Corte costituzionale federale tedesca, Sezione II, sentenza 26 febbraio 2020
1. Con sentenza del 26 febbraio 2020, la Corte costituzionale federale tedesca ha dichiarato illegittima, per contrasto con alcuni principi della Legge Fondamentale, la norma del codice penale tedesco che punisce – così la rubrica – la “agevolazione commerciale del suicidio”.
La rilevanza del tema e la sua attualità consigliano di rendere disponibile fin da subito ai lettori, oltre al testo della pronuncia in lingua originale, una breve sintesi della decisione, ricavata principalmente dalla lettura dell’esteso comunicato stampa ufficiale in inglese che ne ha accompagnato la pubblicazione e che ripercorre, in modo anche molto analitico, i passaggi essenziali delle motivazioni.
Numerose – e talora evidenti già a una prima lettura – le analogie e le differenze con il percorso argomentativo seguito dalla Corte costituzionale italiana nelle recenti decisioni sul tema, che potranno senz’altro costituire spunto per appositi contributi critici.
Ci preme qui soltanto segnalare come la sentenza in esame potrebbe assumere, nell’evoluzione a livello nazionale dei rapporti tra diritto penale e scelte di fine vita, un ruolo ben più concreto di quanto si sarebbe portati in prima battuta a immaginare. Ciò, se non altro, alla luce della propensione sempre più marcata dei nostri giudici costituzionali a confrontarsi, nella risoluzione di questioni relative a diritti fondamentali della persona, non solo con gli arresti della giurisprudenza sovranazionale (ormai vincolante per il legislatore ex 117 Cost.), ma anche con il valore persuasivo di posizioni e argomenti espressi dalle Corti Supreme di altri Stati nazionali, tanto per profili di metodo che di merito: tendenza di cui si trovano tracce emblematiche nei riferimenti, rispettivamente, alla Corte Suprema canadese in tema di rapporti con il Parlamento proprio in materia di suicidio assistito (per citare l’esempio più pertinente: ord. 207/2018) o alla Corte Suprema degli Stati uniti a proposito della ratio del principio di irretroattività sfavorevole (per citare l’esempio più recente: sent. 32/2020).
Non è quindi da escludere che anche questa decisione possa arricchire l’orizzonte valutativo della Corte costituzionale in occasione di futuri giudizi incidentali – date la varie questioni ancora aperte in tema di fine vita anche all’indomani della sent. 242/2019.
2. Norma censurata davanti alla Corte costituzionale tedesca è il § 217 StGB[1].
La disposizione, introdotta nel 2015, si inseriva in un sistema in cui, tradizionalmente, convivevano la punibilità dell’omicidio del consenziente e la generale liceità dell’aiuto al suicidio (in questo caso, a prescindere dalla natura egoistica o altruistica dei motivi dell’agente). In questo scenario, la preoccupazione per il diffuso sfruttamento da parte di privati, in forma organizzata e a scopo di lucro, delle crescenti richieste di aiuto al suicidio aveva portato il legislatore – non senza controversie – all’approvazione del § 217, con cui si intendeva appunto reprimere tale fenomeno.
La disposizione si articola in due commi: «[1]. Chiunque, con l’intenzione di favorire il suicidio altrui, ne offre o procura l’opportunità commerciale, anche in forma d’intermediazione, è punito con la pena detentiva sino a due anni o con la pena pecuniaria. [2]. In qualità di compartecipe è esente da pena chi agisca in modo non commerciale e sia parente della persona favorita indicata al comma 1, oppure a questa legata da stretti rapporti».
3. In estrema sintesi, le ragioni alla base della invalidità della norma consistono nella limitazione sproporzionata che la sanzione penale pone, anche se circoscritta ad alcune specifiche forme di aiuto al suicidio, al pieno ed effettivo esercizio del diritto della persona ad autodeterminarsi alla morte.
La motivazione si articola essenzialmente in due parti: la prima è diretta a ricostruire i contenuti di tale diritto, di cui viene valorizzato lo stretto collegamento con il “cuore” dei supremi valori costituzionali di libertà e di dignità per giustificarne la massima latitudine; la seconda consiste in una analisi dei requisiti che la legge deve soddisfare per poter legittimamente comprimere tale diritto, e in particolare del rapporto tra le finalità perseguita dalla norma e le ricadute concrete di una scelta di incriminazione del genere di quella vigente, ritenuta infine una negazione sproporzionata di quella stessa libertà che mirerebbe a proteggere.
