Corte cost., sent. 23 settembre 2021, n. 185, Pres. Coraggio, Red. Modugno
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1. Con la sentenza n. 185 del 2021, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la sanzione amministrativa fissa di 50.000 euro prevista dall’art. 7, comma 6, secondo periodo, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi, conv. in l. 8 novembre 2012, n. 189) a carico dei concessionari del gioco e dei titolari di sale giochi e scommesse, per la violazione degli obblighi di avvertimento sui rischi di dipendenza dal gioco d’azzardo previsti dal comma 5 della medesima disposizione.
Benché non afferente al diritto penale in senso stretto, la sentenza presenta notevoli profili d’interesse per il penalista, per le affermazioni innovative ivi svolte su contenuto e modalità del sindacato costituzionale di proporzionalità, che pongono un nuovo tassello nell’ormai articolato mosaico degli interventi della Corte sul trattamento sanzionatorio.
2. Solo poche battute sulla fattispecie oggetto del giudizio di costituzionalità. L’art. 7, comma 5, d.l. n. 158 del 2012, al fine di contrastare l’allarmante fenomeno della ludopatia, ha introdotto in capo ai concessionari del gioco e ai titolari delle sale un’articolata serie di obblighi di informazione (apposizione di formule di avvertimento sul rischio di dipendenza sulle schedine o tagliandi dei giochi e sugli apparecchi da gioco, nonché su apposite targhe esposte nelle aree o sale di gioco e nei punti di vendita in cui si esercita come attività principale l’offerta di scommesse su eventi sportivi e non; presenza di dette formule anche sui siti internet destinati all’offerta di giochi con vincite in denaro; esposizione nelle sale da gioco ed esercizi in cui vi sia offerta di giochi pubblici o scommesse, di materiale informativo sul rischio di ludopatia, predisposto dalle aziende sanitarie locali). L’inosservanza di tali obblighi informativi è, come si premetteva, punita con la sanzione amministrativa di 50.000 euro, in forza del comma 6, secondo periodo, dell’art. 7 d.l. n. 158 del 2012.
Proprio quest’ultima disposizione è stata censurata dal Tribunale di Trapani, investito dell’opposizione a un’ordinanza-ingiunzione emessa dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli nei confronti del titolare di un bar che non aveva esposto in sala l’apposita targa di avvertimento sui rischi di dipendenza dal gioco d’azzardo, pur avendo applicato le formule di avvertimento all’unico apparecchio da gioco presente e avendo posto a disposizione materiale informativo sul rischio di dipendenza.
Secondo il rimettente, l’art. 7, comma 6, secondo periodo, d.l. n. 158 del 2012 risultava lesivo dell’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo dell’impossibilità di graduare la risposta sanzionatoria in rapporto al concreto disvalore delle singole violazioni, e della sproporzione rispetto al trattamento sanzionatorio contemplato per altre fattispecie di non minore gravità, tra cui la sanzione da 5000 a 20.000 euro prevista dall’art. 24, comma 21, del d.-l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in l. 15 luglio 2011, n. 111, per chi consente la partecipazione ai giochi pubblici ai minorenni.
Il giudice a quo aveva anche prospettato la violazione dell’art. 3 Cost. in combinato disposto con gli artt. 41 e 42 Cost., nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e agli artt. 16 e 17 CDFUE, denunciando come la sanzione ex art. 7, comma 6, secondo periodo, in ragione del rilevante importo, fosse suscettibile di incidere irragionevolmente sia sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito sia sul suo diritto di esercitare liberamente un’attività di impresa, essendo in grado di provocare una «irreversibile crisi aziendale», almeno quando l’esercizio commerciale coinvolto fosse di modeste dimensioni, come nel caso oggetto del giudizio a quo.
3. La Corte costituzionale ha accolto le questioni sollevate in riferimento all’art. 3, in combinato disposto con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, dichiarando assorbita la questione relativa all’art. 42 Cost.[1].
I giudici hanno preso le mosse dalla giurisprudenza costituzionale in materia di sanzioni penali, che considera le pene fisse tendenzialmente contrarie ai principi di eguaglianza e individualizzazione della pena, giudicandole legittime solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (v. in particolare la sentenza n. 222 del 2018).
