Corte cost., sent. 13 gennaio 2022, n. 2, Pres. Coraggio, Red. Viganò
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1. Il caso giudiziario sullo sfondo. – Con la sentenza n. 2 del 2022, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sul delicatissimo tema dei rapporti tra giudizio di cognizione e fase di esecuzione della pena, esaminandone le possibili interferenze dallo specifico angolo visuale della rilevabilità, post iudicatum, di eventuali cause di invalidità che abbiano colpito il procedimento cognitivo.
Per l’esattezza, il nucleo centrale della questione scrutinata risiede nella “verifica di fattibilità”, in sede di esecuzione, del controllo giurisdizionale inteso a dichiarare la nullità assoluta della sentenza (ormai) definitiva, che abbia messo capo ad un processo celebrato dinanzi al giudice funzionalmente incompetente.
Retroscena processuale dell’interpello di costituzionalità è, infatti, una vicenda giudiziaria, il cui protagonista, imputato minorenne al momento del fatto, era stato giudicato di fronte al Tribunale ordinario di Bologna, anziché con le forme e i modi stabiliti dal d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, per il rito di competenza funzionale del Giudice specializzato in materia minorile.
Simile investitura della cognizione, in capo all’organo giurisdizionale comune, aveva comportato un vero e proprio “sviamento” della procedura di verifica della regiudicanda dai binari propri della giurisdizione processuale speciale. Basti solo dire che la sentenza di condanna per l’imputazione del delitto di traffico di sostanze stupefacenti veniva, nella fattispecie, emessa con le modalità semplificate del patteggiamento, quale rito alternativo fruibile dinanzi alla Magistratura ordinaria e, precluso, viceversa, nei procedimenti di competenza del Tribunale per i Minorenni.
Anche in considerazione di ciò, la difesa del condannato – individuo straniero sprovvisto di documenti di riconoscimento all’atto del primigenio arresto per l’imputazione contestata – non aveva indugiato ad esperire ricorso per Cassazione avverso la pronuncia ai sensi dell’art. 444 c.p.p. Se ne deduceva, infatti, già in quella sede, la nullità assoluta per incompetenza funzionale del Tribunale ordinario, essendo stati successivamente raccolti i documenti identificativi comprovanti la minore età dell’imputato all’epoca dei fatti.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso faceva, però, passare in giudicato la sentenza di condanna alla pena di anni due di reclusione congiunta a multa, la cui esecuzione, in origine condizionalmente sospesa, veniva ordinata dal pubblico ministero, per effetto della revoca del beneficio sospensivo, a seguito della commissione infra-quinquennale di ulteriori delitti da parte del reo.
Di qui, l’entrata in scena del giudice dell’esecuzione, al quale il condannato stesso, ristretto in carcere, in espiazione della pena lui inflitta, chiedeva di suo pugno il «rifacimento del processo e lo scalaggio dei due anni dal cumulo n. 773/18 SIEP finché non avr[à] un giusto processo dal Trib. dei minori». Una istanza, quest’ultima, tradotta, d’ufficio, dall’organo esecutivo, nella questione di costituzionalità dell’art. 670 c.p.p., su cui la Consulta si è, appunto, pronunciata con la sentenza in esame.
2. I dubbi del giudice remittente. – Due le premesse significative alla base dell’interpello costituzionale avanzato dal giudice a quo: attengono alla impossibilità di ricavare tanto dal dato testuale dell’art. 670 c.p.p. quanto dalla relativa interpretazione giurisprudenziale, il potere-dovere del giudice dell’esecuzione «di dichiarare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione [in sede cognitiva] della competenza funzionale del Tribunale per i Minorenni».
Per un verso, il senso fatto palese dalla lettera della disposizione censurata, alludendo espressamente alle sole questioni concernenti la mancanza e il difetto di esecutività del titolo sanzionatorio, impedirebbe di leggervi ulteriori spazi operativi per un controllo giurisdizionale, a ritroso, sulla validità degli atti compiuti «nel corso del processo di cognizione in epoca precedente al passaggio in giudicato della sentenza». Per altro verso, la stessa giurisprudenza più recente[1], concorde nel ritenere preclusa all’organo esecutivo la facoltà di rilevare, ex post, l’occorrenza di nullità anche assolute del giudizio di merito, osterebbe ad aperture interpretative di segno contrario.