4. Secondo la Corte, il “diritto di autodeterminarsi alla morte” trova diretto fondamento sostanziale nel più ampio “diritto generale della personalità”, figura di elaborazione pretoria che risulta dalla combinazione del principio della intangibilità dignità umana e del diritto al libero sviluppo della personalità, entrambi sanciti dalla Costituzione (art. 1(1) e 2(1) rispettivamente) ed entrambi appartenenti ai principi fondamentali dell’ordinamento.
Il rispetto della personalità individuale e il conseguente diritto a conservare la propria “identità e integrità” implicano, in termini generali, che il soggetto – in ipotesi capace di autodeterminarsi responsabilimente – non debba subire condizionamenti esterni nelle proprie scelte esistenziali e, in particolare, che non possa essere costretto a scelte che risultino inconciliabili con i propri convincimenti e con l’idea che ha di sé.
Ciò è soprattutto vero per la scelta di porre fine alla propria vita, che naturalmente rispecchia più di altre una particolare concezione morale e filosofica, presupponendo una valutazione circa il significato dell’esistenza in cui nessuno può sostuirsi al singolo: “la decisione di suicidarsi si ricollega a domande fondamentali dell’esistenza umana e come nessun’altra chiama in causa l’identità e l’individualità della persona”.
Dal diritto ad autodeterminarsi deriva quindi un “diritto a una morte auto-determinata” sulla base di una decisione libera e consapevole, che non comprende solo il rifiuto di trattamenti di sostegno vitale ma si estende alla scelta di togliersi la vita con una condotta attiva.
Su questi presupposti – afferma la Corte – a tale diritto deve riconoscersi la più ampia portata possibile, senza che possa essere circoscritto a una certa condizione di salute (una malattia incurabile o anche solo grave), a una certa fase della vita e nemmeno alla verifica dell’accettabilità dei motivi che stanno alla base di un simile gesto. Subordinare la tutela del diritto al ricorrere di specifiche cause o situazioni significherebbe sostituirsi ai singoli in valutazioni loro totalmente riservate, che si fondano sulla possibilità per ciascuno di definire qual è una “qualità di vita” accettabile e cos’è una “vita dotata di senso” in termini eminentemente soggettivi, al di là di “valori generali”, “norme sociali” e “giudizi di razionalità oggettiva”.
D’altra parte, il riconoscimento di un diritto a suicidarsi non trova un ostacolo nel richiamo alla dignità umana: darsi la morte non andrebbe a negare, eliminandone il presupposto, la stessa autodeterminazione personale, ma rappresenta pur sempre manifestazione diretta (sebbene definitiva) di tale autonomia.
Infine, il diritto in esame richiede di essere garantito anche nella sua proiezione verso l’esterno, in una dimensione intersoggettiva: esso comprende la “libertà di cercare e, se offerto, di avvalersi dell’aiuto prestato da terzi”. Si tratta infatti – precisa la Corte – di una situazione peculiare, in cui l’esercizio di un diritto fondamentale è condizionato alla collaborazione di altri soggetti e in cui pertanto la tutela del diritto passa necessariamente per il superamento delle prescrizioni che vietanto tali condotte strumentali.
5. Alla luce di queste considerazioni, la norma punitiva di cui al § 217 StGB costituisce una restrizione del diritto fondamentale di riferimento – il “diritto a una morte auto-determinata”, a sua volta espressione del “diritto generale di personalità” – sebbene rivolta a destinatari diversi dal relativo titolare: una interferenza indiretta che, tuttavia, risulta “equivalente per oggetto e per effetto” a una interferenza diretta, limitando di fatto la libertà di commettere il suicidio.
Tale interferenza richiede una giustificazione costituzionale, che, trattandosi di diritti fondamentali, la Corte si propone di misurare al metro di uno standard di “stretta proporzionalità”.
In particolare, tale verifica richiede di stabilire se la norma a) persegue un fine legittimo; b) è idonea e necessaria per raggiungere tale fine; c) esprime un bilanciamento ragionevole tra tale fine e le restrizioni imposte.
a) La prima condizione è da ritenersi soddisfatta, poiché la norma mira a proteggere la possibilità di autodeterminarsi nella scelta di vivere, e quindi in definitiva tutela la vita stessa.