Tali principi – ha proseguito la Corte – sono estensibili anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo: previsioni sanzionatorie rigide, che colpiscono in egual modo, e quindi equiparano, fatti in qualche misura differenti, sono dunque soggette a un sindacato di (non manifesta ir-) ragionevolezza, teso a verificare se anche le infrazioni meno gravi tra quelle comprese nel perimetro applicativo della previsione sanzionatoria siano connotate da un disvalore tale da non rendere manifestamente sproporzionata la sanzione amministrativa.
La previsione di cui all’art. 7, comma 6, secondo periodo, d.l. n. 158 del 2012 è stata ritenuta non conforme a questo test.
La Corte ha infatti osservato che la norma censurata puniva indistintamente l’inosservanza dei plurimi obblighi di condotta contemplati dall’art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, con una sanzione non suscettibile di graduazione (da parte dell’autorità amministrativa prima, e del giudice poi) in relazione alla diversa gravità concreta dei singoli illeciti, che necessariamente dipende dall’ampiezza dell’offerta di gioco (schedine o tagliandi di giochi ad alta diffusione o, viceversa, apparecchi collocati in una singola sala gioco o esercizio commerciale, in ordine ai quali peraltro rilevano pure la dimensione e ubicazione della sala o esercizio, il grado di frequentazione, il numero di apparecchiature presenti) e dal tipo di violazione commessa (totale o parziale).
La fissità della sanzione, combinata alla sua notevole entità (50.000 euro) comportava la possibilità di manifesta sproporzione, per eccesso, della reazione sanzionatoria rispetto al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa dell’art. 7, comma 6, secondo periodo, come in effetti verificatosi nel caso di specie, ove il titolare di un bar, nel quale era presente un unico apparecchio da gioco, era stato sanzionato per il solo fatto di non aver esposto in modo visibile nel locale una targa di avvertimento sui rischi della dipendenza da gioco d’azzardo, pur avendo adempiuto agli altri obblighi informativi imposti dall’art. 7, comma 5.
L’irragionevolezza della previsione sanzionatoria è stata ritenuta corroborata dalla constatazione che altre sanzioni amministrative di contrasto alla ludopatia (in particolare, quelle previste dagli artt. 24, commi 20 e 21[2], del d.l. n. 98 del 2011, e 7, commi 4 e 6, primo periodo, del d.l. n. 158 del 2012[3]) sono sì improntate a marcata severità, ma risultano in genere graduabili[4].
4. Così accertata l’incostituzionalità dell’art. 7, comma 6, secondo periodo, d.l. n. 158 del 2012, la Corte ha scelto di adottare una pronuncia ablativa “secca”, espungendo tout court la previsione sanzionatoria dall’ordinamento.
Nell’occasione la Corte ha rammentato – anche in risposta a un’eccezione di inammissibilità delle questioni sollevata dall’Avvocatura dello Stato, che paventava un “vuoto normativo” in caso di accoglimento del petitum formulato dal rimettente – che non è «preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina […] che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti», spettando al legislatore di provvedere, in esito alla pronuncia della Corte, alla rimodulazione della disciplina.
Tale principio – ha precisato la Corte – vale anche in relazione al sindacato costituzionale sulle norme sanzionatorie, salvo in quei casi-limite in cui l’eliminazione pura e semplice della norma sanzionatoria provochi «insostenibili vuoti di tutela», e in cui si pone l’esigenza di adottare pronunce manipolative del trattamento sanzionatorio, che individuino, tramite «punti di riferimento» offerti dal sistema vigente, soluzioni sanzionatorie atte a sostituirsi a quella giudicata illegittima.
La Corte ha escluso che ricorresse quest’ultima ipotesi[5], atteso che la tutela della salute, cui sono volte le misure intese a contrastare il gioco d’azzardo patologico, è sì un bene di rilevo costituzionale, ma le condotte sanzionate dalla norma censurata erano «sensibilmente antecedenti la concreta offesa all’interesse protetto», trattandosi di inosservanze a obblighi informativi, o di “richiamo dell’attenzione”, a carattere preventivo, sicché il deficit di tutela conseguente all’ablazione della norma denunciata non attingeva a quei livelli di insostenibilità che soli avrebbero potuto giustificare una pronuncia manipolativa del trattamento sanzionatorio.
La Corte ha pertanto tout court rimosso la previsione sanzionatoria censurata, demandando al legislatore di determinarne una nuova, «stabilendone i relativi limiti minimo e massimo».
