Corte cost., sent. 24 gennaio 2022 n. 18, Pres. Coraggio, Red. Viganò
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1. Con la decisione in commento, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la previsione della sottoposizione al visto di censura della corrispondenza tra difensore e detenuto in regime di carcere duro, stabilita dall’art. 41-bis co.2-quater lett. e) ord. pen., facendo così venir meno un ulteriore ostacolo alla piena esplicazione del diritto di difesa dei soggetti sottoposti al regime differenziato.
È bene anticipare, sin da subito, che le argomentazioni spese dalla Corte per pervenire alla declaratoria di illegittimità della normativa sottoposta alla sua attenzione si pongono in linea di continuità con quelle che la stessa Consulta aveva già utilizzato in occasione della pronuncia n. 143 del 2013 per dichiarare illegittima la previsione del numero massimo di tre colloqui a settimana tra difensore e detenuto in regime di 41-bis.
2. Prima di soffermarci sulle motivazioni che sorreggono la declaratoria di incostituzionalità, occorre ripercorrere sinteticamente la questione da cui trae origine l’ordinanza di rimessione.
La Prima sezione della Corte di cassazione si è trovata investita del ricorso di un soggetto, esponente di spicco di un’associazione di stampo mafioso, condannato a venticinque anni di reclusione e detenuto in regime di 41-bis, che lamentava l’illegittimità della motivazione con cui il Tribunale di Locri aveva respinto il reclamo da lui proposto contro il decreto con cui era stato disposto, dal Presidente del medesimo Tribunale il trattenimento di un telegramma indirizzato al proprio difensore.
Secondo il Tribunale, infatti, il telegramma rappresentava un “pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, essendo composto da una serie di periodi non legati da un filo logico che consentisse di comprenderne il contenuto nella sua interezza”
Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto di non poter vagliare la legittimità della motivazione utilizzata dal Tribunale, senza aver prima sciolto i dubbi di legittimità della normativa rilevante nel caso di specie, rispetto ai parametri di cui agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117 co. 1 Cost., in relazione quest’ultimo all’art. 6 Cedu.
3. Così ricostruita la situazione che fa da sfondo alla questione di legittimità, prima di esaminarla nel merito, la Consulta opera una preliminare ricostruzione del quadro normativo rilevante in tema di corrispondenza tra difensore e detenuto: un quadro composito e oggetto di diverse modifiche normative avvicendatesi nel tempo.
Sostanzialmente, compito della Corte è ricostruire i rapporti tra gli artt. 18-ter co. 2 e 3 ord. pen., l’art. 41-bis co. 2-quater ord. pen. e l’art. 103 co. 6 c.p.p. che, sebbene in misura diversa – ed è proprio questo il punto – prevedono tutte delle limitazioni che possono essere eventualmente frapposte alle concrete possibilità per il detenuto (ovvero l’imputato nel caso di cui all’art. 103 c.p.p.) di comunicare con l’esterno, e in particolare con il proprio avvocato.
L’art. 18-ter ord. pen. contiene, infatti, la disciplina generale delle limitazioni e dei controlli che possono essere effettuati sulla corrispondenza inviata e ricevuta dal detenuto, prevedendo che “per esigenze attinenti alle indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto”, l’autorità giudiziaria possa disporre dei limiti alla corrispondenza, che si sostanziano nella sua sottoposizione a visto di controllo e nella verifica del contenuto delle buste che la contengono. Il secondo comma dell’art. 18-ter ord. pen. stabilisce, invece, che tali limitazioni non possano trovare applicazione nel caso in cui la corrispondenza risulti indirizzata, tra gli altri, “ai soggetti indicati nel comma 5 dell’art. 103”, tra cui i difensori.
L’art. 103 c.p.p. disciplina, come noto, le garanzie di libertà dei difensori, in cui rientrano tanto il divieto di intercettare le conversazioni tra difensore e imputato (comma 5) quanto il divieto di controllare e sequestrare la corrispondenza tra i medesimi soggetti (comma 6).
