a M.C. Ubiali, Ergastolo ostativo e preclusione all’accesso ai permessi premio: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., in Dir. pen. cont., 28 gennaio 2019.
[9] Corte cost., sentenza 21 giugno 2018 (dep. 11 luglio 2018), n. 149, §7. Il c.d. primato della funzione rieducativa è stato dalla Consulta affermato, invero, fin da Corte cost., sentenza del 26 giugno 1990 (dep. 2 luglio 1990), n. 313, con cui, superando la visione polifunzionale della pena, il principio di cui all’art. 27 c. 3 Cost. è stato elevato a principio cardine dell’ordinamento, vincolante tanto in sede di esecuzione della pena, quanto in sede di cognizione.
[10] In particolare, il riferimento è a E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), cit.
[11] Sulle argomentazioni a tal fine utilizzate dalla Corte europea cfr. S. Santini, Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo”, cit.
[12] Così chiaramente Corte eur. dir. uomo, sentenza del 13 giugno 2019, Viola c. Italia, § 130: «Certo, la Corte riconosce che i reati per i quali il ricorrente è stato condannato riguardano un fenomeno particolarmente pericoloso per la società. Rileva, inoltre, che l’introduzione dell’articolo 4 bis è il risultato della riforma del regime penitenziario del 1992, avvenuta in un contesto di emergenza in cui il legislatore è dovuto intervenire, dopo un episodio estremamente significativo per l’Italia, in una situazione particolarmente critica. Tuttavia, la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti. Pertanto, la natura dei reati addebitati al ricorrente è priva di pertinenza ai fini dell’esame del presente ricorso dal punto di vista del suddetto articolo 3». In senso simile, Corte cost. n. 149 del 2018, § 7, ove si specifica che la finalità rieducativa della pena «deve essere sempre garantita anche nei confronti di autori di delitti gravissimi, condannati alla massima pena prevista nel nostro ordinamento, l’ergastolo».
[13] Cfr. Corte eur. dir. uomo, sentenza del 13 giugno 2019, Viola c. Italia, 132.