Ambedue gli ostacoli, testuale ed ermeneutico, svelano, nella prospettiva del remittente, ampi squarci di incostituzionalità.
Risulterebbero violati, anzitutto, i princìpi della Carta fondamentale, relativi alla specifica vicenda attenzionata.
La preclusione a rilevare, in executivis, il vizio di nullità per inosservanza della competenza funzionale del Tribunale per i Minorenni lederebbe l’art. 3 Cost., «in ragione dell’assoggettamento alla medesima disciplina di situazioni non assimilabili, quali le ipotesi di nullità per violazione di norme sulla competenza maturate nel giudizio per i maggiorenni e la nullità sulla violazione della competenza funzionale stabilita per i minorenni dall’art. 3 del d.P.R. n. 448 del 1988». In quest’ultimo caso, infatti, l’aggiramento della procedura speciale determinerebbe, in danno dell’imputato, effetti pregiudizievoli di incommensurabile gravità, essendo il minore, per tale via, sottratto a tutti i benefici, processuali e sanzionatori, previsti dalla normativa complementare a tutela della propria personalità. Ciò che provocherebbe ulteriori ricadute anticostituzionali sul fronte dell’art. 10 Cost., risultando disobbedite le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, le quali preservano l’interesse superiore del minore, anche attraverso «il minimo ricorso alla carcerazione e con strumenti di fuoriuscita dal processo per evitarne l’effetto stigmatizzante».
Più in generale, poi, la disposizione censurata contrasterebbe con le garanzie primarie desumibili dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU, quale norma interposta rispetto al parametro di costituzionalità dell’art. 117 Cost. Nella logica di sacrale inviolabilità del diritto alla libertà personale ivi patrocinata, andrebbe, pertanto, ricompresa l’esigenza di valutare, in ogni momento, la legalità della detenzione eventualmente imposta al condannato. A tal fine, occorrerebbe garantire un controllo giurisdizionale prolungato rispetto alla irrevocabilità della pronuncia, dipendendo la legittimità stessa della condizione detentiva dalla legalità della statuizione di condanna che ne costituisce il fondamento.
Ed ecco qui il sospetto di incostituzionalità nutrito in proposito dal giudice a quo: la formulazione normativa dell’art. 670 c.p.p. denoterebbe una scelta che, invece, sacrifica «sull’altare del giudicato la libertà personale del condannato e il suo diritto a far accertare la legalità della propria detenzione».
Residuerebbe, infine, anche un dubbio di compatibilità rispetto al principio costituzionale cristallizzato nell’art. 25, comma 1, Cost. Agli occhi del rimettente, l’impedimento, per l’organo esecutivo, di subentrare nel controllo postumo sulla legalità dell’attribuzione di competenza funzionale al Tribunale specializzato equivarrebbe, di fatto, a tollerare l’esecuzione di una pena incostituzionale, giacché inflitta all’imputato minorenne da un giudice diverso da quello naturale precostituito per legge.
3. Le certezze della Corte costituzionale. – Nessuna di simili censure ha, però, centrato il bersaglio.
Nel rigettare tutte le questioni di legittimità sollevate, la Consulta ha espresso il proprio dissenso rispetto ad un eventuale impiego dell’istituto disciplinato dall’art. 670 c.p.p. quale rimedio estremo per sancire l’invalidità della sentenza pronunciata all’esito del giudizio di cognizione.
A questo approdo, il Giudice delle leggi è pervenuto mediante un articolato tragitto argomentativo che funge da unità di misura della stessa tipologia decisoria adottata nella fattispecie in esame.
La pronuncia di una declaratoria di infondatezza “semplice” implica, infatti, in motivazione, un impegno dimostrativo gravoso, direttamente proporzionale alla circostanza che il predetto dispositivo non certifica uno status di conformità assoluta a Costituzione della norma scrutinata, la quale ben può essere nuovamente sottoposta al sindacato di costituzionalità con riferimento a parametri o profili diversi da quelli in precedenza dedotti[2].