All’interno di questo quadro normativo, apparentemente lineare, si inserisce la previsione di cui all’art. 41-bis co.1- quater lett. e) che, tra le varie misure limitative determinate dalla sospensione delle ordinarie regole di trattamento, annovera anche la possibilità di sottoporre a visto di censura la corrispondenza, escludendo da tale procedura solo “quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia”.
Dalla lettura combinata di tali norme emerge, quindi, con tutta evidenza il diverso ambito soggettivo delle limitazioni: se, da un lato, la normativa generale di cui all’art. 18-ter co. 2 ord. pen., in linea con quanto previsto per gli imputati dall’art. 103 c.p.p., esclude la possibilità di apporre delle limitazioni alla corrispondenza tra detenuto e difensore, d’altro lato, l’art. 41-bis co. 2-quater lett. e), ponendosi in piena rotta di collisione con la previsione generale, consente espressamente la sottoposizione al visto di controllo della corrispondenza tra detenuto e il proprio difensore, quale conseguenza dell’applicazione del regime detentivo speciale.
4. Compito della Corte è allora quello di chiarire il rapporto tra queste norme che, in mancanza di precisazioni da parte del legislatore, ha dato origine, nel tempo, a due diverse questioni interpretative.
La prima – già affrontata e risolta dalla Consulta con la sentenza n. 349 del 1993 – riguardava la competenza a disporre le limitazioni, ossia se le stesse dovessero essere disposte dal Ministro della giustizia nel provvedimento applicativo del regime differenziato oppure dall’autorità giudiziaria, come previsto dall’art. 18-ter co. 3. La Corte, all’epoca, aveva accolto quest’ultima interpretazione, l’unica ritenuta costituzionalmente conforme e in linea con quanto previsto dall’art. 15 Cost., e la giurisprudenza di legittimità successiva si è “nettamente orientata in quest’ultimo senso”.
La seconda questione – direttamente rilevante nel caso da cui origina l’ordinanza di rimessione – attiene, invece, all’operatività o meno anche nei confronti di detenuti o internati in regime di 41-bis ord. pen. della previsione generale di cui al co. 2 dell’art.18-ter ord. pen., che appunto esclude la possibilità di limitare e controllare la corrispondenza tra detenuto e difensore; ovvero se, quantomeno nei confronti dei soli imputati in custodia cautelare sempre in regime di 41-bis, continui a valere la previsione di cui all’art. 103 c.p.p, di contenuto analogo a quanto previsto dal co. 2 dell’art. 18-ter ord. pen.
5. In punto di ammissibilità della questione, la Corte osserva come l’interpretazione operata dal giudice rimettente, secondo cui l’art. 41-bis co.1- quater è norma speciale e deroga quindi a quanto disposto nell’art. 18-ter, appare “non solo plausibile, ma anche – a ben guardare – come la più conforme al dato letterale della disposizione censurata”[1].
A tale conclusione la Corte perviene pur rilevando come siano in realtà diffuse alcune interpretazioni costituzionalmente conformi della normativa rilevante nel caso di specie, secondo cui l’art.18-ter troverebbe applicazione anche nei confronti di detenuti sottoposti al 41-bis, sostenute tanto da alcune pronunce della Cassazione quanto dalla stessa Amministrazione penitenziaria nella circolare DAP n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017[2].
Del resto – osserva la Corte – è proprio per effetto dell’interpretazione letterale della normativa, che costituisce “il naturale limite dello stesso dovere del giudice di interpretare la legge in conformità alla Costituzione”[3], che era stato disposto il trattenimento di un telegramma indirizzato da un detenuto al proprio difensore.
Da tale constatazione, quindi, discende la necessità di verificare la tenuta costituzionale della previsione di cui all’art. 41-bis co. 2-quater lett. e).
6. L’attenzione della Corte si focalizza, a questo punto, sull’art. 24 Cost., parametro rispetto al quale la questione viene ritenuta fondata.
