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04 Marzo 2020


La Consulta rigetta i dubbi sulla legittimità costituzionale dei nuovi limiti al potere di appello del pubblico ministero

Corte cost., sent. 26 febbraio 2020, n. 34, Pres. Carosi, Red. Modugno



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Diamo sintetica e sollecita notizia, in attesa di eventuale commento critico, della prima importante sentenza della Corte costituzionale sul nuovo regime di appellabilità delle sentenze ad opera del pubblico ministero, come introdotto dal decreto legislativo di attuazione della delega conferita al Governo mediante la cosiddetta legge Orlando (23 giugno 2017, n. 103).

In sostanza, il legislatore ha esteso al giudizio ordinario (sia pur con qualche minore restrizione) limiti già sperimentati con riguardo al giudizio abbreviato, che conformano l’ammissibilità dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna. Occorre infatti che la decisione giudiziale abbia destituito di fondamento una porzione significativa dell’accusa, modificando il titolo del reato oppure escludendo la ricorrenza di circostanze aggravanti dotate di particolare incidenza nel procedimento di determinazione della pena.

 

1. Le norme censurate.

Per effetto della novella, e segnatamente dell’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, il nuovo testo dell’art. 593 c.p.p. stabilisce che il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato». In sostanza, e soprattutto, non è più ammesso un sindacato di merito sulla quantificazione della pena ad opera del giudice di primo grado, e neppure a proposito del riconoscimento di circostanze attenuanti e del loro bilanciamento con circostanze aggravanti.

Come accennato, la norma (che fa seguito alla tormentata vicenda innescata dalla c.d. “legge Pecorella” e proseguita con gli interventi censori della Consulta) vale oggi a parificare il regime dell’appello del pubblico ministero nel rito abbreviato e nel rito ordinario, con qualche maggior concessione per il secondo. Quanto al giudizio speciale, infatti, il comma 3 dell’art. 443 c.p.p. stabilisce che «il pubblico ministero non può proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato».

Residuano comunque, per l’espresso disposto dell’art. 593, alcune ulteriori ipotesi di appello della parte pubblica contro una sentenza di condanna. La prima concerne il caso in cui, negato il consenso del pubblico ministero all’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., il giudice del dibattimento riconosca, all’atto della condanna secondo il rito ordinario, una diminuzione di pena per il mancato accesso al rito (comma 2 dell’art. 448 c.p.p.). In secondo luogo, l’appello è ammissibile anche per i capi della sentenza di condanna che riguardino l’applicazione delle misure di sicurezza (artt. 579 e 680 c.p.p.).

 

2. I parametri costituzionali e le censure.

L’occasione dell’incidente costituzionale, promosso dalla Corte d’appello di Messina, è stata data da un appello (consapevolmente) inammissibile proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di condanna per il delitto di maltrattamenti in famiglia, sul presupposto dell’applicazione di un trattamento sanzionatorio ingiustificatamente favorevole per l’imputato. Ovviamente, il Procuratore appellante ha sollecitato nel contempo la Corte a sollevare questioni di legittimità costituzionale del nuovo art. 593 c.p.p. ed il Collegio rimettente ha sostanzialmente provveduto in conformità.

L’accoglimento della domanda rivolta alla Consulta avrebbe sostanzialmente implicato un regime di piena facoltà di impugnazione ad opera del pubblico ministero (salvo il limite generale dell’interesse ad impugnare), posto che la norma censurata avrebbe dovuto essere dichiarata illegittima nella parte in cui prevede che lo stesso pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

La disciplina censurata, in sintesi, contrasterebbe con il principio di parità tra le parti (radicato negli artt. 3 e 111 Cost.), con il principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena (art. 27 Cost.) ed infine con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).

Cominciando da quest’ultimo, il ragionamento configura una sorta di eccesso del mezzo rispetto al fine, posto che gli appelli proposti da uffici di procura sono una percentuale minima del complesso dei giudizi di secondo grado, di talché la riforma non servirebbe affatto a migliorare il servizio di giustizia. Quanto alla funzione rieducativa della pena, la stessa richiede l’irrogazione di una sanzione proporzionata al fatto ed alla capacità criminale del suo autore, obiettivo che non sarebbe più perseguibile in caso di errore del primo giudice nella determinazione del trattamento.

Ad ogni modo, il cuore della critica alla riforma risiede nella dissimetria tra le possibilità di censura conferite alle due parti essenziali del processo penale, cioè l’imputato e la pubblica accusa. Il primo, in sostanza, è messo in grado di impugnare qualunque sentenza che non sia satisfattiva dei suoi interessi (comprese quelle di assoluzione che non siano completamente liberatorie). La seconda, fuori dai casi di ricorribilità per cassazione, non potrebbe dolersi neppure di decisioni gravemente irrazionali a favore dell’imputato (tali da farle “somigliare” ad una assoluzione, ciò che sarebbe accaduto nel giudizio a quo).