Da questo punto di vista, attraverso il divieto penale di aiuto al suicidio lo Stato assolve all’obbligo – anch’esso costituzionalmente fondato – di tutela dell’autonomia individuale, che sarebbe messa in pericolo (oltre che da condotte specifiche di terzi) da un’ipotetica evoluzione dei rapporti sociali in seguito alla quale, alcuni soggetti, per la situazione in cui versano, subiscano una forte pressione a darsi la morte.
Uno scenario del genere risponde a una presunzione che allo stato, in mancanza studi scientifici sulle conseguenze a lungo termine della legalizzazione delle pratiche organizzate di aiuto al suicidio, appare coerente con una valutazione dei rischi sulla base dei dati di fatto disponibili.
In particolare, l’evidenza raccolta nel giudizio davanti alla Corte avrebbe dimostrato come, nella prassi, i servizi di aiuto al suicidio non offrano sufficienti garanzie in termini di accertamento della autenticità del volere della persona, e come talvolta siano stati prestati a soggetti malati senza adeguati controlli medici. Abusi favoriti dalla circostanza per cui, laddove l’assistenza al suicidio è servizio organizzato in forma professionale, tende naturalmente ad affermarsi, prevalendo sulle altre esigenze, una logica orientata a procurare il risultato richiesto.
Inoltre, la Corte ritiene ragionevole il rischio che una disciplina permissiva possa dare luogo a un fenomeno di “normalizzazione” del suicidio come modalità ordinaria di terminare la vita, incrementando le aspettative sociali soprattutto sulle persone fragili e anziane, la cui autodeterminazione finirebbe per soccombere alla luce di valutazioni utilitaristiche (anche di stampo meramente economico) del tutto etero-imposte. Una prospettiva concreta, alla luce, da un lato, dell’aumento di richieste di suicidio assistito negli Stati che hanno ammesso tale pratica (sebbene la Corte riconosca l’esistenza di plurime spiegazioni concorrenti) e, dall’altro, con la conoscenza disponibile sui motivi alla base dei suicidi, spesso da ricondurre al desiderio di non rappresentare più un peso per gli altri.
b) Anche sotto il profilo dell’idoneità a realizzare tale obiettivo di tutela, la sanzione penale può senza dubbio rappresentare un contributo utile, come disincentivo quantomeno ad alcuni dei potenziali comportamenti dannosi.
c) Risulta tuttavia decisiva, a prescindere dal rispetto del criterio della necessità, la considerazione per cui la restrizione al diritto dell’individuo a una morte auto-determinata risulta sproporzionata rispetto ai benefici per i consociati.
6. Il sempre delicato equilibrio tra i due poli impone alla Corte, in materia di diritti fondamentali, un controllo particolarmente stringente del risultato finale prodotto dalle scelte di incriminazione del legislatore.
Lo strumento penale è, in linea di principio, indispensabile per regolare i rapporti sociali e, talora, uno strumento doveroso anche per offrire protezione ai diritti individuali.
Tuttavia – questo pare il criterio centrale – la legittimità di tale intervento viene meno quando, come avviene nel caso in esame, la finalità di tutela dell’autonomia personale nella scelta di porre termine alla propria vita si traduce in una disciplina che rende impossibile tale scelta. Richiamato il fondamento del diritto individuale in gioco, la Corte ribadisce che la tutela può operare solo contro indebite influenze esterne, al di là delle quali però non c’è spazio per sindacare la valutazione auto-determinata di cos’è “una vita dotata di senso”: non in una comunità “che pone la dignità umana al centro del suo ordine di valori e che si impegna a rispettare e proteggere la libertà della personalità umana come valore più alto della sua Costituzione”.
Certo rientra nella discrezionalità del legislatore adottare misure generali di prevenzione del suicidio, nelle forme più varie, ad esempio incentivando il ricorso a cure palliative per i pazienti terminali o contrastando i diversi fattori, connessi a particolari condizioni di vita, che possono indurre le persone a togliersi la vita: ancora una volta, tuttavia, questo compito – che il legislatore è chiamato ad assolvere mediante adeguate politiche sociali – non può legittimare misure che comprimono, fino a eliminarlo, il diritto di autodeterminazione individuale.