Secondo la Consulta, infatti, il diritto di difesa è da tempo riconosciuto quale “principio supremo” dell’ordinamento, non solo dalla giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, ma anche in quella della Corte europea dei diritti dell’uomo e in atti sovranazionali.
Vi è infatti un’assoluta concordanza, tanto a livello nazionale che a livello sovranazionale, nel ritenere che tale diritto, per potersi ritenere effettivo, debba necessariamente comprendere anche “il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il proprio difensore, allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive e, ancor prima, allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti”[4]. A maggior ragione tale garanzia deve essere assicurata a soggetti che siano privati della libertà personale, in esecuzione di una misura cautelare o di una pena definitiva, poiché essi si trovano “in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all’esercizio delle facoltà difensive”, date le scarse possibilità di contatti con l’esterno.
Non diversamente si orienta la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui il diritto alla riservatezza della corrispondenza – di per sé tutelato dall’art. 8 CEDU – risulta funzionale all’esercizio del diritto di difesa tecnica, contemplato dall’art. 6 par. 3 lett. c) CEDU, che altrimenti non potrebbe dirsi concreto ed effettivo se il detenuto non potesse comunicare liberamente e segretamente, al riparo da controlli da parte delle autorità penitenziarie, con il proprio difensore[5].
Tali affermazioni trovano poi ulteriore riscontro in atti sovranazionali che riconoscono appunto il diritto del detenuto di comunicare con il proprio difensore, in via confidenziale e senza limiti, quale specifico corollario del diritto di difesa[6].
Fatte queste premesse, la Corte chiarisce subito che il diritto di difesa – e in particolare il diritto alla riservatezza delle comunicazioni con il proprio difensore – non è assoluto e può andare incontro a bilanciamenti con altri interessi costituzionalmente garantiti “entro i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, e in ogni caso a condizione che non risulti compromessa l’effettività del diritto alla difesa”[7].
È a questo punto che il Giudice delle leggi pone sotto la lente del test di proporzionalità il bilanciamento di valori sotteso alla “vistosa limitazione del diritto in questione”: su un piatto della bilancia il diritto di difesa, compresso per effetto della procedura di sottoposizione della corrispondenza a visto di censura, che comporta l’apertura e la lettura della corrispondenza e che può poi risolversi in un ritardo nella consegna della medesima oppure nel suo definitivo trattenimento; sull’altro, l’esigenza sicurezza sociale e di impedire comunicazioni illecite tra detenuto pericoloso e mondo esterno, che tale procedura mira a presidiare.
Nell’ambito della valutazione di compatibilità costituzionale delle limitazioni cui possono essere sottoposti i detenuti al 41-bis, la Corte costituzionale ha infatti costantemente affermato che esse possono essere ritenute legittime solo nel caso in cui risultino funzionali (ossia idonee) e non eccessive (ossia necessarie) rispetto alla finalità del regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen., che è unicamente quella di contenere la pericolosità sociale dei soggetti che vi sono sottoposti, impedendo possibili contatti tra detenuti e altri membri della medesima organizzazione criminale che si trovino però in stato di libertà[8].
Tanto chiarito, e accertato che il controllo sulla corrispondenza integra sicuramente una compressione di un diritto fondamentale, la Corte ritiene che la previsione di cui all’art. 41-bis co. 2 quater lett. e) risulti, da un lato, inidonea rispetto allo scopo perseguito dalla generalità delle limitazioni che discendono dall’applicazione del regime differenziato, posto che “il temuto scambio di informazioni tra difensori e detenuti o internati potrebbe comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici”, che, a seguito della sentenza n. 143 del 2013 della stessa Consulta, risultano consentiti in numero illimitato e senza possibilità di controlli.
Dall’altro, eccessiva e sproporzionata, dato che la previsione del controllo sulla corrispondenza è basata su “una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore con il sodalizio criminale, già stigmatizzata nella sentenza n. 143 del 2013”[9].