La Corte d’appello ha ricordato la giurisprudenza costituzionale secondo cui la parità delle parti è principio concernente anche l’accesso al giudizio impugnatorio, sebbene non implichi che debba esservi piena corrispondenza tra facoltà del pubblico ministero e facoltà dell’imputato, e richieda piuttosto una giustificazione ragionevole per le differenze stabilite dalla legge (sentenza n. 26 del 2007). Nella specie non vi sarebbero fattori idonei a giustificare un trattamento tanto deteriore per la pubblica accusa. Non un fine di deflazione, posta la già rilevata e sostanziale ininfluenza degli appelli del pubblico ministero nel novero delle molte decine di migliaia di giudizi impugnatori proposti annualmente. Non un fine di ragionevole delimitazione dei casi meritevoli di riesame (l’esclusione di aggravanti comuni non rileva, ma può portare in specifici casi a sentenze liberatorie, dunque appellabili; per altro verso, vi sono ipotesi di riqualificazione giuridica del tutto irrilevanti sul piano sanzionatorio, e dunque non meritevoli di nuovo esame nell’ottica del sindacato sulla pena).

 

3. La risposta della Corte.

Come già si è anticipato, il dispositivo della sentenza è nel senso della infondatezza delle questioni sollevate.

Precedenti inequivoci hanno consentito per un primo verso di negare la violazione dell’art. 97 Cost., posto che la giurisprudenza costituzionale ha costantemente limitato la rilevanza del principio di buon andamento all’organizzazione degli uffici giudiziari, negandola al contempo per l’attività giurisdizionale in senso proprio. Escluso anche il fondamento della censura concernente l’art. 27 Cost., poiché il principio di finalizzazione rieducativa della pena non richiede necessariamente un sindacato di merito, attraverso specifici giudizi impugnatori, sulla quantificazione eventualmente insufficiente ad opera del giudice.

Quanto alla parità fra le parti, anche la Consulta ha richiamato la copiosa giurisprudenza intervenuta, a proposito delle facoltà di impugnazione, prima e dopo la legge costituzionale n. 2 del 1999 e la legge n. 46 del 2006. In sintesi, il trattamento differenziale è ammissibile a condizione che le maggiori limitazioni per il pubblico ministero siano giustificate dal relativo ruolo istituzionale o da esigenze di «funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale», e sempre che si tratti di limitazioni ragionevoli (anche alla luce della necessità di riequilibrare le asimmetrie che caratterizzano fasi diverse del processo, in particolare quella delle indagini).

La Corte aveva già chiarito che il principio di obbligatorietà dell’azione non implica specifiche proiezioni sul terreno delle impugnazioni, al contrario del diritto di difesa, che trova migliore e più completa esplicazione anche ed appunto nel sistema delle impugnazioni.

Ciò premesso, il ragionamento della Corte si sviluppa nella dimostrazione che – secondo la Corte medesima – la situazione odierna è diversa da quella che aveva indotto la sentenza n. 26 del 2007 e poi le decisioni conseguenti. In quel contesto si discuteva della preclusione di un rimedio impugnatorio contro decisioni di completa reiezione della pretesa punitiva, il che rendeva radicale ed estrema la differenza di trattamento rispetto all’imputato, e tra l’altro creava una incoerenza di sistema, perché residuava per il pubblico ministero una parziale possibilità di appello contro sentenze di condanna. La disciplina odierna ha preservato l’impugnazione contro le sentenze di proscioglimento, limitando solo, e non completamente, quella contro le sentenze di condanna, secondo un modello già sperimentato per il rito abbreviato (e già a suo tempo “convalidato” dalla Consulta).

Ciò non toglie che sia stato introdotto un regime differenziale, posto che restano appellabili dall’imputato (salve marginali eccezioni) tutte le sentenze che non dichiarino l’insussistenza del fatto o l’estraneità dell’imputato al fatto medesimo (art. 593, comma 2, c.p.p.). Ma mutano ovviamente i parametri di valutazione circa la ragionevolezza del diverso trattamento. Si discute comunque di sentenze parzialmente satisfattive per il pubblico ministero, e cambia dunque il punto d’equilibrio del bilanciamento con le contrapposte esigenze di deflazionare il lavoro giudiziario e di assicurare la ragionevole durata del processo.

Vale quanto sopra si è ricordato, in generale, sulla incidenza degli interessi costituzionalmente dominanti sul potere di impugnazione: «privo di autonoma copertura nell’art. 112 Cost. – e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti – quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. – e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi – quello dell’imputato». Il tutto anche a garanzia del riequilibrio nel gioco tra le parti a fronte della posizione dominante assunta dal pubblico ministero nella sede investigativa.

V’è infine da segnalare, fra i molti ulteriori argomenti toccati dalla Corte, che residuano spazi non marginali riguardo alla contestazione delle scelte sanzionatorie del giudice di primo grado, attraverso lo strumento del ricorso per cassazione (i cui margini furono notoriamente ampliati dalla riforma del 2006). Non solo infatti l’eventuale violazione dei valori edittali di pena, o della legge sostanziale che regola il regime circostanziale del reato, può essere denunciata a norma dell’art. 606, comma 1, lettera b), c.p.p. Osserva infatti la Consulta che «il pubblico ministero resta pur sempre abilitato ad attivare il controllo della Corte di cassazione sulla “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione” che sorregge il dosaggio della pena, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. Tale controllo, se pure certamente “non attinge […] alla pienezza del riesame di merito, consentito dall’appello” (sentenza n. 26 del 2007), può valere, comunque sia, nei limiti della disciplina del ricorso immediato, a porre rimedio a ipotesi di incongruenza estrema o manifesta della quantificazione del trattamento sanzionatorio, quali quelle ventilate dal giudice rimettente».