In concreto – osserva la Corte – il divieto penale di assistenza al suicidio configurato dal § 217 finisce per svuotare di contenuto il diritto al suicidio. Vero che l’incriminazione riguarda soltanto una specifica tipologia di condotte di assistenza, ma risulta comunque sproporzionata perché le alternative disponibili non offrono una reale prospettiva di autodeterminazione, alla luce di un criterio di effettiva equivalenza.
Posto che anche nella vigenza della norma in esame era lecito l’aiuto prestato anche da medici in casi singoli e isolati (non, cioè, nell’esercizio di un’attività professionalmente organizzata), tale evenienza è risultata eccezionale, né d’altra parte esiste un obbligo di assistenza in capo ai medici stessi. L’aleatorietà di questa alternativa è poi aggravata dalla circostanza per cui spesso gli ordini locali, facenti capo a singoli Länder, pongono addirittura un divieto in capo al medico, rimettendo la scelta al singolo professionista e comunque creando disparità su base geografica.
Non rappresenterebbe una compensazione equivalente neppure il miglioramento delle cure palliative, la cui utilità si può cogliere, di fatto, nella prevedibile diminuzione delle richieste di suicidio assistito, ma che ben potrebbero essere rifiutate dal paziente, lasciato in tal caso senza alternative.
Infine, nemmeno può prendersi in considerazione la possibilità di indirizzare i richiedenti verso strutture all’estero, dovendo lo Stato farsi carico della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito del proprio ordinamento.
In definitiva, nel bilanciamento tra opposte esigenze, l’autonomia individuale, in linea di principio sacrificabile nei limiti di quanto ragionevole per tutelare interessi di terzi o della collettività (tra cui, in astratto, l’interesse a disincentivare potenziali emuli), non può subire restrizioni sproporzionate, vale a dire fino ad essere del tutto vanificata, come invece risulta per effetto della norma in esame.
Una conclusione che la Corte ritiene in linea con la Convenzione EDU, come interpretata dalle sentenze dei giudici di Strasburgo (vengono richiamate, nelle motivazioni ma non nel comunicato, le note pronunce Pretty, Haas e Koch).
7. Un ulteriore, peculiare profilo di illegittimità viene peraltro riscontrato nella violazione del “diritto fondamentale delle persone fisiche e delle organizzazioni che intendono prestare assistenza al suicidio”, il cui referente normativo è individuato nell’art. 12(1) della Legge Fondamentale (“diritto a scegliere liberamente la professione”) o, in subordine, nel già citato art. 2(2) (che riconosce il “diritto al libero sviluppo della personalità”).
Si tratta di un profilo che la Corte reputa strettamente interconnesso all’esigenza di attribuire effettività al già riconosciuto diritto della persona di darsi la morte e alla necessità che la medesima “garanzia costituzionale del diritto al suicidio” copra anche gli atti di coloro che contribuiscono a realizzarlo.
8. Esclusa la percorribilità di interpretazioni costituzionalmente orientate (“contrarie all’intento del legislatore”), la Corte dichiara quindi la norma illegittima.
La sentenza si conclude tuttavia con due precisazioni.
In primo luogo, la Corte si preoccupa ancora di ribadire come la caducazione della norma non impedisca al legislatore di predisporre un’apposita regolamentazione dell’assistenza al suicidio, purché sia rispettato quello che emerge come un duplice presupposto: da un lato, la necessità di presupporre una concezione “dell’uomo come essere morale e intellettuale capace di orientare e attuare la propria libertà in modo autonomo”, dall’altro il riconoscimento di uno spazio effettivo per poter esercitare tale libertà in accordo con i propri desideri. Su tali premesse, la Corte stessa indica al legislatore la disponibilità di un ampio spettro di azioni regolatorie (garanzie procedurali comprensive di obblighi di informazione, periodi di osservazione, autorizzazioni amministrative e accertamento che la volontà dell’individuo sia “autentica e definitiva”), eventualmente anche presidiate dalla sanzione penale, a condizione però che non si risolvano nel predefinire condizioni sostanziali per l’accesso al suicidio assistito (l’esempio è ancora una volta quello delle malattie incurabili).
In ogni caso si esclude, in modo perentorio, che possa mai configurarsi, carico di alcuno, un dovere di prestare assistenza al suicidio altrui.
[1] Le minime considerazioni introduttive contenute in questo paragrafo sono tutte tratte dall’ampio lavoro di studio comparato di M. Donini, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Dir. pen. cont., 15 marzo 2017, pp. 17-18.