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01 Aprile 2022


Inammissibile il quesito sull'omicidio del consenziente: tutela minima della vita o conferma del dovere di vivere?


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1. Nella sentenza n. 50/2022 del 15/02/2022, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p., che avrebbe avuto l’effetto di depenalizzare, ad esclusione dei casi previsti nel comma III dello stesso articolo, l’omicidio del consenziente. Come è già emerso dal comunicato stampa della Corte pubblicato lo scorso 15 febbraio, il quesito è stato dichiarato inammissibile perché, a seguito dell’abrogazione, sarebbe venuta meno “la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”[1].

Dopo aver ripercorso, nel Ritenuto in fatto, le argomentazioni addotte dai promotori del referendum, il Giudice delle Leggi, richiamati i criteri di ammissibilità elaborati dalla sua giurisprudenza,[2] si volge ad analizzare la fattispecie incriminatrice in parola e la contigua disposizione di cui all’art. 580 c.p. (che incrimina l’istigazione o aiuto al suicidio)[3]. Se ne evidenzia, nel solco della c.d. doppia pronuncia del caso Cappato (ord. n. 207/2018 e sent. n. 242/2019), la funzione di “cintura protettiva” rispetto a scelte operate dal soggetto passivo in proprio danno: le norme inibirebbero così ai terzi di cooperare in atti suicidari o di cagionare la morte di taluno con il suo consenso. Entrambe le norme, comunque, accreditano “il bene della vita umana del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare”, pur mitigando, salvo determinate ipotesi di soggetti particolarmente vulnerabili, il trattamento sanzionatorio in considerazione del “ritenuto minor disvalore del fatto”[4].

In piena continuità concettuale con la doppia pronuncia sopra richiamata (ed in particolare con l’ord. n. 207/2018), la Corte adotta una lettura esegetica in chiave personalista di una norma concepita nell’alveo di un ordinamento autoritario: se il legislatore fascista tutelava la vita umana “come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini”[5], nel mutato quadro di principi costituzionali la ratio della norma si trasformerebbe identificandosi nella protezione della persona umana come fine e valore in sé, non già come strumento di soddisfazione di interessi collettivi, nonché, specificamente, nella tutela delle persone più fragili e vulnerabili da scelte autodistruttive. Si cercherà di dimostrare nel prosieguo del lavoro che una simile ricostruzione della norma (rectius, delle norme, ove si consideri anche l’art. 580, oggetto dell’“ordinanza Cappato”) non può essere accolta: basti per intanto anticipare come in un ordinamento che si ispiri a principi personalistici, e prima ancora non illiberali, si debba sempre poter distinguere, in maniera chiara, la sfera della protezione dalla sfera della pura coazione e doverosità. Tale distinzione, come si vedrà, non sembra potersi tracciare nella posizione della Corte.  

 

2. L’esame del quesito referendario si articola, fondamentalmente, in due passaggi concettuali: anzitutto si sottolinea il risultato obiettivo cui esso mira e che si conseguirebbe in caso di approvazione, ossia, per usare le parole della Corte, la “liberalizzazione” dell’omicidio del consenziente al di fuori dei casi “in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione” (cioè, ex art. 579, comma III, quando il soggetto passivo sia un minore, un infermo di mente o un soggetto che si trovi in condizioni di deficienza psichica derivante da infermità o da abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti e quando il suo consenso sia frutto di violenza, minaccia, suggestione o inganno ad opera dell’agente).

Tale effetto “liberalizzante” non sarebbe, sostiene la Corte, “circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili”, ma si estenderebbe “anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae [corsivo aggiunto], ovvero a pure scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui”; irrilevanti sarebbero la qualità rivestita dall’agente, i motivi che ne sorreggono la condotta, i mezzi da questi usati per porla in essere e le forme di manifestazione del consenso, eventualmente anche “prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione”[6]. Vale la pena di notare che, alla luce della rigorosissima giurisprudenza di legittimità, richiamata nel Ritenuto in fatto dalla stessa Corte, in tema di consenso ex art. 579 c.p., almeno a livello processuale tutti questi elementi testé elencati non sarebbero affatto irrilevanti, perché influirebbero pesantemente sul piano probatorio, rendendo più o meno credibile la sussistenza del consenso del soggetto passivo: a voler tutto concedere, dunque, la “liberalizzazione” opererebbe esclusivamente sul binario dell’astratta tipicità della fattispecie, ma non su quello delle concrete vicende in essa sussumibili.

