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20 Aprile 2021


La revocabilità della sanzione amministrativa illegittima e il principio di legalità costituzionale della pena

Corte cost., sent. 16 aprile 2021, n. 68 Pres. Coraggio, Red. Modugno



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1. Con la sentenza n. 68 la Corte Costituzionale supera un ulteriore tabù ordinamentale, riconoscendo finalmente la tangibilità del giudicato applicativo di una sanzione amministrativa dichiarata costituzionalmente illegittima, in questo modo proseguendo sulla strada dell’estensione delle garanzie penalistiche alle sanzioni amministrative “punitive” secondo i noti criteri Engel elaborati dalla Corte EDU.

La svolta si deve alla pervicacia del Tribunale di Milano[1], che, nonostante la recente presa di posizione della Corte sul punto – che nella sentenza n. 43 del 2017[2] sembrava non concedere spiragli aperturisti – ha riproposto, con argomentazione articolata e puntuale, la questione di legittimità costituzionale negli stessi termini in cui, sostanzialmente, era stata già pionieristicamente sollevata nel 2015 dal Tribunale di Como[3].

Anche in questo caso, oggetto di censura era l’art. 30, quarto comma, l. n. 87 del 1953 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), «nella parte in cui la disposizione stessa non è applicabile alle sanzioni amministrative che assumano natura sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU»: il giudice rimettente era chiamato a pronunciarsi – in qualità di giudice dell’esecuzione – in merito alla richiesta di rideterminazione della pena e, in particolare, sull’istanza di revoca della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida che era stata irrogata in via definitiva – ai sensi dell’art. 222, coma 2 del Codice della strada, all’esito di un procedimento penale per il delitto di omicidio stradale ex art. 589 c.p.; tale sanzione, tuttavia, era stata poi dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 88 del 2019[4], che aveva censurato il suddetto art. 222 nella parte in cui non consentiva al giudice la possibilità di irrogare la più mite sanzione della sospensione della patente come alternativa alla revoca nei casi in cui i reati di omicidio e lesioni stradali non risultassero aggravati.

I limiti all’estensione applicativa dell’art. 30, comma 4, che – come noto – prevede la cessazione dell’esecuzione della “sentenza irrevocabile di condanna” fondata su una norma dichiarata illegittima ed il venir meno di tutti gli “effetti penali”, inibivano la possibilità di accedere ad una interpretazione che consentisse di sostituire la sanzione amministrativa illegittima (la revoca della patente) con quella legittima più favorevole (la sospensione). Si era infatti già affermata nella giurisprudenza costituzionale, con la sentenza n. 43 del 2017, l’interpretazione secondo cui il dettato letterale della disposizione ne circoscrive la portata al diritto penale in senso stretto, con esclusione quindi delle sanzioni punitive formalmente non penali (come sono quelle amministrative); storicamente – ricorda infatti la Corte nella ricostruzione della storia normativa della disposizione censurata – ciò è legato alla peculiare severità dello jus terribile, rispetto al quale era stata immediatamente percepita dal legislatore la intollerabile ingiustizia derivante dal dover continuare a sopportare il peso di pene illegali.

Secondo il giudice remittente tale assetto normativo – conformemente al quale, pertanto, la revoca della patente non poteva cessare di avere efficacia (ed essere sostituita con la sospensione) nonostante la dichiarazione di incostituzionalità – si poneva in contrasto con una serie di parametri costituzionali: l’art. 136, che dispone in via generale la “cessazione di efficacia” delle norme dichiarate illegittime, effetto da riconoscere – secondo il rimettente – rispetto a tutte le sanzioni ancora “in corso di esecuzione”; l’art. 3, per la irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina riservata alle sanzioni penali; gli artt. 35 e 41, poiché la libertà di iniziativa economica e il diritto al lavoro risulterebbero ingiustamente compromessi dalla perdurante efficacia della sanzione amministrativa di revoca della patente; l’art. 117, in relazione agli artt. 6 e 7 Cedu, in ragione della carattere “sostanzialmente penale” (secondo la criteriologia convenzionale) della sanzione amministrativa in esame, a nulla rilevando che la Corte Europea non si sia mai espressamente pronunciata in merito al contrasto di tale previsione normativa (o di previsioni analoghe) con il principio di legalità e, in particolare, con il presupposto della necessaria legal basis di qualsiasi sanzione punitiva; l’art. 25, poiché la stessa garanzia liberale di tutela del cittadino (anche rispetto a norme penali illegittime) varrebbe indipendentemente dalla natura espressamente penale della sanzione.


