Corte cost., ord. 23 settembre 2020 (dep. 20 ottobre 2020), n. 219, Pres. Morelli, Rel. Zanon
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Diamo notizia d’una ordinanza della Corte costituzionale a proposito dell’art. 731 c.p., norma contravvenzionale che punisce con la pena dell’ammenda, sotto la rubrica denominata «Inosservanza dell'obbligo dell'istruzione elementare dei minori», chiunque, rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore, «omette, senza giusto motivo, d'impartirgli o di fargli impartire l'istruzione elementare».
Il provvedimento presenta qualche interesse, per un verso, poiché il giudice a quo ha posto in luce un profilo di effettiva anomalia della disciplina concernente l’osservanza dei doveri (genitoriali e non) di procurare ai ragazzi un adeguato livello di istruzione (in genere attraverso la frequenza scolastica). Per altro verso, l’ordinanza descrive in modo sintetico ed efficace il punto in cui oggi si assesta il sindacato costituzionale di norme punitive, quando risulti in malam partem il verso della correzione richiesta dal rimettente. Nel caso di specie, infatti, era stato sostanzialmente chiesto alla Consulta di estendere la responsabilità penale per omissione a tutti i casi di istruzione obbligatoria, ben oltre il primo ciclo quinquennale oggi garantito dalla scuola elementare.
1. Una disciplina (forse) evoluta casualmente
Quando il codice penale è entrato in vigore, la disputa che sarebbe poi insorta sulla natura e sulla portata della norma censurata avrebbe avuto poca rilevanza pratica. Sia che l’obiettivo del legislatore fosse quello di approntare un presidio penale solo per il primo ciclo di istruzione (si ricordi che l’aggettivo “elementare” ricorre sia nella rubrica che nel testo della norma), sia che l’obiettivo fosse quello di garantire in via generale l’obbligo di istruzione posto dalla disciplina extra-penale della materia, le conseguenze pratiche sarebbero state indifferenti, poiché, all’epoca, solo l’istruzione elementare era obbligatoria (in base al regio decreto n. 577 del 1928).
La Costituzione repubblicana era poi intervenuta a stabilire, con norma inizialmente qualificata come programmatica, che l’istruzione inferiore, obbligatoria e gratuita, abbia una durata pari almeno ad otto anni (secondo comma dell’art. 34 Cost.).
Erano stati necessari quasi quindici anni affinché il legislatore regolasse organicamente i servizi della scuola media inferiore (ciclo triennale aggiunto a quello primario quinquennale), disponendo altresì in merito all’obbligatorietà della relativa istruzione (artt. 1 e 8 della legge 31 dicembre 1962, n. 1859). Per quanto qui più interessa, era stato assicurato anche il presidio penalistico del nuovo dovere imposto agli esercenti la potestà su un minore. Non era stata però creata una nuova fattispecie, né era stata modificata quella codicistica, essendosi invece preferita l’introduzione di una norma estensiva del seguente tenore: «si applicano le sanzioni previste dalle vigenti disposizioni per gli inadempimenti all'obbligo dell'istruzione elementare» (art. 8, comma 2, della citata legge n. 1859 del 1962).
Insomma, obbligo di istruzione e sanzione penale per l’inadempimento si tenevano ancora insieme, ma seguendo ormai vie separate. In particolare, la giurisprudenza aveva stabilito che l’art. 8 riguardasse anche la sanzione penale (tra le prime, Cass., Sez. VI pen., Sentenza n. 9710 del 1976), ed al tempo stesso aveva posto in luce come la nuova norma fosse essenziale per la garanzia penale dell’intero nuovo regime (in ciò contraddicendo quella parte della dottrina che, francamente forzandone la lettera, attribuiva all’art. 731 c.p. la qualifica di norma in bianco, capace di incriminare l’inadempimento di qualunque obbligo scolastico posto dalla disciplina extra-penale).
Negli anni successivi i binari della tutela si sono poi definitivamente allontanati. Con la legge n. 53 del 2003 era stato attribuito a tutti il diritto all'istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età: in sostanza l’obbligo di istruzione era stato esteso ad una porzione significativa della scuola media superiore. La stessa legge delega aveva stabilito che la «fruizione dell'offerta di istruzione e formazione costituisce un dovere legislativamente sanzionato» e che la «attuazione graduale del diritto-dovere predetto è rimessa ai decreti legislativi di cui all'articolo 1, commi 1 e 2» della stessa legge.