In conclusione, quindi, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata per contrasto con l’art. 24 Cost., ritenendo assorbite le ulteriori censure.
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7. Come anticipato sin dall’inizio del presente commento, le argomentazioni utilizzate dalla Corte per pervenire alla declaratoria di illegittimità dell’art. 41-bis co. 2 quater lett. e) risultano in linea con le affermazioni già contenute nella precedente sentenza n. 143 del 2013, più volte richiamata dalla stessa Consulta, con cui – è bene ribadirlo – era stata dichiarata illegittima la previsione di un numero massimo di tre colloqui a settimana tra difensore e detenuto al 41-bis.
In quella occasione, infatti, la Corte costituzionale ebbe già modo di affermare che “nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango”[10], ritenendo che, nel caso della previsione di un numero massimo di tre colloqui a settimana, “alla certa compressione delle facoltà difensive non corrispondesse un’equipollente salvaguardia di quelle esigenze preventive che l’assetto normativo censurato aveva inteso salvaguardare”[11].
Detto altrimenti, la previsione di un limite quantitativo, a parere della Corte, non serviva in alcun modo ad impedire un eventuale passaggio illecito di informazioni, visto che i colloqui con il difensore erano comunque sottratti all’ascolto e alla registrazione da parte dell’autorità penitenziaria.
Di fronte quindi alla prospettata illegittimità della previsione di cui all’art. 41-bis co. 2 quater lett. e), la Corte decide coerentemente di riprendere le motivazioni già utilizzate nel 2013, suggellandole e ampliando così ancora una volta i confini del diritto di difesa dei detenuti sottoposti al regime di carcere duro che, per effetto degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, hanno oggi la possibilità di comunicare più agevolmente e liberamente con il proprio difensore.
Mettendo a confronto la previsione di un numero massimo di colloqui, oggetto della sentenza n. 143 del 2013, e la procedura di sottoposizione a visto della corrispondenza, oggetto della sentenza n. 18 del 2022, è la stessa Consulta a sottolineare che in quest’ultimo caso le motivazioni che avevano condotto alla declaratoria di illegittimità nel 2013 appaiono addirittura rafforzate, essendo al cospetto di una limitazione ancora più grave del diritto di difesa, che risulta completamente annullato dalla prevista possibilità di trattenere definitivamente la corrispondenza (e non quindi semplicemente ristretto dalla previsione di un limite numerico).
Ciò ha particolare valore – secondo la Corte – se si pensa ai detenuti meno abbienti rispetto ai quali lo scambio di corrispondenza con il proprio avvocato potrebbe essere l’unico prezioso mezzo per esercitare le proprie facoltà difensive, nel caso in cui manchi appunto la possibilità economica di sostenere i costi connessi alla trasferta[12].
Per effetto della pronuncia in commento, quindi, la dimensione normativa del diritto di difesa dei detenuti pericolosi in regime di carcere duro risulta ad oggi più estesa.
8. Un punto importante che occorre evidenziare riguarda l’ammissibilità della questione: la Corte, infatti, in tale occasione ritiene di poter intervenire pur riconoscendo espressamente l’esistenza di un’interpretazione costituzionalmente orientata, autorevolmente sostenuta dalla dottrina[13] e regolarmente praticata non solo dalla giurisprudenza[14] ma anche dalla stessa amministrazione penitenziaria.
Ed infatti, come ricorda la Corte stessa, nella circolare DAP n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017 intitolata «Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis O.P.» viene espressamente stabilito che “v’è tassativo divieto di sottoporre a limitazioni e/o controlli la corrispondenza cd. “per giustizia”, ovvero la corrispondenza indirizzata ai soggetti indicati nel comma 5 dell’art. 103 del codice procedura penale” – tra cui rientrano i difensori –, nonché a tutte le autorità indicate nell’art. 35 delle relative norme di attuazione.
L’intervento della Consulta sembra essere in ogni caso la via più efficace per arginare definitivamente quell’interpretazione, sostenuta dal giudice a quo e comunque praticabile da un punto di vista letterale, che poteva condurre a risultati non condivisibili per ciò che concerne la tutela e l’esercizio del fondamentale diritto di difesa[15].