 

2. Nonostante la solidità degli argomenti posti a fondamento della censura, un ostacolo non secondario al suo potenziale accoglimento derivava dalle chiare statuizioni, in senso contrario, espresse proprio dalla citata sentenza n. 43 del 2017, con la quale la Corte si era pronunciata su analoga questione sollevata dal Tribunale di Como in relazione, in quel caso, ad una sanzione amministrativa pecuniaria in materia giuslavoristica. In tale occasione, la Corte aveva opposto tre argomenti: (i) l’assenza di una specifica garanzia convenzionale alla revoca del giudicato e della sanzione illegittimi e nondimeno la facoltà del legislatore nazionale di apprestare garanzie ulteriori, riservate alle sole sanzioni “formalmente penali” per l’ordinamento interno; (ii) la “occasionale” estensione delle garanzie penalistiche dell’art. 25 Cost. alle sanzioni amministrative, ma limitatamente al “nucleo essenziale del precetto costituzionale”, ovvero al divieto di retroattività sfavorevole e a misure che incidono su diritti politici dei cittadini; (iii) infine, l’inesistenza, per le sanzioni amministrative, di una fase esecutiva con controllo giurisdizionale della legalità della misura punitiva irrogata.

Una diversa conclusione, muovendo dalle premesse interpretative del rimettente, avrebbe minato la coerenza interna della giurisprudenza costituzionale, a meno di non riconoscere apertis verbis un revirement interpretativo. Ma è proprio precisando – e in parte modificando – i presupposti esegetici della questione che la Corte è potuta giungere ad una pronuncia di accoglimento – non a caso avvenuta attraverso una sentenza interpretativa[5] –, senza al contempo dover rinunciare ad una rivendicazione di coerenza con i propri precedenti.

Il dato sistematico decisivo per avallare tale diversa soluzione sarebbe rintracciabile, secondo la Corte, nel “diritto vivente” consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, la quale – rispetto al passato – ha notevolmente ampliato in via ermeneutica la portata applicativa dell’art. 30 comma 4: in particolare, la Corte rammenta una serie di pronunce della Corte di Cassazione che dapprima hanno esteso l’ambito applicativo di tale disposizione rispetto a “qualsiasi tipologia di norma penale”[6] (non solo cioè rispetto alle dichiarazioni di illegittimità riguardanti l’intera fattispecie incriminatrice – alle quali fa espresso richiamo il testo normativo – ma anche quelle limitate alla parte sanzionatoria, che determinano quindi non la revoca totale del giudicato, bensì la ridefinizione della pena; e successivamente, soprattutto, hanno altresì riconosciuto – proprio intervenendo a margine della vicenda relativa alla sanzione della revoca della patente di guida[7] – la teorica applicabilità del meccanismo di revoca (o modifica) del giudicato anche rispetto alle sanzioni formalmente amministrative ma sostanzialmente penali secondo la criteriologia convenzionale (cfr. § 4.2). Nella decisiva prospettiva del diritto vivente, pertanto, l’inapplicabilità dell’art. 30 comma 4 nella vicenda a quo si baserebbe ‘solo’ sulla consolidata negazione giurisprudenziale della natura punitiva alla sanzione amministrativa accessoria costituita dalla revoca della patente[8].

