Corte cost., 6 luglio 2020, n. 136, Pres. Cartabia, Rel. Amoroso
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Diamo sintetica notizia, in attesa di eventuale commento critico, d’una sentenza della Corte costituzionale che ha definito nel senso dell’inammissibilità una questione sollevata riguardo all’art. 625, primo comma, c.p., ed in particolare con riferimento al valore minimo della pena pecuniaria irrogabile per il delitto di furto monoaggravato.
Tale valore, attualmente fissato in 927 euro, appariva al giudice rimettente «irragionevolmente eccessivo e sproporzionato in riferimento all’art. 625, co. 2, c.p.», che in effetti determina la soglia minima della pena, per il caso di furto pluriaggravato, indicando un importo molto inferiore, pari ad appena 206 euro.
In sostanza, il rimettente ha posto in evidenza un rapporto di proporzionalità inversa tra la gravità del fatto (che appare minore quando ricorre una sola delle fattispecie aggravanti previste nello stesso art. 625 c.p.) e l’entità minima della sanzione pecuniaria irrogabile (che invece supera il quadruplo di quella prevista quando sono integrate due o più delle figure aggravanti delineate nella norma).
Le questioni erano state sollevate per l’asserita violazione degli artt. 3 e 27 della Costituzione.
1. Le norme censurate.
L’ordinanza di rimessione ha posto in comparazione tra loro i due commi dell’art. 625 c.p., norma deputata, fin dall’introduzione del codice penale (e, quindi, da novant’anni), a delineare le aggravanti specifiche del delitto di furto.
L’elenco del primo comma, ancora lungo nonostante la migrazione verso l’art. 624-bis c.p. (e dunque verso lo status di fattispecie autonome) di quasi tutte le figure già incluse nei numeri 1) e 2), comprende una serie di situazioni che modificano in senso peggiorativo, nella valutazione del legislatore, la “semplice” azione furtiva. Lo stesso elenco vale per il caso regolato dal secondo comma, ove semplicemente è stabilita la pena da irrogare quando ricorrono due o più dei fattori aggravanti indicati nel comma precedente.
Come già si è visto, nel testo vigente l’art. 625 c.p. rovescia il rapporto tra moltiplicazione delle aggravanti e valore edittale della pena pecuniaria, sebbene – su questo dovrà tornarsi – lo stesso non accada quanto alla pena detentiva, più elevata quando i fattori circostanziali siano due o più (il minimo del primo comma, pari a due anni di reclusione, sale a tre, mentre il massimo, fissato per il furto monoaggravato a sei anni, sale a dieci anni quando concorrano due circostanze o più).
Non era così fino a quando è intervenuta la cosiddetta legge Orlando (23 giugno 2017, n. 103), posto che – nella versione introdotta dalla legge n. 689 del 1981 e dalle modifiche intermedie – la multa indicata al primo comma dell’art. 625 c.p. era stata compresa tra un minimo di 103 euro ad un massimo di 1032, mentre l’analoga sanzione, nel caso regolato dal secondo comma, variava da un minimo di 206 euro ad un massimo di 1549. Se si considera che anche la pena detentiva seguiva la stessa progressione (da uno a sei anni per il primo comma, e da tre a dieci anni per il secondo), si comprende il riferimento del rimettente (e della stessa Consulta) ad una pregressa simmetria del trattamento sanzionatorio riservato al furto aggravato.
Si deve insomma alla legge n. 103 del 2017 l’anomalia denunciata dal Tribunale di Siracusa. Nel contesto di una più ampia e generalizzata manovra di inasprimento delle pene previste per i reati contro il patrimonio, il legislatore ha elevato i minimi del primo comma dell’art. 625 c.p., portando quello concernente la multa a 927 euro e quello concernente la reclusione a due anni. Nessun intervento è stato invece operato riguardo al secondo comma, che dunque è rimasto segnato dalla pena minima della multa per 206 euro (passata così dal 200 al 25 per cento circa di quella comparata).
V’è da dire, a parziale giustificazione della novella, che si trattava di equiparare la pena pecuniaria del furto monoaggravato a quella della forma non circostanziata di furto “grave” (cioè quello con strappo o commesso in abitazione), ormai elevato a fattispecie autonoma nell’art. 624-bis c.p., ma pur sempre proveniente dalla stessa matrice. Non c’è dubbio comunque che la tecnica normativa sia risultata “difettosa” (così testualmente la Consulta), e va anche registrato, a meri fini di completezza, che neppure la legge 26 aprile 2019, n. 36, pure destinata a nuovi interventi sul quadro sanzionatorio, è stata utilizzata per rimediare all’incongruenza determinatasi nell’economia dell’art. 625 c.p.
2. I parametri costituzionali e le censure.
Muovendo dall’analisi del dato normativo, il Tribunale di Siracusa ha prospettato, come già si è detto, l’illegittimità del primo comma dell’art. 625 c.p., per l’asserito contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione.
