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15 Aprile 2022


La Corte costituzionale allarga (ancora) il novero delle incompatibilità ex art. 34 c. 2 c.p.p. al caso del g.i.p. che rigetta la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante

Corte cost., sent. 21 gennaio 2022, n. 16, Pres. Coraggio, Red. Modugno



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1. Con la sentenza n. 16 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.

In particolare, la Corte è tornata a svolgere interessanti considerazioni in ordine ad una causa di incompatibilità del giudice per le indagini preliminari, ponendosi nel solco dei suoi precedenti giurisprudenziali che hanno ampliato, mediante sentenze additive del dettato codicistico, il novero delle incompatibilità originariamente previste dall’art. 34 c.p.p.

 

2. Occorre premettere alcuni cenni sintetici concernenti il procedimento su cui si innesta l’incidente di costituzionalità. A tal proposito, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Macerata riceveva una richiesta, da parte della locale Procura, di emissione di un decreto penale di condanna nei confronti di una persona imputata del reato di guida in stato di ebbrezza, ex art. 186 d.lgs. 20 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). Il giudice rigettava, quindi, tale richiesta sul rilievo della mancata contestazione della circostanza aggravantedell’aver provocato un incidente stradale”, prevista dal citato art. 186, comma 2 bis, C.d.s. Tale rigetto era giustificato dal fatto che la sussistenza della predetta aggravante era desumibile da una nota dei Carabinieri, nella quale si riferiva la responsabilità del sinistro ad entrambi i conducenti, tra cui l’imputato.

In seguito a ciò, la Procura, contestata l’aggravante in questione, formulava una nuova richiesta di decreto penale di condanna, investendo così della domanda il medesimo giudice.

In tale contesto, il giudice a quo, rilevato come l’art. 34, comma 2, c.p.p. non preveda l’ipotesi in questione tra i casi di incompatibilità del giudice, sollevava una questione di legittimità costituzionale della predetta norma, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, per violazione del principio di parità di trattamento e del diritto di difesa.

 

3. La Corte costituzionale, con la pronuncia in commento, ha dichiarato la questione fondata, respingendo l’eccezione di inammissibilità per carente descrizione della fattispecie concreta proposta dall’Avvocatura dello Stato.

In particolare, l’Avvocatura eccepiva l’inammissibilità della questione in quanto il rimettente non avrebbe chiarito se, nel rigettare la prima richiesta di decreto penale, egli avesse compiuto una valutazione “in concreto” ovvero una valutazione astratta sulla base della mera descrizione del fatto contenuta nell’imputazione. La Corte, tuttavia, ha osservato che, sebbene fosse chiaro che il giudice a quo avesse desunto la sussistenza della circostanza aggravante dagli atti di indagine, non si può escludere che il provvedimento di rigetto implichi comunque, come si dirà a breve, una valutazione contenutistica sulla res iudicanda.

 

4. Passando quindi all’esame del merito, la Corte ricorda (§ 4.1 del “considerato in diritto”) in via preliminare che le norme sull’incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzietà e dell’imparzialità della giurisdizione, tutelati dagli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione. Tale presidio costituzionale risulta finalizzato ad evitare che la decisione “sul merito della causa” possa essere (o apparire) condizionata dalla forza della prevenzione, intesa come naturale tendenza a confermare una decisione già presa o mantenere un atteggiamento già assunto, derivante «da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda»[1].

Con specifico riferimento all’art. 34 c.p.p., l’incompatibilità è regolata “in verticale” nel primo comma, e “in orizzontale” nel secondo comma, che concerne la relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede. La norma, costruita in origine secondo elencazione tassativa, è stata nel tempo oggetto di diverse sentenze di illegittimità costituzionale di tipo additivo, che ne hanno ampliato il novero di operatività in modo significativo[2]

 

4.1 Osserva la Corte come, in linea generale, la situazione di incompatibilità presuppone una relazione tra due termini (§ 4.2):

a) una fonte di pregiudizio, intesa come un’attività giurisdizionale volta a generare la citata forza della prevenzione;

b) una sede pregiudicata, cioè a dire un compito decisorio, cui il giudice, dopo aver posto in essere l’attività pregiudicante, non risulta più idoneo.