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5. La sentenza n. 185 del 2021 si inscrive nel recente filone di pronunce relative a contenuto, oggetto e modalità del sindacato costituzionale sulla proporzionalità delle sanzioni amministrative, apportandovi però significativi elementi di novità.
5.1. Quanto al contenuto del controllo della Corte, va premesso che il sindacato costituzionale sulla proporzionalità del trattamento sanzionatorio[6] si è storicamente affermato in riferimento alle pene in senso stretto, e ha assunto a parametro l’art. 3 Cost., utilizzato sia per censurare irragionevoli disparità di trattamento tra le previsioni sanzionatorie di volta in volta denunciate e quelle apprestate per altre figure di reato assunte a tertium comparationis[7], sia – in combinato disposto con l’art. 27, primo e/o terzo comma[8], Cost. – per colpire ipotesi di manifesta sproporzione tra trattamento sanzionatorio e condotte abbracciate dalla fattispecie incriminatrice astratta[9], ivi compresi quei casi in cui la sproporzione derivi dalla fissità e non graduabilità (e pertanto non individualizzabilità) della pena rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto[10].
Con riferimento invece alle sanzioni amministrative, il principio di proporzionalità è rimasto per lungo tempo essenzialmente confinato allo specifico tema degli automatismi sanzionatori, ritenuti in contrasto con il canone di «adeguatezza della sanzione al caso concreto», che postula «la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito» (si vedano da ultimo le sentenze n. 161 del 2018 e n. 88 del 2019).
Di recente però la Corte costituzionale ha decisamente ampliato il perimetro dello scrutinio di proporzionalità sulle sanzioni amministrative.
La sentenza “apripista” è la n. 112 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della confisca amministrativa per illeciti di market abuse (art. 187-sexies del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), in quanto estesa al prodotto dell’illecito e ai beni utilizzati per commetterlo, e non limitata al solo profitto. Qui la Corte ha la prima volta operato uno scrutinio di proporzionalità intrinseca (cioè del trattamento sanzionatorio rispetto alle condotte previste dalla fattispecie), analogo a quello svolto sulle sanzioni penali e fondato sull’art. 3 Cost. in combinato disposto (non con l’art. 27[11] ma) con le norme costituzionali o sovranazionali che tutelavano il diritto inciso dalla sanzione (in quel caso, il diritto di proprietà, protetto dall’art. 42 Cost. e dagli artt. 1 Prot. addiz. CEDU, 17 e 49 CDFUE).
Pochi mesi dopo, nella sentenza n. 212 del 2019 la Corte, chiamata esaminare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, della legge n. 1096 del 1971 – che punisce la commercializzazione di prodotti sementieri privi di requisiti o contrari a divieti con il pagamento di una somma pari a 40 euro per ogni quintale o frazione di quintale di prodotti sementieri e comunque non inferiore a euro 4.000 –ha compiutamente enunciato il test poi riproposto nella sentenza n. 185 del 2021 per verificare la non manifesta sproporzione delle sanzioni amministrative fisse e cioè la verifica «se anche le infrazioni meno gravi […] siano connotate da un disvalore tale da non rendere manifestamente irragionevole o sproporzionata la sanzione amministrativa». In quel caso, in cui si censurava in realtà l’elevatezza del minimo edittale della sanzione, e non una sanzione fissa, la Corte ha con facilità potuto affermare che «una “quota di fissità” della sanzione è […] connaturale a qualsiasi minimo edittale» e concludere che tale minimo, fissato dal legislatore con la finalità di «valorizzare le produzioni di qualità italiane» e di «rafforzare l’azione di repressione delle frodi alimentari», non appariva manifestamente irragionevole o sproporzionato, atteso che, in assenza di una soglia minima elevata, la norma sarebbe stata priva di efficacia deterrente, punendo le condotte di commercializzazione vietate con il pagamento della irrisoria somma di euro 40,00 per quintale.