Nulla poi, secondo la Corte, “autorizzerebbe a ritenere che l’esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della ‘procedura medicalizzata’”[7] di cui alla legge n. 219/2017, eventualmente integrata dalla sentenza n. 242/2019, essendo irrilevanti, in tal senso, i meri intenti dei promotori. Chi, quindi, operasse una scelta autodistruttiva in una condizione di vulnerabilità non ricompresa nel terzo comma dell’art. 579, o, in assenza di una simile condizione, comunque senza averla adeguatamente ponderata, non troverebbe, a giudizio della Corte, alcuna protezione da parte dell’ordinamento[8]. Se però, come il Giudice delle Leggi non ha mai negato, la Corte di Cassazione ha da sempre (o almeno, secondo una autorevole ricostruzione[9], nell’ultimo quarto di secolo) escluso, per le più svariate ragioni, la concreta sussistenza del consenso ex art. 579 c.p., proprio siffatta giurisprudenza autorizzerebbe, in realtà, a ritenere che nella concreta realtà di fatto, in buona sostanza, l’unica modalità di prestazione del consenso che possa venire in rilievo sia proprio quella della procedura medicalizzata di cui alla legge 219/2017 e alla sentenza 242/2019. Quand’anche così non fosse, ne deriverebbe solamente un margine di incertezza sulla latitudine applicativa da attribuirsi al consenso: dovrebbe allora rimediare il legislatore o, in un futuro giudizio, la stessa Corte costituzionale, poiché per costante giurisprudenza costituzionale semplici lacune o disarmonie non costituiscono di per sé causa di inammissibilità. Questo primo passaggio della Corte, dunque, non pare rivelarsi probante ai fini dell’inammissibilità del quesito referendario.

 

3. Il cuore della pronuncia in commento è però il secondo passaggio: la Corte individua, nella parte dell’art. 579 che i promotori intendevano abrogare, una legge costituzionalmente necessaria (non quindi, costituzionalmente vincolata, contenente cioè l’unica possibile attuazione di un disposto costituzionale), poiché la sua eliminazione priverebbe totalmente di efficacia il valore costituzionale della vita, lasciando quest’ultima priva della tutela minima richiesta dalla Costituzione[10]. La norma in questione (così come le altre norme costituzionalmente necessarie) potrebbe allora essere solo modificata o sostituita dal legislatore, ma non “puramente e semplicemente” abrogata, perché, essendo in gioco due interessi costituzionalmente rilevanti[11], vale a dire la libertà di autodeterminazione e il bene-vita, si renderebbe sempre costituzionalmente necessario un loro bilanciamento ad opera di una legge, non potendo la prima “prevalere incondizionatamente” sul secondo[12].

La tesi di fondo che sorregge questo secondo passaggio è quindi che il nucleo minimo di tutela del diritto alla vita costituzionalmente necessario si possa far salvo soltanto limitando l’autodeterminazione del titolare in ordine al proprio diritto alla vita e, per rimanere fedeli alle parole della Corte, operando un bilanciamento tra la prima ed il secondo. Il bilanciamento tra i due valori in gioco è dunque il perno attorno a cui ruota tutta la pronuncia e che conferisce alle disposizioni che lo attuino il crisma del carattere costituzionalmente necessario. Affinché le argomentazioni della Corte possano logicamente reggere è necessario che la parte oggetto della richiesta di abrogazione dell’art. 579 contenga un simile bilanciamento. Nessuna interpretazione della norma, tuttavia, rende possibile una simile conclusione, ed i primi a convenirne saranno proprio, paradossalmente, i principali sostenitori di questa sentenza: la norma che si intendeva abrogare non esprime alcun bilanciamento fra i valori in conflitto, ma sacrifica interamente l’autodeterminazione sull’altare della vita. È, né più né meno, la norma che esclude la disponibilità del diritto alla vita e l’applicazione dell’art. 50 c.p. E si badi: la riduzione sanzionatoria non ha nulla a che fare con il riconoscimento di un margine di autodeterminazione in capo al soggetto passivo, ma è solo indice del minor disvalore del fatto secondo una valutazione discrezionale del legislatore: il diritto rimane totalmente, e non parzialmente, indisponibile. Non vi è modo di comprendere come possa coesistere anche solo un rivolo di autodeterminazione con una totale indisponibilità[13].

Dopo l’abrogazione, non sarebbe venuto meno un bilanciamento preesistente; si sarebbe solo posto fine all’assolutezza di un divieto. Questo è un dato certo, sufficiente, da sé, a inficiare, sul piano della coerenza interna, la conclusione nel senso dell’inammissibilità cui la Corte perviene. L’inammissibilità starebbe in piedi, logicamente, soltanto se la Corte avesse dichiarato che il nucleo minimo di tutela del diritto alla vita coincide con il nucleo massimo, cioè con una assoluta e indiscriminata protezione. Ma non è questa l’impostazione fatta propria dalla Corte, né nella sentenza in commento né nella doppia pronuncia legata al caso Cappato.