Riteniamo, quindi, che la Corte – pur consapevole della praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme – abbia deciso di intervenire in ragione della rilevanza del fondamentale diritto di difesa, riportando così, una volta per tutte, nell’alveo della legittimità costituzionale le limitazioni previste dall’art. 41-bis co. 2-quater ord. pen.
Per effetto di tale pronuncia, quindi, non possono sussistere dubbi circa il fatto che la corrispondenza “intrattenuta con i difensori”, una volta accertata l’effettività della nomina, debba andare esente da controlli da parte delle autorità penitenziarie[16].
9. Ma vi è un ulteriore passaggio della motivazione che merita di essere sottolineato in fase di commento, poiché ritenuto dalla Corte determinante ai fini della declaratoria di illegittimità dell’art. 41-bis co. 2 quater lett. e): tale norma, a parere della Corte, è illegittima non solo perché risulta inidonea rispetto allo scopo per cui è stata introdotta, ma anche perché è basata su un’intollerabile presunzione di collusione tra difensore e associazione criminale cui appartiene il suo assistito.
Anche questo punto era stato già affrontato nella sentenza n. 143 del 2013 e, ora come allora, la Corte – aderendo alle considerazioni svolte dall’associazione “Italiastatodidiritto” in qualità di amicus curiae – ha ritenuto che, sebbene non possa escludersi a priori la sussistenza di un rapporto illecito tra difensore e associazione criminale, tuttavia questa ipotesi non può essere assunta a regola di esperienza tradotta in una disposizione normativa, finendo così per parificare il difensore, custode di un diritto fondamentale di ogni individuo e tenuto all’osservanza di un codice deontologico, ad altre figure parentali non qualificate (rispetto alle quali la presunzione appare razionale e giustificata).
In altri termini, secondo la Consulta, non può nutrirsi un legittimo sospetto nei confronti di una figura professionale, quale il difensore, che, diversamente dagli altri soggetti, è tenuto al rispetto di specifici doveri comportamentali relativi all’etica professionale.
La Corte, in definitiva, rifiuta una siffatta presunzione, stabilendo un migliore equilibrio tra valori destinati inevitabilmente a entrare in conflitto tra loro: da un lato, il diritto di difesa tecnica, dall’altro, le esigenze di sicurezza sociale.
[1] Cfr. par. 3 del considerato in diritto;
[2] Vengono, in particolare, richiamate alcune pronunce della Cassazione che avevano affermato la legittimità dei controlli sulla corrispondenza in casi in cui non erano state rispettate le formalità previste per il corretto invio della corrispondenza di giustizia, ritenendo implicitamente illegittimo tale controllo risulta nel caso in cui le predette formalità risultino invece rispettate: Cass., sez. I, sent. 22 giugno 2020, n. 23820; Cass., sez. I, sent. 20 febbraio 2019, n. 21737; Cass., sez. I, sent. 28 febbraio 2019, n. 27571;
[3] Cfr. par. 3 del considerato in diritto;
[4] Cfr. par. 4.1. del considerato in diritto; la Corte costituzionale richiama sul punto le sue precedenti pronunce relative al tema delle comunicazioni tra detenuto e difensore: sentenze n. 18 del 1982, n. 232 del 1989, n. 216 del 1996, n. 212 del 1997;
[5] Per quanto concerne la giurisprudenza convenzionale, vengono richiamate, in relazione all’art. 8 CEDU le sentenze 25 marzo 1992, Campbell c. Regno Unito, par. 54, nonché, la sentenza 24 maggio 2018, Laurent c. Francia, par. 49; in relazione all’art. 6, par. 3, lettera c), le sentenze 20 giugno 1988, Schönenberger e Durmaz c. Svizzera, par. 29, la sentenza 21 febbraio 1975, Golder c. Regno Unito, par. 45, la sentenza 28 novembre 1991, S. c. Svizzera, par. 48, la sentenza 27 novembre 2007, Zagaria c. Italia, par. 36, la sentenza della Grande camera 12 maggio 2005, Öcalan c. Turchia, parr. 133 e 135; la sentenza 30 gennaio 2007, Ekinci e Akalin c. Turchia, paragrafo 47;