Non è casuale, del resto, che la Consulta, mostrandosi sensibile alle ragioni del remittente, abbia pure sottoscritto espressamente che il caso oggetto di scrutinio «evidenzia in modo emblematico le gravi conseguenze»[3] cui si può andare incontro ogni qualvolta venga violata la regola attributiva della competenza funzionale in capo al Tribunale per i Minorenni. Al punto da rendere legittimo l’interrogativo se la natura costituzionalmente vincolata di tale competenza «imponga [o meno] il travolgimento del giudicato in sede di incidente di esecuzione»[4].
Sul piano morale, la soluzione affermativa proposta al riguardo dal giudice a quo onora, secondo la Corte, il suo stesso monito «ad evitare, nell’esercizio della giurisdizione penale, ogni pregiudizio al corretto sviluppo psicofisico del minore e di adottare le opportune cautele per salvaguardare le correlate esigenze educative»[5]. Ciò, tuttavia, non autorizza ad accogliere, sul piano tecnico, la tesi patrocinata dal remittente poiché «forier[a] di gravi squilibri nel sistema di rilevazione delle nullità, così come disegnato dal codice di procedura penale»[6].
Per conferire consistenza all’assunto, il ragionamento costituzionale ripercorre l’architettura tassativa della disciplina in tema di vizi degli atti processuali, da un lato, e la fisionomia delle ipotesi di erosione del giudicato penale, dall’altro lato.
Sotto il primo profilo, il percorso argomentativo della sentenza n. 2 del 2022 si incentra sul ruolo ordinatore, esercitato, nel sistema, dal principio di tassatività di cui all’art. 177 c.p.p. Esso, conferendo al legislatore il “monopolio” circa la previsione sia delle comminatorie di nullità, sia delle inosservanze che la comminatoria stessa intende censurare[7], denota un chiaro sfavore sistematico per operazioni analogiche che tendano ad affiancare ulteriori cause di nullità a quelle espressamente previste[8]. Al fondo di simile impostazione normativa – sono parole della Corte – vi è, infatti, un «delicato bilanciamento che coinvolge, tra l’altro, la necessità di tutelare in maniera effettiva i diritti processuali dell’imputato e l’esigenza di assicurare la capacità del processo medesimo di pervenire, entro un termine ragionevole, ad accertamenti in linea di principio definitivi, anche relativamente alla sussistenza di eventuali errores in procedendo nelle fasi e gradi precedenti»[9].
Nella stessa prospettiva, andrebbero colte anche le tre classificazioni normative intese a graduare regime, effetti e possibili sanatorie delle nullità processuali contemplate dal codice di rito.
Ad avviso della Consulta, la triplice distinzione fra nullità assolute, intermedie e relative, i cui termini finali di deducibilità variano dal “minimo” stadio delle conclusioni rassegnate in udienza preliminare o delle questioni preliminari al dibattimento (art. 180 c.p.p.) al “massimo” temporale della rilevabilità possibile «in ogni stato e grado del procedimento» (art. 179 c.p.p.), conferma ulteriormente che l’intero sistema gravita attorno ad «una regola implicita di chiusura»[10]. Vale a dire, quella per la quale la pronuncia che metta definitivamente capo alla fase di cognizione osta, non solo, a denunziare, per la prima volta, eventuali nullità verificatesi nel corso del procedimento, bensì anche a riproporre ulteriormente la questione dopo aver esperito gli ordinari rimedi impugnatori predisposti dall’ordinamento fino al termine della vicenda processuale.
Sotto il secondo profilo considerato, relativo alla concezione recessiva del giudicato penale rispetto a valori fondamentali della persona, reputati prevalenti dalla giurisprudenza degli ultimi anni[11], la Corte costituzionale ha posto, con fermezza, le distanze fra un simile fenomeno di superamento della firmitas iudicati e l’eventuale rimozione del giudicato stesso per effetto della declaratoria di nullità degli atti ad esso antecedenti nella serie procedimentale.