Sulla base di queste premesse la questione è stata rimodulata dalla Corte in termini in parte differenti rispetto a quelli prospettati nell’ordinanza di remissione: non si tratterebbe di decidere sulla generale estensione di applicabilità dell’art. 30 comma 4 (e sul conseguente potere spettante del giudice dell’esecuzione penale) alle sanzioni amministrative a carattere punitivo – conclusione questa, come illustrato, già raggiunta per via interpretativa –, bensì esclusivamente di vagliare la legittimità costituzionale della estromissione della specifica tipologia di sanzione amministrativa sub iudice (la revoca della patente) dal novero della materia penale.

Ciò ha consentito alla Corte di ritagliare (e in qualche modo di ‘alleggerire’) l’oggetto del petitum, tarandolo puntualmente sulla specifica fattispecie oggetto del giudizio a quo e limitando così sensibilmente l’impatto sistematico della decisione: non viene in gioco la legittimità dell’art. 30 comma 4 tout court, bensì appunto la specifica ipotesi della sua mancata applicabilità rispetto alla revoca della patente, conseguente al mancato riconoscimento della natura punitiva di tale sanzione; d’altra parte – osserva la Corte – era proprio a tale specifica fattispecie che il rimettente faceva esclusivo riferimento, avendo ad esempio valorizzato – per sostenere la natura punitiva – la particolare afflittività di tale sanzione amministrativa in quanto incidente su diritti fondamentali della persona (artt. 35 e 41 Cost.) di rango più elevato rispetto a quelli patrimoniali normalmente aggrediti dalle sanzioni pecuniarie (cfr. § 5).

 

3. Ebbene, rispetto a tale specifico profilo la Corte ha gioco facile ad osservare come il carattere punitivo della revoca della patente di guida trovi pieno riscontro nella consolidata giurisprudenza convenzionale, univoca nell’annoverare tale tipologia sanzionatoria nel perimetro della materia penale presidiata dalle garanzie degli artt. 6 e 7 Cedu[9].

Non solo: anche “in una prospettiva meramente interna”, non si può disconoscere – prosegue la Corte – “la carica afflittiva particolarmente elevata e dalla spiccata capacità dissuasiva” propria della sanzione della revoca della patente (con impossibilità di condurre veicoli a motore per cinque anni), che può rappresentare “in concreto” una sanzione ben più effettiva e temibile della pena detentiva principale, normalmente destinata ad essere condizionalmente sospesa (come infatti era accaduto nel processo a quo). Una conclusione, quest’ultima, già avallata da una risalente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che avevano appunto qualificato la revoca della patente come “pena accessoria”[10].

È dunque facendo leva su tali premesse che la Corte accoglie la censura di legittimità prospettata dal remittente con primario e specifico riferimento all’art. 3 Cost. (e assorbimento delle censure relative agli altri parametri invocati), cioè rilevando la irragionevole disparità di trattamento (rispetto alla generale revocabilità di sanzioni illegittime a carattere punitivo) che deriverebbe dalla mancata estensione dell’art. 30 comma 4 anche in relazione alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della revoca della patente.

Vero che analoga censura era stata rigettata dalla sentenza n. 43 del 2017 facendo leva sulla discrezionalità del legislatore nazionale – fermo restando il contenuto della legalità penale europea comune a tutta la “materia penale” – nel definire l’estensione applicativa delle ulteriori garanzie penalistiche interne secondo una graduazione che potrebbe tenere conto anche del carattere formalmente penale della sanzione (riservando cioè al diritto penale stricto sensu inteso una statuto garantistico più intenso di quello proprio del diritto punitivo amministrativo). Anche rispetto a tale assunto, tuttavia, la Corte rileva fondamentalmente come “successivamente alla sentenza n. 43 del 2017, il processo di assimilazione delle sanzioni amministrative punitive alle sanzioni penali, quanto a garanzie costituzionali, ha però conosciuto nuovi e rilevanti sviluppi, tali da rendere non più attuali le affermazioni contenute in tale pronuncia”; in questa prospettiva, un ruolo sistematicamente significativo rispetto alla questione in esame è attribuibile alla sentenza n. 63 del 2019[11], che ha esteso alle sanzioni amministrative punitive la garanzia penalistica della retroattività favorevole; muovendo da tale approdo, che impedisce di continuare ad applicare la sanzione amministrativa oggetto di una modifica normativa in mitius – cioè oggetto di un “semplice ripensamento” da parte del legislatore – tanto più sarebbe intollerabile continuare a fare applicazione di una sanzione punitiva dichiarata costituzionalmente illegittima, cioè “affetta addirittura da un vizio genetico[12].