Anche se la Corte avesse dichiarato non l’imprescindibilità di un bilanciamento (insussistente nell’attuale art. 579 c.p.), ma, semplicemente, che una prevalenza incondizionata dell’autodeterminazione sulla vita reca un totale pregiudizio a quest’ultima (e la Corte usa il corrispondente avverbio, affermando che l’autodeterminazione non possa prevalere incondizionatamente), ancora una volta non avrebbe potuto dichiarare, sulla base dei propri criteri, il quesito inammissibile. La prevalenza dell’autodeterminazione non sarebbe stata affatto, post-abrogazione, incondizionata: sarebbe rimasta condizionata dal comma III dell’art. 579, che appunto condiziona il riconoscimento della sussistenza di una sfera di autodeterminazione all’assenza di taluni fattori di vulnerabilità. Nemmeno, poi, tanto limitati: “suggestione” e “deficienza psichica” sono clausole di assoluta vaghezza, che la giurisprudenza intende in effetti con latitudine espansiva praticamente onnivora[14]: quasi a suggerire che chi consente alla propria morte e contravviene all’istinto biologico di sopravvivenza debba giocoforza aver prestato un consenso viziato. Come ben sostiene la Corte costituzionale, non sono certo tutti i possibili fattori che possano venire in gioco. Ciò può portare però solo, in un’ottica “indisponibilista”, a concludere nel senso della inopportunità o, al più, della incostituzionalità della normativa di risulta: è un piano diverso da quello dell’ammissibilità.

 

4. Né vale obiettare che nelle ipotesi del comma III dell’art. 579 sono disciplinati non i limiti all’autodeterminazione, ma solo i casi in cui non possa neppure davvero formarsi un’autentica autodeterminazione, come ad es. nell’ipotesi degli infanti o degli infermi di mente. L’art. 579 comma III copre infatti anche casi, sia pure non necessariamente esaustivi (ma ancora una volta, siamo sul piano dell’inopportunità/illegittimità costituzionale), in cui si sia formata una seria e matura autodeterminazione, la cui validità non viene tuttavia riconosciuta dall’ordinamento: si pensi, per fare un solo esempio, ad un colto e maturo diciassettenne, magari prossimo ai diciotto anni: davvero la sua autodeterminazione potrebbe ex se ritenersi giocoforza meno lucidamente formata rispetto a quella di un diciottenne sano di mente? Questo spiega che l’ordinamento avrebbe comunque, post-abrogazione, condizionato un’autodeterminazione anche perfettamente formatasi a precisi requisiti. Non vi sarebbe stata, evidentemente, incondizionatezza. Solo, al più, inidoneità delle condizioni (elemento che rileva sul piano del merito/di legittimità costituzionale). La Corte sembra testimoniare di esserne consapevole, scrivendo, con un piccolo lapsus freudiano, che “[d]iscipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a tutela della vita, non possono […] essere puramente e semplicemente abrogate”[15], ma solo “modificate o sostituite”[16]: l’art. 579 viene qui richiamato nella sua interezza, quando invece se ne chiede l’abrogazione solo parziale. L’abrogazione parziale è una modifica della norma, che dovrebbe essere quindi, secondo quando afferma la Corte, ammissibile[17].     

Nulla può essere concesso se, appellandosi alla teoria del piano inclinato, si guarda sempre al worst case scenario di qualunque concessione. Il “pregiudizio totale” e la “tutela minima” devono assumere quindi una dimensione non remotamente ipotetica e impalpabilmente astratta ma sistematica e concreta: sul piano sistematico il diritto alla vita è già presidiato da un’ampia serie di disposizioni normative (art. 575 ss.; artt. 580 e 579, nelle rispettive residue parti; art. 584; art. 586; art. 589 ss., da leggersi, peraltro, alla luce anche degli artt. 47, 55, e 59 c.p., che coprono il diritto alla  vita anche in presenza di errore evitabile o di eccesso colposo), ove si operano, come in (quasi…) tutte le norme, già molteplici bilanciamenti; sul piano concreto, la sopra riportata rigorosissima giurisprudenza in materia di consenso in ordine alla lesione del diritto alla vita conduce ad escludere reali prospettive di pregiudizi alla vita, a fronte, invece, di numerosissimi pregiudizi totali al diritto a liberarsi dalle proprie sofferenze di pazienti in attesa di una adeguata tutela, alla cui salvaguardia soltanto il risultato del referendum si sarebbe applicato.