Nell’un caso, l’opera pretoria, intesa ad ampliare gli spazi di intervento dell’organo esecutivo sulla decisione ormai irrevocabile concerne, pur sempre, «l’ipotesi di sopravvenienze costituzionalmente rilevanti successive al giudicato, che proiettino retrospettivamente una valutazione di illegittimità costituzionale sulla pena inflitta nel giudizio di cognizione»[12]. Il riferimento è, ad esempio, al sopraggiungere di una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo che, avendo accertato la violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU, privi il titolo esecutivo di una idonea base giuridica[13], nonché alla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice posta a fondamento della condanna ovvero di una disposizione normativa che disciplini il trattamento punitivo inflitto al condannato[14]. Simili evenienze – è vero – mettono in (perenne) crisi la stabilità concreta del giudicato, il cui comando sanzionatorio si presta ai rimaneggiamenti necessari per «garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo»[15]. Esse, tuttavia, ponendosi quali eventi accidentali ed “esterni” alla pronuncia irrevocabile[16], non ne sconfessano il tradizionale ruolo di suggello preclusivo delle questioni emerse nella singola procedura giurisdizionale[17].
Nell’altro caso, viceversa, proprio questo è il risultato che, secondo la Corte, si produce affidando al giudice dell’esecuzione il potere di annullare, per il tramite dell’art. 670 c.p.p., la sentenza definitiva colpita da un vizio processuale “interno” al relativo iter di formazione. A dispetto dell’immanente fondamento preclusivo del giudicato, che si concretizza nella perdita del potere di rilevare la situazione invalidante, in chiave con l’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche maturate col provvedimento finale[18], la facoltà, in capo all’organo esecutivo, di rescindere la decisione irrevocabile affetta da un vizio di procedura «spalancherebbe inevitabilmente la strada al riconoscimento di sempre nuove ipotesi di nullità resistenti al giudicato, con le quali chi sia stato condannato in via definitiva potrebbe rimettere in discussione accertamenti già compiuti nei successivi gradi di giudizio sulla sussistenza di vizi procedimentali»[19].
Né, per ovviare agli inconvenienti di un simile effetto a cascata, sarebbe possibile operare una sorta di selezione, pure suggerita dal remittente, dei soli errores in procedendo suscettibili di correzione in sede esecutiva, giacché implicanti una lesione dei diritti fondamentali dell’imputato. Sul punto, i giudici costituzionali sono, infatti, fermi nel sottolineare il preminente significato di garanzia del canone di legalità processuale, la cui inosservanza, sanzionata con la nullità degli atti, ridonda sempre «sul diritto alla difesa di cui all’art. 24 Cost., o comunque sui principi (e diritti fondamentali) inerenti al giusto processo di cui all’art. 111 Cost.».
4. Qualche residua obiezione alla sentenza. – Quest’ultimo asserto, da condividere senza riserve, nel suo inequivocabile riconoscimento di un preciso valore sostanziale al sistema delle invalidità processuali, non affranca, però, la sentenza in esame da alcune considerazioni di taglio critico. Esse, in particolare, vengono suggerite dal passaggio immediatamente successivo, nell’impianto motivazionale della decisione, ove i giudici costituzionali invocano «l’efficiente e, ragionevolmente spedito, funzionamento della giustizia penale», quale parametro imprescindibile per il vaglio di fondatezza della specifica questione scrutinata.
L’idea, già sostenuta di recente dalla Consulta con riferimento alla garanzia di oralità-immediatezza del dibattimento[20], è quella di dover necessariamente bilanciare l’esercizio effettivo dei diritti e delle facoltà processuali con l’interesse a salvaguardare, al contempo, l’efficacia e l’efficienza della giurisdizione.
Simile doveroso contemperamento– è quel che ritiene la Corte – sarebbe, nel caso di specie, assicurato «dalla presenza, nell’ordinamento italiano, di un articolato regime delle impugnazioni, comprensivo del ricorso per cassazione»[21]. La possibilità di rilevare, fino al terzo grado di giurisdizione, la nullità della sentenza per inosservanza della competenza funzionale del Tribunale per i Minorenni, consentirebbe di preservare il risultato finale del processo, garantendo, per tale via, una tutela equilibrata dei diritti dell’imputato e del canone di efficienza della giustizia.