 

4. In conclusione, secondo la Corte, a fondamento della fondatezza della questione sta “il principio di legalità costituzionale della pena”, che si declina nella “esigenza che la pena risulti conforme a Costituzione lungo tutto il corso della sua esecuzione prevale sulle esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, a cui presidio è posto l’istituto del giudicato”. È questo l’esito di un giudizio di bilanciamento tra contrapposti interessi che, sebbene storicamente e formalmente riconosciuto per le sanzioni penali, “non può, peraltro, ribaltarsi per le sanzioni amministrative a connotazione punitiva, particolarmente quando si tratti di sanzione quale la revoca della patente di guida”, a pena di un’intollerabile violazione dei parametri di uguaglianza e ragionevolezza consacrati dall’art. 3 Cost. (in considerazione del fatto che colui che fosse condannato in via definitiva solo ad una “anche modesta pena pecuniaria potrebbe sempre giovarsi, finché non è eseguita, della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale che ne mitighi l’importo”).

 

* * *
 

5. La pronuncia esaminata segna dunque un ulteriore, importante passo della giustizia costituzionale a favore della estensione delle garanzie penalistiche a tutta la materia penale, lungo una linea di cauto ma progressivo superamento della perimetrazione formalistica dell’assetto garantistico.

Se in questo processo evolutivo l’input fondamentale è quello proveniente dalla CEDU – che ha imposto anche nell’ordinamento interno un approccio sostanzialistico nella definizione della portata dei diritti fondamentali –, nondimeno decisivi risultano essere, da una parte, la pervicacia e la sensibilità ai diritti fondamentali dimostrate dai giudizi nazionali e, dall’altra, i solidi appigli normativi che i nuovi contenuti garantistici della materia penale trovano nella nostra Costituzione, la quale dimostra – grazie ad un indiscutibile e coraggioso progressismo della Corte Costituzionale – la propria capacità di evolversi e di assorbire le più moderne istanze di tutela[13].

 

6. Nel merito della questione, come illustrato, la Corte pare avere apparentemente adottato una soluzione orientata alla cautela: da una parte, ritagliando la questione limitatamente alla specifica fattispecie della revoca della patente; dall’altra, pronunciando una sentenza “interpretativa di accoglimento”: l’art. 30 comma 4 è stato infatti dichiarato illegittimo “in quanto interpretato nel senso che non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, cod. strada”.

Le ragioni  sostanziali ‘a monte’ di questa scelta potrebbero essere colte, quindi, nella preoccupazione della Corte di non voler riconoscere una indiscriminata estensione dell’art. 30, comma 4, a tutte indistintamente le sanzioni a carattere punitivo (si ricorderà, infatti, che il petitum dell’ordinanza era diretto ad ottenere una sentenza manipolativa di tale disposizione “nella parte in cui la stessa non è applicabile alle sanzioni amministrative che assumano natura sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU”), ma solo in relazione a specifiche ipotesi caratterizzate da un grado di severità particolarmente elevato – in quanto incidenti su diritti fondamentali della persona – e rispetto alle quali riservarsi un vaglio preventivo.