L’ulteriore insidia, ancora, legata a possibili scelte (anche ad opera di persone non vulnerabili), per riprendere le parole della Corte, “non adeguatamente ponderate”[18] o frutto di “errore spontaneo e non indotto da suggestione”[19], non è insuperabile: quanto a quest’ultima ipotesi, è pacifico in giurisprudenza che il consenso, anche se ha ad oggetto diritti di rango ben inferiore a quello alla vita, dev’essere consapevole ed informato; a fortiori, se è in gioco il diritto alla vita, non potrebbe ritenersi validamente prestato un consenso non consapevole o non informato, cioè il consenso frutto di errore a cui la Corte si riferisce. Con riguardo invece all’adeguata ponderazione, si tratta di un requisito da desumersi secondo una lettura costituzionalmente orientata del consenso scriminante: è infatti pienamente ragionevole un’interpretazione tanto più rigorosa della validità del consenso, quando più alto è il rango del diritto in questione. Se del resto la giurisprudenza di legittimità ha adottato una ferrea linea di massimo rigore con riferimento al consenso puramente minorante di cui all’art. 579, è forse ragionevole ipotizzare che sarebbe meno rigorosa rispetto al consenso addirittura scriminante? Un consenso instabile, dovuto ad un momentaneo capriccio o ad una scelta avventata non ha mai avuto efficacia minorante, e a maggior ragione non avrebbe mai efficacia scriminante. Se la Corte costituzionale, cionondimeno, paventasse una simile eventualità, questa si verificherebbe per un errore giudiziario, sempre possibile, quali che siano le norme oggetto di interpretazione: nessuno si sognerebbe mai di affermare, ad esempio, che la disposizione sulla legittima difesa di cui all’art. 52 c.p. non garantisca neppure il nucleo minimo di tutela del diritto alla vita dell’aggressore solo perché residua la possibilità che i giudici, in caso di omicidio, possano essere, in virtù della vaghezza dell’espressione “pericolo attuale di un’offesa ingiusta”, indotti a ritenere erroneamente o irragionevolmente sussistente una legittima difesa in realtà solamente pretestuosa. I più avventurosi potrebbero al più solo discutere di eventuali profili di incostituzionalità della norma. 

Il bilanciamento quindi, a ben vedere, non c’era prima dell’abrogazione (e non c’è oggi), ma ci sarebbe stato dopo l’abrogazione, e sarebbe consistito appunto nella definizione normativa delle condizioni di validità dell’autodeterminazione (art. 579 comma III): se esse siano sufficienti ovvero deficitarie è questione di merito o, al più, di legittimità costituzionale, ma non di ammissibilità, stando alle stesse statuizioni della Corte. Il vero è che la Corte non ha ritenuto adeguato tale bilanciamento, e ha preferito anticipare un giudizio di legittimità costituzionale sulla normativa di risulta.    

Se, infine si replicasse che ai fini della ricostruzione di un consenso adeguatamente ponderato è imprescindibile un intervento legislativo che ne definisca presupposti e procedure, questo argomento militerebbe soltanto in favore di un intervento legislativo, non dell’inammissibilità del quesito referendario, ché altrimenti, ancora una volta, adottando questo metro si potrebbe dichiarare inammissibile qualunque referendum semplicemente ipertrofizzando il contenuto di “tutela minima” fino a svilirne ossimoricamente il significato e disinteressandosi di un diritto vivente, anche solidissimo, che supplisca nella maggiore misura possibile agli abusi derivanti da omissioni legislative.

 

5. Per concludere con una riflessione di carattere più generale, la linea di demarcazione fra protezione, da un lato, e pura coazione e doverosità, dall’altro, è ancora tracciabile solamente quando: 1) l’ordinamento protegga da scelte in loro danno soggetti strutturalmente incapaci, o non ancora pienamente capaci sia pur per presunzioni legislative (talora inevitabili per lo svolgimento della vita sociale, come la minore età), come avrebbe fatto, post-abrogazione, ex art. 579, comma III.; 2), in alternativa, si salvaguardino individui, anche pienamente capaci di autodeterminarsi, da decisioni troppo avventate (come già fa la giurisprudenza di legittimità rispetto al consenso minorante e a fortiori farebbe rispetto al consenso scriminante) o da indebite interferenze esterne (e qui soccorre la parte dell’art. 579, comma III, dedicata alla punizione di chi estorce il consenso con violenza o minaccia o lo carpisce con suggestione o inganno).