Nella sentenza n. 185 del 2021, oggi all’esame, la Corte mutua il proprio modus operandi sia dalla sentenza n. 112 del 2019 sia dalla (forse meno nota) sentenza n. 212 del 2019. Sotto il primo profilo, le disposizioni costituzionali assunte a parametro per lo scrutinio sono, secondo l’insegnamento della sentenza n. 112, l’art. 3 Cost., «in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti a volta a volta incisi dalla sanzione»[12]. Quanto alla modalità di controllo, la Corte si attiene al test sulle sanzioni amministrative fisse già enunciato dalla sentenza n. 212, non a caso puntualmente richiamata in motivazione, ossia controlla «se anche le infrazioni meno gravi», tra quelle comprese nel perimetro applicativo della previsione sanzionatoria, «siano connotate da un disvalore tale da non rendere manifestamente […] sproporzionata la sanzione amministrativa» comminata. Il tipo di test operato dalla Corte, non è quindi nuovo, anche se il risultato è diverso da quello conseguito nella sentenza n. 212 del 2019; non sorprendentemente, in quanto nel caso della sentenza n. 185 del 2021 si era di fronte a una “vera” sanzione fissa, per giunta estremamente severa.
5.2. Il vero elemento di novità della sentenza n. 185 del 2021 risiede invece negli esiti dello scrutinio di costituzionalità operato.
Come noto, lo scrutinio di proporzionalità “intrinseca” sulle sanzioni penali ha dato luogo, in diverse pronunce a partire dalla n. 236 del 2016, all’adozione di sentenze manipolative, nelle quali la Corte ha individuato un trattamento sanzionatorio che potesse sostituirsi a quello dichiarato incostituzionale, anche fuori dal tradizionale schema delle “rime obbligate”, facendo leva su «precisi punti di riferimento» offerti dal sistema normativo vigente, anche alternativi tra loro, e facendo altresì salvo un sempre possibile intervento legislativo di segno differente, purché rispettoso della Costituzione (sentenze n. 236 del 2016, n. 222 del 2018, n. 40 e 99 del 2019)[13].
Questo orientamento giurisprudenziale, fondato sulla ricerca di soluzioni “costituzionalmente adeguate” non ha mancato di suscitare reazioni critiche in una parte della dottrina, che vi ha scorto un eccessivo attivismo della Corte e uno sconfinamento in aree riservate alla discrezionalità politica del legislatore[14].
Probabilmente anche in risposta a tali critiche, la sentenza n. 185 del 2021 ha curato di mettere in chiaro la (condivisibile) la ratio della giurisprudenza sulle soluzioni “costituzionalmente adeguate”, individuandola nella duplice esigenza di evitare da un lato la creazione di “zone franche” intangibili dal controllo di legittimità costituzionale e di scongiurare dall’altro «insostenibili vuoti di tutela» che conseguirebbero a una sentenza ablativa cui pure seguisse un tempestivo intervento del legislatore di ripristino di un trattamento sanzionatorio conforme a Costituzione. Un simile intervento legislativo non potrebbe infatti incidere – in forza del divieto di retroattività della norma penale/punitiva sfavorevole – sui fatti pregressi, che diverrebbero «automaticamente e definitivamente privi di ogni rilievo penale, persino in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, i cui effetti verrebbero a cessare».
La Corte ha poi per la prima volta precisato le condizioni di applicabilità della giurisprudenza sulle soluzioni “costituzionalmente adeguate”, confinandola ai casi in cui la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa determini «una menomata protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali».
Solo in questi casi – ha affermato la Corte – è ammissibile una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca al trattamento sanzionatorio dichiarato incostituzionale, soluzioni sanzionatorie già rinvenibili nell’ordinamento, secondo lo schema delle soluzioni “costituzionalmente adeguate”. Al di fuori di questa situazione-limite, lo schema decisorio della Corte sarà quello (già sperimentato in passato: v. sentenze n. 218 del 1974 e n. 176 del 1976) della sentenza ablativa della norma sanzionatoria, che lascia al legislatore il compito di colmare (ma solo pro futuro) l’inevitabile, conseguente vuoto di tutela.
Questa precisazione – che sembra inaugurare un “nuovo corso” della giurisprudenza costituzionale, nel segno della residualità del ricorso alle sentenze manipolative[15] del trattamento sanzionatorio – sembra fare da pendant all’estendersi del sindacato di proporzionalità intrinseca della Corte alle sanzioni amministrative. A fronte di un controllo più esteso, si prefigura un intervento meno manipolativo della Corte, quantomeno in tutte quelle ipotesi (che potrebbero essere numerose rispetto alle sanzioni amministrative) di incostituzionalità di norme sanzionatorie poste a presidio di «condotte sensibilmente antecedenti la concreta offesa all’interesse protetto».