Ad un’analisi più attenta, tuttavia, se davvero questo fosse stato l’intento perseguito dalla Corte, non è affatto detto che sia stato raggiunto.

La Corte, infatti, muove dall’assunto secondo cui il diritto vivente – consolidato da recenti decisioni della Corte di Cassazione[14]già attualmente consente l’utilizzo dell’art. 30, comma 4, in relazione a qualsiasi sanzione a carattere punitivo. L’inquadramento sostanziale della natura giuridica delle sanzioni è valutazione interpretativa che non risulta essere sottratta ai giudici ordinari, che infatti regolarmente valutano tale predicato allo scopo di definire lo statuto garantistico delle misure sanzionatorie di volte in volta in esame (si pensi ai problemi relativi alla estensione delle garanzie della legalità penale europea alle diverse tipologie di confisca, che presuppongono la valutazione circa il carattere punitivo del provvedimento ablativo).

Alla luce di questa premessa, l’intervento della Corte Costituzionale può risultare solo funzionale a sindacare – ed eventualmente correggere – quelle interpretazioni che ingiustamente sottraggono talune tipologie di sanzioni alla garanzia della “legalità della pena”; la Corte, in altre parole, interviene nei casi in cui si pone in dubbio il carattere punitivo della sanzione giuridica, ferma restando la facoltà dei giudici ordinari di svolgere tale valutazione sulla base dei noti parametri convenzionali.

È dunque in questo senso che si potrebbe leggere, più correttamente e coerentemente con l’argomentazione sviluppata nella decisione in esame, l’opzione a favore dell’accoglimento interpretativo: da una parte, probabilmente, la ritrosia ad intervenire in modo incisivo e diretto sul testo di una disposizione sistematica come l’art. 30, comma 4; dall’altra, il riconoscimento della sua idoneità, già nella formulazione normativa vigente (e vivente), a soddisfare le esigenze di conformità al principio di legalità costituzionale della pena.

Ancora problematico e irrisolto appare invece il caso in cui la sanzione amministrativa illegittima trovi fondamento in un giudicato amministrativo, non essendo in questa ipotesi individuabile una “sentenza irrevocabile di condanna” (espressamente richiesta dal testo dell’art. 30, comma 4), né un controllo giurisdizionale sulla fase esecutiva della sanzione in cui sia possibile incardinare la richiesta di revoca.

 

7. D’altra parte, non si vede su quali basi il principio di “legalità costituzionale della pena” riconosciuto dalla Corte – e consistente nella pretesa di una valida base legale a fondamento di qualsiasi sanzione punitiva – potrebbe tollerare ragionevoli eccezioni o limitazioni derivanti dal maggiore o minore grado di afflittività della misura sanzionatoria o anche dalla tipologia di giurisdizione nell’ambito della quale la sanzione punitiva venga disposta.

A ben vedere, anzi, ponendosi nella più ampia ma non meno cogente prospettiva della “legalità costituzionale” la presenza di una valida base legale dovrebbe essere un presupposto indefettibile non solo di qualsiasi tipologia di sanzione punitiva, ma di qualsiasi “sanzione giuridica”, anche a carattere non punitivo; continuare a riconoscere efficacia a sanzioni (di qualsiasi natura) dichiarate illegittime che incidono negativamente su diritti o libertà individuali sarebbe privo di qualsiasi fondamento giuridico. Non solo la “pena illegale”, ma nessuna “sanzione illegale” risulta costituzionalmente tollerabile: questa è una conclusione che, peraltro, pare essere pienamente coerente con il dettato costituzionale dell’art. 136, soprattutto in considerazione del quasi definitivo tramonto del dogma del giudicato, che – anche al di fuori della materia penale[15] – non pare costituire un limite costituzionalmente accettabile alla illegittima (in quanto priva di base legale) limitazione di diritti individuali.