 

4.2 Secondo la consolidata giurisprudenza della Consulta, la sede pregiudicata (alias «la partecip[azione] al giudizio», secondo il dettato dell’art. 34, co. 2, c.p.p.) deve essere intesa come ogni processo che in base alle prove pervenga ad una decisione di merito[3]. In tale nozione, quindi, si ricomprendono il giudizio dibattimentale, il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, l’udienza preliminare, talora l’incidente di esecuzione[4] e, infine, il decreto penale di condanna.

Con riferimento a quest’ultima ipotesi, il procedimento per decreto è un rito speciale a contraddittorio eventuale e differito, il quale prevede, per taluni tipi di reato, che il pubblico ministero, ritenuta applicabile una pena pecuniaria, anche se sostitutiva di una pena detentiva, presenti al giudice per le indagini preliminari una richiesta motivata di decreto penale di condanna, con l’indicazione della misura della pena da applicare.

Il giudice investito della richiesta ha tre opzioni, sulla base dell’esame delle risultanze delle indagini preliminari: applicare l’art. 129 c.p.p., accogliere ovvero rigettare la richiesta del p.m., senza la possibilità di apportare modifiche.

È evidente, quindi, come si tratti di una funzione di giudizio, dal momento che il controllo del g.i.p. non attiene solo ai presupposti del rito, ma anche al merito dell’addebito, ben potendo questi sindacare la congruità della pena richiesta, l’esattezza della qualificazione giuridica, e la sufficienza degli elementi probatori[5].

 

4.3 Oltre a ciò, in relazione all’attività pregiudicante, la Corte ripercorre (§ 4.2.2) quali siano le condizioni, per altro già precisate in precedenti arresti, in presenza delle quali la previsione di incompatibilità del giudice debba ritenersi costituzionalmente necessaria.

In primis, la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda costituisce il presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale. In aggiunta, si ribadisce che la semplice conoscenza di atti precedentemente compiuti non è sufficiente a generare l’incompatibilità, bensì è necessario che il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione su questi, volta all’assunzione di una decisione. La terza condizione concerne la natura “non formale”, ma “di contenuto”, della decisione, la quale deve comportare valutazioni sul merito dell’ipotesi accusatoria. Infine, sempre al fine di verificare l’insorgenza dell’incompatibilità, occorre che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento.

Orbene, proprio in virtù dei citati criteri, la Corte aveva già ritenuto una possibile “fonte di pregiudizio” l’ordinanza con la quale il giudice del dibattimento, accertata la diversità del fatto rispetto alla descrizione nell’imputazione, dispone la trasmissione degli atti al p.m. ex art. 521, co. 2, c.p.p. In tale frangente, infatti, il giudice esprime una valutazione sul merito della res iudicanda, non dissimile da quella che compie con la sentenza che definisce il giudizio di merito. In aggiunta, l’ordinanza con cui si trasmettono gli atti al pubblico ministero determina un’innegabile regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari: la fase che si aprirà all’esito delle iniziative del p.m., che dovrà esercitare nuovamente l’azione penale, sarà – per quanto omologa – «una fase distinta e ulteriore, rispetto alla quale la valutazione di merito insita nel precedente provvedimento potrà assumere una “valenza pregiudicante”»[6].

Sulla base di questo ragionamento, ben si comprende come la Corte costituzionale abbia ritenuto che il successivo dibattimento (con la sentenza n. 455 del 1994) ovvero la nuova udienza preliminare (con la sentenza n. 400 del 2008), tenuti all’esito della trasmissione per il medesimo fatto storico nei confronti dello stesso imputato, debbano essere attribuiti alla cognizione di altro giudice.

 

4.4 Muovendo da questa premessa, la Corte perviene al medesimo risultato anche nel caso in esame (§ 4.3).

In primo luogo, il rigetto della richiesta di decreto penale per mancata contestazione di una aggravante si basa su una valutazione sul merito della res iudicanda. Infatti, il giudice, ritenendo sulla base degli atti di indagine il fatto aggravato da una circostanza non menzionata nell’imputazione, riconosce implicitamente che il medesimo fatto sussiste.