In assenza di queste condizioni, la linea di confine non esiste più. La protezione non necessaria non è distinguibile dalla pura restrizione[20], perché, nella sua dimensione costituzionale (salvo sempre il fondamentale neminem laedere), la libertà personale, se non viene accordata proprio per scelte difformi dal sentire sociale, e finanche dalla più schiacciante maggioranza (come possono essere le scelte, con tutti i dovuti distinguo, di congedarsi dalla vita, di assumere sostanze stupefacenti, di prostituirsi), semplicemente non esiste. La Costituzione, quindi, protegge proprio la libertà di chi fa il proprio male, di chi ha torto. Li protegge dalle aggressioni (molto più insidiose di violenza, minaccia, suggestione e inganno) di quanti pretendono di tutelarli imponendo i propri principi. A tutelare chi ha ragione, invece, basta, brechtianamente, la folta schiera di coloro che siedono dalla sua parte. Anche la Corte, questa volta, ha preso posto fra coloro che siedono dalla parte della ragione: purtroppo, senza averla.

 

 

[1] Cfr. Comunicato stampa della Corte costituzionale del 15/02/2022, consultabile in cortecostituzionale.it.

[2] Più precisamente, a partire dalla interpretazione logico-sistematica dell’art. 75, comma II, Cost., per arrivare all’ “omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria”, distinguendo inoltre il giudizio di ammissibilità dagli altri giudizi riservati alla Corte. Questa chiarisce dunque come non siano in discussione profili di illegittimità costituzionale e come occorra esclusivamente verificare, con “valutazione liminare”, l’eventuale sussistenza, all’esito dell’abrogazione, di un “pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale (richiamando, al punto 3 Considerato in diritto, le sentenze n. 24/2011, nn. 15 e 16/2008 e n. 45/2005).

[3] Punto 3.1 Considerato in diritto.

[4] Ibidem.

[5] Punto 5.3 Considerato in diritto.

[6] Punto 3.2 Considerato in diritto.

[7] Punto 3.3 Considerato in diritto.

[8] Punto 5.4 Considerato in diritto.

[9] Padovani T., Riflessioni penalistiche circa l’ammissibilità del referendum sull’art. 579 c.p. Relazione introduttiva, in www.amicuscuriae.it.

[10] Cfr. punto 5.1 Considerato in diritto.

[11] Non si può dubitare del rilievo costituzionale dell’autodeterminazione secondo la giurisprudenza costituzionale: basti richiamare la celeberrima sentenza n. 438/2008, dove il diritto all’autodeterminazione è definito a chiare lettere un diritto fondamentale della persona (punto 4 Considerato in diritto).

[12] Punto 5.3 Considerato in diritto.

[13] Si può sottolineare, al massimo, che la volontà, di cui il consenso costituisce espressione, del soggetto passivo non è priva di effetti, perché appunto integra l’elemento minorante della fattispecie. Ciò, tuttavia, non si lega all’autodeterminazione, ma solo, all’evidenza, ad un’etero-determinazione discrezionale del rilievo della volontà della persona offesa. 

[14] Cfr. la giurisprudenza di legittimità richiamata, nel Ritenuto in fatto, dalla stessa Corte costituzionale.

[15] Punto 5.3 Considerato in diritto.

[16] Punto 5.1 Considerato in diritto.

[17] Si potrebbe obiettare che poco dopo, sempre al punto 5.1 Considerato in diritto, la Corte spiega che il vincolo costituzionale possa anche riferirsi ad una parte soltanto: ciò testimonia la contraddittorietà dei criteri della giurisprudenza costituzionale. Il punto chiave, comunque, è che la parte oggetto della richiesta referendaria costituisca oggetto di vincolo costituzionale, e nel corso del lavoro ci si augura di dimostrare come ciò non possa avvenire.  

[18] Punto 5.4 Considerato in diritto.

[19] Punto 3.2 Considerato in diritto.

[20] Non rileva in sé la finalità dell’intervento restrittivo, ove disgiunta dal concreto ed effettivo impatto del medesimo sul destinatario, secondo una acuta antinomia fletcheriana [Fletcher G. P., Grammatica del diritto penale, trad. it. a cura di Michele Papa, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 52]: se l’impatto è coercitivo e la restrizione non si sorregge sull’incapacità di autodeterminarsi o su di una formazione patologica dell’autodeterminazione (dovuta appunto a indebite sopraffazioni), allora si tratta sul piano giuridico di pura coercizione, quale che sia il fine (o il pretesto) in nome del quale è esercitata.