 

8. In ogni caso, l’estensione della portata garantistica del principio di legalità costituzionale della pena continua a trovare il limite invalicabile dei “rapporti esauriti”: molto opportunamente – a fronte di possibili iper-interpretazioni della garanzia costituzionale[16] – la Corte Costituzionale (cfr. § 2.2.) rimarca il fatto che la riconosciuta applicabilità dell’art. 30 comma 4 al caso della revoca della patente si inserisce sempre nell’ambito della “cessazione di efficaciadi una sanzione punitiva ancora in corso di esecuzione (esattamente come nel caso della interruzione di una pena detentiva).

Benché possa essere percepito dalla collettività come fonte di ingiustizia, l’avvenuta esecuzione di una sanzione punitiva dichiarata costituzionalmente illegittima – dunque riconosciuta come geneticamente (ex tunc) invalida – costituisce un “rapporto esaurito”, rispetto al quale il nostro ordinamento giuridico non offre rimedi generali di carattere risarcitorio o restitutorio nei confronti dello Stato: esattamente come non è riconosciuta alcuna pretesa risarcitoria rispetto ad una pregressa pena detentiva (o sanzione interdittiva) scontata sulla base di norma incriminatrice dichiarata illegittima, non esiste neppure alcun diritto restitutorio rispetto al pregresso pagamento di sanzioni punitive a carattere patrimoniale.

La certezza dei rapporti giuridici esauriti, del tutto condivisibilmente, non è stata messa a repentaglio dalla altrettanto condivisibile affermazione della garanzia della legalità costituzionale della pena.

 

 

[1] Trib. Milano, g.i.p. dott. Crepaldi, ord. 4 febbraio 2020.

[2] A commento della quale, e per approfondimenti e ulteriori riferimenti sulla questione trattata, v. M.C. Ubiali, Illegittimità sopravvenuta della sanzione amministrativa “sostanzialmente penale”: per la Corte costituzionale resta fermo il giudicato, Dir. pen. cont., 3, 2017, p. 293 s.; A. Chibelli, L’illegittimità sopravvenuta delle sanzioni “sostanzialmente penali” e la rimozione del giudicato di condanna: la decisione della Corte Costituzionale, ivi, 4, 2017, p. 15 s.; M. Belletti, La declaratoria di incostituzionalità della sanzione amministrativa non produce l'estensione dell'effetto retroattivo, in Quad. cost., 2, 2017, p. 503 s.; N. Canzian, Le sanzioni amministrative «incostituzionali» fra CEDU e Costituzione: coesistenza, e non assimilazione, ivi, 2, 2017, p. 378 s.

[3] Trib. Como, giud. dott.ssa Tomasi, ord. 4 febbraio 2015, in osservatorioaic.it, 27 febbraio 2017, con nota di A. Golia – F. Elia, Il necessario salto nel vuoto: la rimozione del giudicato per le sanzioni “sostanzialmente” penali dichiarate incostituzionali. Riflessioni a margine dell’ord. Trib. Como del 4 febbraio 2015.

[4] Sulla quale v. G. Leo, Novità dalla Consulta in materia di omicidio e lesioni stradali, in Dir. pen. cont., 29 aprile 2019.

[5] Questa tipologia di pronunce, dopo essere stata accantonata per un lungo periodo, è stata di recente ‘riesumata’ da C. Cost. n. 32 del 2020.

[6] Questo approdo giurisprudenziale era invero già consolidato all’epoca della questione sollevata dal Tribunale di Como: cfr. già Cass., 13 gennaio 2012, n. 977, P.M. in c. Hauohu, in Dir. pen. cont., 19 gennaio 2012, con nota di M. Scoletta, Aggravante della clandestinità: la Cassazione attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di dichiarare la non eseguibilità della porzione di pena riferibile all’aggravante costituzionalmente illegittima; e poi definitivamente Cass., Sez. Un., 14 ottobre 2014, n. 42858, Gatto, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, p. 975 s., con nota di D. Vicoli, L'illegittimità costituzionale della norma penale sanzionatoria travolge il giudicato: le nuove frontiere della fase esecutiva nei percorsi argomentativi delle Sezioni unite) e Cass., Sez. Un., 7 maggio 2014, n. 18821, Ercolano, in Dir. pen. cont., 16 maggio 2014, con nota di M. Bignami, Il giudicato e le libertà fondamentali: le sezioni unite concludono la vicenda Scoppola-Ercolano; nello stesso senso anche Cass.,15 settembre 2015, n. 37107.