5.3. La sentenza n. 185 del 2021 suscita infine un ultimo interrogativo: il controllo di proporzionalità della Corte, nei termini ivi delineati, deve ritenersi operabile solo rispetto alle sanzioni amministrative punitive, oppure riguarda tutte le sanzioni amministrative tout court?
L’interrogativo sorge perché nella più volte ricordata sentenza n. 112 del 2019 la Corte aveva ritenuto il controllo di proporzionalità della pena estensibile alle sanzioni amministrative di natura punitiva secondo i c.d. criteri Engel, poi argomentando diffusamente sul carattere punitivo della sanzione che veniva in esame in quel caso (quella di cui all’art. 187-sexies d.lgs. n. 58 del 1998). Diversamente, nella sentenza n. 212 del 2019, in cui viene enunciato per la prima volta il test di proporzionalità specifico per le sanzioni amministrative fisse, non si fa alcun riferimento alla necessità che la sanzione amministrativa da scrutinare sia di natura punitiva.
Nella sentenza n. 185 del 2021 oggi in esame, la Corte da un lato afferma in linea generale che lo scrutinio di proporzionalità elaborato in materia penale «si presta ad essere estes[o], mutatis mutandis, anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo» ma, dall’altro lato, nulla argomenta – come del resto non aveva fatto il rimettente – sulla natura punitiva della sanzione di cui all’art. 7, comma 6, secondo periodo, d.lgs. n. 158 del 2012.
Ora, è ben vero che nel caso oggetto della sentenza n. 185 del 2021, è difficile dubitare del carattere punitivo della sanzione che veniva in considerazione, alla luce della particolare severità (50.000 euro, in relazione a qualsiasi violazione) e dell’indubbia finalità deterrente e non meramente ripristinatoria.
Ci si può però chiedere, su un piano più generale, se, nel futuro, la Corte ammetterà il controllo di proporzionalità delineato dalle sentenze n. 112 e 212 del 2019 e 185 del 2021 e ricalcato sul controllo di proporzionalità delle pene, solo con riferimento alle sanzioni amministrative punitive, oppure in relazione a qualsiasi sanzione amministrativa, anche non punitiva.
In questo secondo senso potrebbero deporre sia il fatto che già il controllo di proporzionalità sugli automatismi legislativi è stato esteso anche a sanzioni amministrative non punitive (v. ad esempio la sentenza n. 22 del 2018), sia la circostanza che il principio di proporzionalità, inteso come corollario del principio di eguaglianza-ragionevolezza, sembra trascendere, quale canone generale dell’ordinamento, la materia penale, a differenza delle garanzie di legalità di cui all’art. 25 Cost., o comunque delle garanzie strettamente legate alla materia penale come la retroattività in mitius o la cedevolezza del giudicato, non a caso ritenute dalla Corte estensibili solo alle sanzioni amministrative punitive[16].
[1] È stata invece giudicata inammissibile la questione sollevata in relazione agli artt. 16 e 17 CDFUE, quali parametri interposti rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., non avendo il giudice a quo chiarito se la fattispecie in esame fosse riconducibile all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, nel quale rileva appunto la Carta.
[2] Secondo cui il titolare dell’esercizio commerciale, del locale o, comunque, del punto di offerta del gioco che consente la partecipazione ai giochi pubblici a minori di anni diciotto è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5000 a 20.000 euro oltre che con la chiusura dell’esercizio, del locale o del punto di offerta da dieci a trenta giorni, nonché con la revoca di qualsiasi autorizzazione o concessione nel caso di commissione di tre violazioni nel corso di un triennio.
[3] Che puniscono con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100.000 a 500.000 il committente di messaggi pubblicitari non consentiti concernenti giochi con vincite in denaro e il proprietario del mezzo di diffusione. Da notare che il legislatore ha successivamente vietato la pubblicità relativa a giochi e scommesse, pena il pagamento di una sanzione pari al venti per cento del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a cinquantamila euro (art. 9 del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, recante «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese», convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96).