Non sarebbe infatti ragionevole che, per un reato meno grave, sia previsto un trattamento sanzionatorio più severo di quello previsto per un reato oggettivamente più grave, sebbene si discuta solo della specie pecuniaria della pena da infliggere. Nel contempo, la previsione di una pena sproporzionata per eccesso varrebbe ad ostacolare la funzione rieducativa della pena stessa, secondo uno schema di ragionamento ormai molte volte sperimentato dalla giurisprudenza costituzionale (una percezione di “ingiustizia” della pena inflitta non facilita la risocializzazione del condannato).
Per restituire la disciplina ad una connotazione di ragionevolezza e proporzionalità, secondo il rimettente, sarebbe stata necessaria e sufficiente l’elisione delle modifiche introdotte all’art. 625 c.p. dalla legge n. 103 del 2017: la pena pecuniaria minima del primo comma sarebbe così ritornata ad un valore inferiore (cioè pari alla metà) rispetto a quella stabilita per il furto pluriaggravato, recuperando una proporzione diretta tra gravità del fatto e relativo sanzionamento, e riproducendo una relazione comparabile a quella, mai venuta meno, tra le previsioni edittali concernenti la reclusione.
La tecnica d’un “recupero” della pregressa valutazione legislativa in merito ai valori di pena sarebbe valsa anche, secondo il rimettente, ad evitare che la Corte costituzionale sovrapponesse un proprio giudizio discrezionale a quello che tipicamente spetta al legislatore.
3. La risposta della Corte.
Come riferito in apertura, la Corte ha optato per una dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate, seguendo un percorso relativamente complesso, che ha lambito tanto argomenti concernenti l’ammissibilità del sindacato di proporzionalità in una materia caratterizzata dalla più ampia discrezionalità politica, tanto rilievi pertinenti, anche sul piano del merito, alla comparazione che deve essere istituita quando si pone un problema di legittimità del trattamento punitivo differenziale riservato ad una determinata fattispecie criminosa. Alla fine, e però, la chiave decisiva per l’approdo alla dichiarazione di inammissibilità si è risolta in un “tradizionale” rimprovero di insufficienza della motivazione riguardo alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate.
Nella prospettiva dell’ammissibilità, può dirsi in sintesi che la Corte non ha trascurato di considerare la lenta ma decisa evoluzione della propria giurisprudenza, da una base che considerava preclusa ogni opzione sul trattamento punitivo, o almeno ogni opzione che prescindesse dalla individuazione di una “grandezza” prescelta dal legislatore per un caso analogo, verso esiti di ammissibilità del sindacato sulla ragionevolezza “intrinseca” della previsione sanzionatoria, anche al di fuori dell’ordinario ragionamento triadico. In esito all’analisi, si legge comunque una riaffermazione dell’ampia discrezionalità che, fuori dai casi di manifesta irragionevolezza, deve essere riconosciuta al legislatore nella materia in discussione: «ed è nel quadro di tale discrezionalità che deve essere considerata la complessiva cornice edittale […] in ordine al delitto di furto aggravato di cui all’art. 625 cod. pen. e segnatamente l’asimmetria denunciata dal giudice rimettente».
Il rilievo prelude a considerazioni sul fondamento della comparazione proposta dal rimettente. Il sindacato sul trattamento punitivo, pur senza negare un’autonoma valutazione di ciascuna delle pene previste dal legislatore (sul punto sono richiamate le sentenze n. 15 del 2020, n. 233 del 2018 e n. 142 del 2017), deve essere condotto tenendo conto del complesso delle misure approntate riguardo ad una determinata condotta criminosa. In particolare, «non è irrilevante il trattamento sanzionatorio complessivo quando la pena pecuniaria concorre congiuntamente con quella detentiva e non è invece a quest’ultima alternativa» (sono citate le sentenze n. 233 del 2018 e n. 142 del 2017, nonché le ordinanze n. 91 del 2008 e n. 475 del 2002).
Insomma, e per tornare al caso di specie, la concorrenza di pene detentive con quelle pecuniarie in rapporto di “proporzionalità inversa” – pene detentive poste tra l’altro in una corretta sequenza di aggravamento a seconda che ricorrano una o più circostanze specifiche del furto – può consentire, secondo la Corte, la determinazione di un trattamento complessivamente equilibrato (in altre parole, sembra di capire, attraverso un orientamento al ribasso nella determinazione della pena detentiva riguardo al furto monoaggravato). Ciò comunque nell’attesa di un intervento correttivo del legislatore, che la Corte espressamente invoca, sia pure a titolo di perfezionamento della tecnica normativa e non quale rimedio per una disciplina manifestamente irragionevole.
Una sentenza, come si vede, non lontana dai grandi temi dell’ammissibilità e del merito, per quanto risolta, come anticipato, attraverso il rimprovero di una considerazione non abbastanza approfondita del tema da parte del rimettente, specie in rapporto alla previsione di pene concorrenti con quella posta ad oggetto delle questioni sollevate.