[7] Cass., 24 agosto 2020, n. 24023; Id., 10 giugno 2020, n. 17834; Id., 9 giugno 2020, n. 17508; Id., 9 giugno 2020, n. 17506; Id., 30 aprile 2020, n. 13451; tutte invero intervenute successivamente all’ordinanza di rimessione del Tribunale meneghino.

[8] Le pronunce richiamate alla nota precedente, infatti, hanno ritenuto teoricamente applicabile l’art. 30, comma 4, alle sanzioni amministrative punitive, ma hanno negato tale carattere funzionale alla revoca della patente.

[9] Cfr. § 6 della sentenza in commento “La Corte EDU ha preso più volte posizione, infatti, sulla natura penale, agli effetti della Convenzione, di misure quali il ritiro e la sospensione della patente, o il divieto di condurre veicoli a motore, disposte a seguito dell’accertamento di infrazioni connesse alla circolazione stradale. Da tali pronunce emerge un orientamento sostanzialmente univoco, alla luce del quale – ancorché le misure in discorso siano configurate nel diritto interno come misure amministrative finalizzate a preservare la sicurezza stradale – esse si connotano come di natura convenzionalmente penale quando l’inibizione alla guida si protragga per un lasso di tempo significativo, tanto più, poi, ove la loro applicazione consegua a una condanna penale (Corte EDU, sentenza 4 gennaio 2017, Rivard contro Svizzera; sentenza 17 febbraio 2015, Boman contro Finlandia; decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): venendo, in tal caso, le misure stesse ad assumere, per il loro grado di severità, un carattere punitivo e dissuasivo (Corte EDU, sentenza 21 settembre 2006, Maszni contro Romania). In quest’ottica, si è ritenuto rientrare nella «materia penale» il ritiro della patente per la durata di diciotto mesi (Corte EDU, decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): lasso di tempo ben più breve dei cinque anni per i quali si protrae – nella più favorevole delle ipotesi – la revoca della patente disposta ai sensi dell’art. 222 cod. strada”.

[10] Cfr. Cass., Sez. Un., 12 febbraio 1991, n. 2246, che rilevava chiaramente come la revoca della patente “comprimendo con inevitabile danno economico la libertà di circolazione – tanto sentita da questa società – e reprimendo nella maniera più acconcia lo scorretto esercizio di essa”, costituisse “mezzo di prevenzione speciale idoneo ed efficace, più della stessa pena principale, cui aggiunge forza intimidatrice”.

[12] Profilo peraltro già puntualmente rilevato dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Milano.

[13] Per un approfondimento sistematico di queste affermazioni cfr. M. Scoletta, L’impatto sostanziale della CEDU sui principi fondamentali della materia penale nell’ordinamento interno: resistenze, desistenze, prospettive, in Grasso-Maugeri-Sicurella (a cura di), Tra diritti fondamentali e principi generali della materia penale, Pisa, 2020, 203 ss.

[14] V. retro nt. 7.

[15] Cfr. R. Rugiu Santoni, Il giudicato nazionale in violazione di norme comunitarie: resistenza o cedevolezza?, in Quest. giust., 18 maggio 2016.

[16] Sul rischio di indebite “iper-dilatazioni” dei principi fondamentali nella loro concretizzazione giurisprudenziale sia consentito rinviare ancora a M. Scoletta, L’impatto sostanziale della CEDU sui principi fondamentali, cit.