Il conseguente d.lgs. n. 59 del 2004 aveva solo fatto salvo il preesistente apparato sanzionatorio per i cicli scolastici pertinenti ai primi otto anni, tanto che, secondo la giurisprudenza, non si è mai data una tutela penale per l’obbligo di frequenza concernente la scuola media superiore (da ultimo, in conformità ai precedenti, Cass., Sez. II pen., Sentenza n. 22037 del 2010): ecco dunque un primo scollamento tra piani di tutela del diritto all’istruzione; ed ecco perché lo scollamento si era mantenuto pur dopo un nuovo rinvio alle sanzioni previgenti contenuto nel secondo decreto delegato sull’istruzione (d.lgs. n. 76 del 2005, ultimo comma dell’art. 5), il quale pure aveva elevato l’obbligo fino a dodici anni (comma 3 dell’art. 1).
Nessuna novità era intervenuta, infine, da una successiva ed ulteriore ridefinizione extra-penale della materia: «l'istruzione impartita per almeno dieci anni è obbligatoria ed è finalizzata a consentire il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età» (art. 1, comma 622, della legge n. 296 del 2006).
Nel giro di qualche anno, tuttavia, si è determinato un ulteriore scollamento tra portata dell’obbligo di istruzione e suo presidio penale, cioè la situazione propriamente denunciata dal giudice a quo. Fu avviato verso la metà dello scorso decennio un vasto disegno di “semplificazione” della legislazione, mirato tra l’altro alla eliminazione di norme ritenute ormai obsolete. Per quanto qui specificamente interessa, con il comma 14-quater dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005, era stata conferita delega al Governo affinché, entro un dato termine, fossero adottate disposizioni di abrogazione espressa per norme oggetto di abrogazione tacita o implicita, o che avessero esaurito la loro funzione o fossero prive di effettivo contenuto normativo o fossero comunque obsolete. Questa specifica delega era stata esercitata mediante il d.lgs. n. 212 del 2010, che – in sintesi – aveva coinvolto quasi tutte le previsioni della legge n. 1859, compresa la norma estensiva delle responsabilità penale oltre la soglia della istruzione elementare (art. 8).
Poco importa stabilire se, nella specie, il Governo avesse abusato della delega, e cioè se davvero l’art. 8 potesse dirsi all’epoca obsoleto, implicitamente abrogato o privato del suo “contenuto normativo”. Il fatto è che giustamente, nel pieno rispetto del principio di tassatività e del divieto di analogia in malam partem, la giurisprudenza si è ben presto stabilizzata nell’affermare che l’intervento legislativo ha implicato una depenalizzazione dell’inadempimento dell’obbligo di procurare una istruzione corrispondente ai livelli assicurati dalla scuola media inferiore, persistendo l’incriminazione solo per l’istruzione elementare, a norma dell’art. 731 c.p. (da ultimo, Cass., sez. III, Sentenza n. 52140 del 2018).
2. Uno squilibrio di tutela asseritamente incompatibile con la Costituzione
La questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice di pace di Taranto ha preso le mosse proprio dal divario tra la portata dell’obbligo di procurare istruzione e la garanzia penale assicurata dalla legge, limitata solo alla prima e parziale porzione del percorso formativo dovuto ai minori.
Secondo il rimettente, tale divario comporterebbe una violazione del principio di uguaglianza, trattando diversamente, senza giustificato motivo, tra i responsabili di ragazzi chiamati all’istruzione obbligatoria, i casi concernenti l’istruzione elementare e quelli relativi all’istruzione secondaria (art. 3 Cost.). Poiché d’altronde l’istruzione e l’educazione dei figli è doverosa per i genitori (art. 30, primo comma, Cost.), l’assenza del presidio penale a garanzia dell’adempimento dell’obbligo comporterebbe una violazione del corrispondente parametro costituzionale. Ed un analogo ragionamento, mutatis mutandis, è stato sommariamente tracciato riguardo alla previsione costituzionale già citata (art. 34, secondo comma, Cost), che definisce obbligatoria l’istruzione almeno nella misura corrispondente al ciclo attualmente rappresentato dalla scuola media inferiore.