In secondo luogo, il rigetto della richiesta di decreto penale comporta la restituzione degli atti al pubblico ministero, secondo quanto previsto dal terzo comma dell’art. 459 c.p.p. Tale restituzione comporta, anche secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità[7], una regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, fase in precedenza chiusa con la richiesta di decreto penale.

Ben si comprende, quindi, che il successivo esercizio dell’azione penale mediante nuova richiesta di decreto penale di condanna apre una fase di giudizio distinta dalla precedente e nuova, in relazione alla quale la delibazione del merito della res iudicanda insita nell’antecedente provvedimento di rigetto spiega i propri effetti pregiudicanti.

Per tale ragione, si verifica una evidente causa di incompatibilità del giudice per le indagini preliminari che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante in relazione alla nuova richiesta di decreto formulata in conformità ai rilievi già espressi dal medesimo giudice.

* * *

5. Illustrato il contenuto della decisione, è possibile muovere una breve considerazione conclusiva.

Occorre notare, infatti, che con la sentenza n. 16 del 2022 la Corte costituzionale si inserisce coerentemente nel solco delle numerose declaratorie di illegittimità costituzionale aventi ad oggetto il secondo comma dell’art. 34 c.p.p. Tale ulteriore tassello è certamente rilevante, dal momento che intensifica la garanzia dell’imparzialità del giudicante, nonché, quindi, il principio del giusto processo.

Tuttavia, la perdurante proliferazione delle incompatibilità, risultato della pur apprezzabile evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale, denota la crisi della tassatività che caratterizza il dettato del codice di rito in questa materia e lascia presagire implicitamente la possibilità per l’interprete di ravvisare ulteriori spazi per interventi integrativi del contenuto dell’art. 34 co. 2, c.p.p. da parte della Consulta.

Pare opportuno, pertanto, chiedersi se il quadro formatosi a seguito delle reiterate integrazioni della Consulta consenta di delineare una categoria generale ed organica di incompatibilità[8], cui l’interprete possa ricondurre, anche ricorrendo all’interpretazione analogica, le più diverse situazioni pregiudizievoli connaturate al precedente esercizio di valutazioni “di merito” idonee ad esplicare la propria efficacia pregiudicante. Allo stato, tuttavia, tale operazione non sembra essere consentita, data l’impossibilità di superare la casistica tassativa caratterizzante l’art. 34, co. 2, c.p.p., se non attraverso un auspicabile intervento del legislatore[9].

 

 

[1] Così, anche, Corte cost., sent. n. 183 del 2013, n. 153 del 2012, n. 224 del 2001 e n. 177 del 2010.

[2] Ex multis, Corte cost., sent. n. 400 del 2008, n. 241 del 1999 e n. 290 del 1998.

[3] In questo senso, Corte cost., sent. n. 155 e n. 131 del 1996, n. 453 del 1994.

[4] In tema di incompatibilità del giudice dell’esecuzione, s. v. Corte cost., sent. n. 7 del 2022.

[5] Cfr. Cass., sez. II, sent. 16 giugno (dep. 21 luglio 2021), n. 28228.

[6] Così, in Corte cost., sent. n. 18 del 2017, § 5.

[7] Si veda, ad es., Cass., sez. III, 14 dicembre 2017 (dep. 26 marzo 2018), n. 14012, secondo cui «il rigetto della richiesta di decreto penale determina la regressione alla fase delle indagini preliminari».

[8] Sulla volontà della Corte costituzionale di dare un assetto stabile e definitivo alla materia delle incompatibilità ex art. 34, co. 2, c.p.p., cfr. Corte cost., sent. n. 155 e n. 177 del 1996. In dottrina, cfr. O. Mazza, La proliferazione delle incompatibilità è giunta al capolinea?, in Dir. pen. proc., 1996, VIII, p. 975 ss.

[9] Sul tema della tassatività delle cause di incompatibilità, s. v. P. P. Rivello, L’incompatibilità del giudice penale, Milano, 1996, p. 401 ss.; ancora, sull’«insoddisfacente assetto» dell’art. 34 c.p.p., s. v. G. Di Chiara, L’incompatibilità endoprocessuale del giudice, Torino, 2000, p. 198 ss.