[4] La Corte ha poi ritenuto irrilevante, al fine di escludere il vulnus di costituzionalità, che l’autore dell’illecito potesse accedere al pagamento in misura ridotta della sanzione ex art. 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689, atteso che da un lato tale forma di definizione della contestazione è puramente eventuale e implica la rinuncia al diritto di difendersi in giudizio, e dall’altro lato il pagamento ridotto non esclude che la sanzione, di importo significativo anche dopo la riduzione, resti di per sé fissa e tale da accomunare violazioni di disvalore sensibilmente differenziato.
[5] Il trattamento sostitutivo, del resto, non risultava nemmeno rinvenibile nell’ordinamento, in difetto di previsioni sanzionatorie che puniscano condotte assimilabili a quelle oggetto del censurato art. 7, comma 6, secondo periodo, d.l. n. 158 del 2012. Secondo la Corte non poteva ritenersi tale la sanzione amministrativa – cui pur sinteticamente sembrava alludere l’ordinanza di rimessione – prevista per chi consenta la partecipazione al gioco dei minori (v. supra, nota n. 2), sia per l’eterogeneità delle condotte punite, sia per la presenza di sanzioni accessorie (chiusura temporanea dell’esercizio, revoca delle autorizzazioni e delle concessioni amministrative) la cui estensione al caso di specie appariva contraria al “verso” delle questioni e comunque esorbitante dalle competenze della Corte.
[6] Inteso come divieto di manifesta sproporzione per eccesso della pena, quale limite all’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare il trattamento sanzionatorio: v. n. 112 del 2019 nonché in dottrina F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Torino, 2021, Giappichelli, p. 298 ss.
[7] V. sentenze n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974, nonché – sotto il duplice profilo del contrasto con gli artt. 3 e 8 Cost. – sentenze n. 327 del 2002, n. 508 del 2000 e n. 329 del 1997.
[8] V. sentenze n. 343 del 1993, n. 422 del 1993 e n. 341 del 1994; sentenze n. 68 del 2012 e n. 222 del 2018, per il rilievo che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato, e finiscono così per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione. Si vedano anche le pronunce che hanno inciso sull’art. 69, ultimo comma, del codice penale: sentenze n. 205 del 2017, nn. 106 e 105 del 2014 e n. 251 del 2012.
[9] Per questa distinzione v. ancora sentenza n. 112 del 2019 nonché F. Viganò, op. cit., p. 162 ss., che discorre di controllo di proporzionalità rispettivamente ordinale e cardinale.
[10] V. in particolare sentenza n. 222 del 2018 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del R.D. 6 marzo 1942, n. 267 nella parte in cui prevedeva l’applicazione, alla condanna per bancarotta fraudolenta, delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa «per la durata di dieci anni», anziché «fino a dieci anni». Ivi la Corte ha richiamato il principio di personalità della responsabilità penale sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost. e il connesso canone di individualizzazione della pena, affermando che esso si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel loro ammontare ed esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore.
[11] Non essendo quest’ultima disposizione applicabile fuori dall’ambito strettamente penale: sentenza n. 281 del 2013, ordinanza n. 169 del 2013.
[12] L’Avvocatura dello Stato aveva invece eccepito l’inammissibilità del richiamo a parametri diversi dall’art. 3 Cost.
[13] In tema v. ex multis G. Repetto, Recenti orientamenti della Corte costituzionale in tema di sentenze di accoglimento manipolative, in AA. VV., Liber amicorum per Pasquale Costanzo, 2020, www.giurcost.org, pp. 153-159.
[14] V. tra gli altri A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n. 2/2019, p. 251 ss.
[15] Sull’opportunità di un “ritorno al passato”, con utilizzo di pronunce ablative secche, e residualità delle manipolative e ablative parziali con effetto additivo, v., sia pure con riferimento alla questione delle pronunce in malam partem, M. Scoletta, Metamorfosi della legalità, Pavia, 2012, Monboso, p. 279 ss.
[16] Il riferimento è alle pronunce con cui la Corte ha esteso alle sanzioni amministrative punitive diversi corollari del principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost., tra cui il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in peius (sentenze n. 223 del 2018, n. 68 del 2017, n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010), il principio di sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del 2018 e n. 78 del 1967), la garanzia di retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius (sentenza n. 63 del 2019), nonché (sentenza n. 68 del 2021), il principio della cedevolezza del giudicato rispetto al canone di legalità costituzionale della pena (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87).