In verità, se solo fosse stato possibile per la Consulta entrare nel merito della questione, vi sarebbe stato spazio per complesse riflessioni. È vero ad esempio che l’arretramento della soglia penalistica della tutela non sembra trovare una giustificazione ragionevole, specie considerando che l’evoluzione della società e dell’economia spinge semmai per una implementazione dei livelli generali di istruzione, e che buona parte di essi, oltre che obbligatori, sono anche gratuiti. È vero anche, e d’altra parte, che, se ogni condotta obbligatoria deve tendenzialmente essere assicurata da conseguenze sanzionatorie per il caso di inadempimento, non è detto affatto che tali conseguenze debbano avere natura penale, e che nell’ambito stesso delle prestazioni richieste da una determinata previsione normativa è frequente il ricorso a differenti misure punitive, ad esempio in ragione del diverso livello della lesione recata all’interesse presidiato (lesione certamente più grave, per tornare al caso di specie, quando manchi addirittura la più elementare fase di formazione del bambino).
Il fatto è, comunque, che l’ordinanza di rimessione presentava vizi genetici tali da rendere impraticabile il passaggio al merito della questione. Inutile per altro indugiare, in questa sede, sulla mancata descrizione della fattispecie concreta (non si è appreso neppure quale ciclo di studi non era stato assicurato dagli imputati nel giudizio a quo), o sulla confusione di concetti che segna alcuni passaggi del provvedimento. Inutile anche discutere se fosse esatta l’individuazione della norma “responsabile” del vulnus prospettato (ponendosi ad esempio in alternativa una censura della norma di depenalizzazione).
Il rimettente infatti è incorso, senza neppure dar cenno d’averlo compreso, in una classica ragione di cd. inammissibilità sostanziale della questione di legittimità costituzionale. Data la ratio fondamentale delle sue critiche, egli non poteva che risolvere l’asserito problema di uguaglianza estendendo la responsabilità penale con riguardo all’istruzione secondaria, e non certo eliminandola per l’istruzione elementare. Ma per questo verso ha finito col sollecitare, inammissibilmente, una sentenza additiva in malam partem.
3. Il divieto di sentenze additive in malam partem ed i suoi limiti
Proprio questo è il vizio più valorizzato, per quanto brevemente, nell’ordinanza della Corte costituzionale.
È certo vero che la recente evoluzione della giurisprudenza, dichiaratamente mirata a ridurre la portata delle cd. zone franche nell’ambito del sindacato di legittimità, ha individuato e progressivamente focalizzato deroghe al divieto per la Consulta di aggravare gli spazi di responsabilità penale, tradizionalmente ricavato dalla riserva formale di legge posta al secondo comma dell’art. 25 Cost. Anzi, la lettura di un passaggio dell’ordinanza è occasione per un breve ma efficace “ripasso” circa i recenti approdi sul tema. Al caso delle cd. norme penali di favore (trattato sistematicamente nella celebre sentenza n. 394 del 2006), si è aggiunto quello della illegittimità del processo formativo della legge con effetti favorevoli (ad esempio per eccesso di delega da parte del Governo, o per essere la legge medesima di produzione regionale), e poi quello del contrasto con puntuali obblighi sovranazionali assunti dal nostro Paese. Sul punto, ovviamente, l’odierna ordinanza ha potuto far riferimento a provvedimenti recenti di compiuta analisi del fenomeno (si vedano in particolare le sentenze n. 155 e 37 del 2019, n. 236 e 143 del 2018, nonché l’ordinanza n. 282 del 2019).
Il fatto è comunque (ed a prescindere dalla completa assenza di motivazione sul punto) che nella specie non ricorreva alcuna ragione giustificatrice del controllo in malam partem, neppure quella (molto) indirettamente desumibile dalle prospettazioni del rimettente: la norma censurata non sottrae affatto gli obblighi concernenti l’istruzione secondaria da una più generale disciplina sanzionatoria compresente nell’ordinamento, e capace di riespandere il proprio ambito di applicazione grazie all’eliminazione della norma speciale; è la stessa norma censurata, anzi, ad introdurre una sanzione penale solo per casi particolari (concernenti l’istruzione elementare).
Ciò che rende manifestamente inammissibile la questione, appunto, prima ancora che debba discutersi degli spazi di valutazione discrezionale spettanti al legislatore nella disciplina della materia, e dei conseguenti riflessi, anche per questo verso, sull’ammissibilità del sindacato incidentale.