A prescindere dal carattere, già in assoluto discutibile, di una opzione compromissoria tra garanzie individuali ed efficacia della risposta giudiziaria, sul perseguimento concreto di un tale equilibrio, nella specifica situazione in esame, sia, però, concesso di dubitare.
L’erronea celebrazione del processo di fronte al Tribunale ordinario, anziché al cospetto del Giudice specializzato implica, per l’imputato che la subisca, una perdita secca e totale di ognuna delle facoltà processuali contemplate dal rito minorile. Qui, la differenziazione del trattamento da riservare all’accusato, fondandosi sulla specificità della condizione giovanile, si traduce, infatti, nella opportunità, per l’imputato stesso, di accedere ad istituti e strumenti giuridici di favore rivolti soprattutto a colmare un deficit educativo in capo al minore[22]. Basti porre mente, in proposito, alla concessione, in udienza preliminare, del beneficio del perdono giudiziale (art. 169 c.p.) ovvero ai meccanismi di diversion in caso di irrilevanza del fatto (art. 32 d.P.R. n. 488 del 1988) e affidamento in prova del minore ai servizi sociali (artt. 28 e 29 d.P.R. n. 488 del 1988), il cui impiego, se non del tutto sconosciuto al rito degli adulti, si presenta, in quest’ultimo contesto, assoggettato a condizioni e termini assai più stringenti per la difesa dell’imputato.
Ne deriva, pertanto, che l’inosservanza della regola attributiva di competenza funzionale al Tribunale specializzato comporta un tale azzeramento delle garanzie difensive tipiche del rito minorile che, proprio per questo, ne impedisce qualsiasi reale operazione di dosaggio rispetto alle finalità di economia e speditezza delle procedure.
A ben vedere, piuttosto, la compromissione integrale così provocata ai diritti processuali dell’imputato minorenne è in grado di configurare gli estremi del vizio di radicale inesistenza della pronuncia emessa in violazione della predetta regola di competenza funzionale. Sul punto, sembra replicabile l’acuta osservazione, operata in dottrina alla luce dell’art. 111, comma 1, Cost., secondo cui una procedura non conforme ai canoni del giusto processo, per essa stabiliti dalla legge, sarebbe inidonea ad esprimere la funzione giurisdizionale e, dunque, «partorirebbe un atto (sentenza) giuridicamente inesistente, come nel classico esempio della decisione emessa dal non giudice»[23].
Il che, per quanto in questa sede interessa, equivarrebbe a sdoganare il controllo sul titolo esecutivo dagli angusti limiti del principio di tassatività, cui la categoria di inesistenza dell’atto «sfugge per definizione»[24]. Conseguentemente, il giudice dell’esecuzione potrebbe rilevare la sussistenza di una patologia della sequenza procedimentale anche oltre lo sbarramento del giudicato.
Certo, lo scenario appena tratteggiato sconta, nella pronuncia in esame, la premessa interpretativa sostenuta dallo stesso organo remittente, per cui la fattispecie oggetto di censura non sarebbe ascrivibile al novero delle ipotesi di inesistenza giuridica del titolo esecutivo. Un «presupposto ermeneutico»[25] del quale, come si legge nella decisione, la Corte costituzionale non ha potuto che prendere atto ai fini dello scrutinio di legittimità ad essa demandato.
Tuttavia – lo si è accennato in esordio – l’epilogo decisorio qui rassegnato nelle forme della (mera) infondatezza semplice della questione lascia aperta la strada per riproporre in termini diversi l’interpello di costituzionalità, di modo che, rispetto ad una violazione assoluta dei diritti della persona coinvolta nel processo, non possa esservi giudicato che tenga.
[1] Cass., Sez. V, 8 giugno 2017, n. 28627, in CED Cass., rv. 270237; Id., Sez. III, 28 dicembre 2016, n. 54996, ivi, rv. 268706.
[2] Risiede in ciò il fondamentale discrimine tra le declaratorie di infondatezza “semplice” e “manifesta”. Con quest’ultimo dispositivo, la Corte ribadisce, infatti, una precedente dichiarazione di non fondatezza della questione o l’evidente assegna di ragionevole elemento a sostegno del dubbio di incostituzionalità sollevato. Cfr., per tutti, P. Calamandrei, Corte costituzionale e autorità giudiziaria, in Riv. dir. proc., 1956, p. 150.