[6] La Corte richiama, in particolare, la Raccomandazione R (2006)2 del Consiglio d’Europa sulle “Regole penitenziarie europee”, adottata dal Comitato dei Ministri l’11 gennaio 2006, e la Regola 61 delle “United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of prisoners” (cd. “Mandela Rules”), adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 2015;
[7] Cfr. par. 4.3. del considerato in diritto
[8] La Corte richiama, in particolare, le sentenze n. 97 del 2020, n. 197 del 2021, n. 186 del 2018, n. 376 del 1997 e n. 351 del 1996
[9] Cfr. par. 4.4.2. del considerato in diritto;
[10] Cfr. C. Cost. sent. 143 del 2013, par. 7 del considerato in diritto, con nota di F. Fiorentin, Regime speciale del 41-bis e diritto di difesa: il difficile bilanciamento tra diritti fondamentali, in Giur. Cost., fasc. 3, 2013, pag. 2180; con nota di M. Ruotolo, Le irragionevoli restrizioni al diritto di difesa dei detenuti in regime di 41-bis., in Giur. Cost., fasc.3, 2013, pag. 2176D;
[11] Cfr. C. Cost. sent. 143 del 2013, par. 7 del considerato in diritto;
[12] Cfr. par. 4.4.2. del considerato in diritto;
[13] Cfr., sul punto, le considerazioni di A. Della Bella, Il "carcere duro" tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del regime detentivo speciale ex art. 41 bis o.p., Giuffrè, 2013, pagg. 250 ss; M. Ruaro – C. Santinelli, Art. 18-ter ord. pen., in F. Della Casa – G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, Cedam, 2017, pagg. 289 ss; L. Cesaris, Art. 41-bis ord. pen., in F. Della Casa – G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, Cedam, 2017, pagg. 555 ss;
[14] Cfr. Cass., sez. I, sent. 22 giugno 2020, n. 23820; Cass., sez. I, sent. 20 febbraio 2019, n. 21737; Cass., sez. I, sent. 28 febbraio 2019, n. 27571;
[15] Per considerazioni critiche sulla tecnica decisoria impiegata dalla Corte costituzionale in tale occasione, si rinvia a M. Ruotolo, Visto di censura della corrispondenza e diritto di difesa. Un esito nella sostanza condivisibile, raggiunto con una discutibile tecnica decisoria, in Diritto di difesa, 4 marzo 2022. Secondo l’A., la motivazione utilizzata dalla Corte rischia di “contraddire il consolidato orientamento per cui l’incostituzionalità è sempre extrema ratio, espressiva del fallimento dell’interpretazione, da riservare all’ipotesi in cui la “lettera” o il “diritto vivente” oppongano una resistenza davvero insuperabile ad una lettura conforme a Costituzione, impedendo il ricorso alla decisione interpretativa di rigetto”.
[16] Nel dispositivo della sentenza si fa infatti genericamente riferimento alla corrispondenza “intrattenuta con i difensori”, nozione in cui dovrebbero rientrare tanto la corrispondenza inviata dal detenuto al proprio difensore, quanto quella ricevuta dal detenuto. Se, per la corrispondenza in uscita, la verifica formale può essere effettuata dalla direzione dell’istituto, per quanto concerne la corrispondenza in entrata tale verifica è rimessa al Consiglio dell’ordine di appartenenza, cui deve rivolgersi il difensore per l’identificazione; cfr, sul punto, le considerazioni di M. Ruotolo, Visto di censura della corrispondenza e diritto di difesa, cit., e di M. Brucale, 41-bis e corrispondenza con il difensore, in Questione Giustizia, 22 marzo 2022.