[3] Corte cost., sent. 13 gennaio 2022, n. 2, cit., in motivazione.
[4] Ibidem.
[5] In questi termini, Corte cost., sent. 22 gennaio 2015, n. 1, in Giur. cost., 2015, p. 1 ss.
[6] Corte cost., sent. 13 gennaio 2022, n. 2, cit., in motivazione.
[7] In questo senso, T. Rafaraci, voce Nullità, in Enc. dir., Agg. II, Giuffrè, Milano, 1998, p. 599
[8] Cfr., ancora, T. Rafaraci, loc. ult. cit., p. 599. Analogamente, R. Aprati, Il principio di tassatività delle nullità, in A. Marandola (a cura di), Le invalidità processuali. Profili statici e dinamici, Utet, Torino, 2015, p. 75, secondo cui l’art. 177 c.p.p. opera quale «clausola generale esclusiva» che proibisce all’interprete di argomentare a similia.
[9] Cfr., per tutti, O. Dominioni, sub Art. 177, in E. Amodio-O. Dominioni (diretto da), Commentario del nuovo codice di procedura penale, Giuffrè, Milano, 1989, p. 257.
[10] Corte cost., sent. 13 gennaio 2022, n. 2, cit., in motivazione.
[11] Per una ricostruzione del fenomeno, sia consentito rinviare a F. Centorame, La cognizione penale in fase esecutiva, Giappichelli, Torino, 2018, spec., p. 51 ss.
[12] Corte cost., sent. 13 gennaio 2022, n. 2, cit., in motivazione.
[13] Sul tema, ampiamente, B. Lavarini, Il sistema dei rimedi post-iudicatum in adeguamento alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, Rubbettino, Torino, 2019, passim.
[14] Un ulteriore tassello della giurisprudenza costituzionale in subiecta materia è offerto, di recente, da Corte cost., sent. 16 aprile 2021, n. 68, in Sistema penale, 20 aprile 2021, con osservazioni di M. Scoletta, La revocabilità della sanzione amministrativa illegittima e il principio di legalità costituzionale della pena.
[15] Testualmente, Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2013, Ercolano, in CED Cass., rv. 258649.
[16] In questo senso, cfr. L. Marafioti, Itinerari nuovi e residue incertezze nel sindacato giurisdizionale sull’errore di diritto dopo il giudicato, in L. Lupária-L. Marafioti-G. Paolozzi (a cura di), Errori giudiziari e background processuale, Giappichelli, Torino, 2017, p. 146.
[17] È il fondamentale insegnamento di G. Chiovenda, Cosa giudicata e preclusione, ora in Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), vol. III, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 235-236, per il quale, «la cosa giudicata ha sempre la sua base in una preclusione: essa presuppone – attraverso la preclusione della impugnabilità del deciso – la preclusione della questionabilità del diritto».
[18] In questo senso, di recente, R. Del Coco, La regressione degli atti nel processo penale, Giappichelli, Torino, 2020, p. 13.
[19] Così, Corte cost., sent. 13 gennaio 2022, n. 2, cit., in motivazione.
[20] Il noto riferimento è a Corte cost., sent. 29 maggio 2019, n. 132, in Giur. cost., 2019, p. 1543.
[21] Sono sempre le parole di Corte cost., sent. 13 gennaio 2022, n. 2, cit.
[22] In questo senso, A. Presutti, Evoluzione e caratteri fondanti del sistema, in M. Bargis (a cura di), Procedura penale minorile, Giappichelli, Torino, 2021, p. 32.
[23] In questi termini, O. Mazza, L’esecuzione può attendere: il caso Dorigo e la condanna ineseguibile per accertata violazione della Cedu, in Giur. it., 2007, c. 2639.
[24] Così, N. Galantini, voce Vizi degli atti processuali penali, in Dig. disc. pen., vol. XV, Utet, Torino, 1999, p. 346.
[25] Corte cost., sent. 13 gennaio 2022, n. 2, cit., in motivazione.