Scheda  
03 Febbraio 2021


La Corte di giustizia riconosce il diritto al silenzio nell’ambito dei procedimenti amministrativi “punitivi”


Enrico Basile

CGUE, Grande Sezione, sent. 2 febbraio 2021, in C-489/19, D.B. c. CONSOB


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1. L’attesa pronuncia Consob della CGUE sul (doppio) rinvio pregiudiziale formulato dalla Corte costituzionale italiana con ordinanza n. 117 del 6 marzo-10 maggio 2019 risolve non soltanto la questione – in tema di market abuse e ‘diritto al silenzio’ – per la quale i giudici di Lussemburgo erano stati interpellati dalla Consulta, ma contribuisce anche a ridisegnare la fitta trama dei rapporti tra le supreme magistrature domestiche ed europee nella tutela ‘multilivello’ dei diritti umani e fondamentali. Rinviando a commenti più articolati gli approfondimenti delle complesse tematiche in gioco, sarà in questa sede offerta una sintesi del decisum, per poi abbozzare alcune considerazioni a prima lettura.

 

2. La vicenda che ha dato origine all’intervento della Corte di Giustizia UE per il tramite del Giudice delle leggi concerne un procedimento Consob per insider trading (ex art. 187-bis d. lgs. 58/1998, t.u.f.), nell’ambito del quale erano state irrogate misure sanzionatorie (formalmente) amministrative in base alle cadenze del ‘doppio binario’ punitivo in subiecta materia. Più nel dettaglio, l’Autorità di vigilanza sui mercati finanziari aveva inflitto sanzioni pecuniarie e interdittive in relazione a operazioni effettuate con abuso di informazioni privilegiate, nonché comunicazione illecita delle medesime, disponendo altresì la confisca omnibus prevista dall’art. 187-sexies t.u.f. e condannando infine il trasgressore – ai sensi dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f. – al pagamento di un’ulteriore somma (50.000 euro) per essersi rifiutato di rispondere alle domande rivoltegli in sede di audizione Consob quale persona informata sui fatti. Tutti i ricordati provvedimenti sanzionatori sono stati impugnati in sede giurisdizionale e, in ultima istanza, la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale sia circa la portata della misura ablatoria amministrativa conseguente all’accertamento di abusi di mercato, sia sul ‘diritto al silenzio’ dell’accusato.

Lo scrutinio di costituzionalità delle disposizioni censurate nel caso di specie ha dapprima indotto la Consulta a dichiarare illegittimo l’art. 187-sexies t.u.f. (tanto il testo vigente all’epoca dei fatti, quanto – in via consequenziale – la versione modificata ad opera del d. lgs. 107/2018: cfr. Corte cost., sent. 112/2019) nella parte in cui non circoscriveva la confisca al “profitto” degli illeciti di market abuse, mentre a proposito della seconda questione è stato formulato un duplice rinvio pregiudiziale alla CGUE (v. Corte cost., ord. 117/2019). Oggetto di quest’ultimo provvedimento è appunto la sanzionabilità del rifiuto di rispondere a domande dell’Autorità di vigilanza sui mercati finanziari (Consob) qualora ciò si traduca nel rendere dichiarazioni autoaccusatorie rispetto a fattispecie incriminatrici ovvero illeciti amministrativi comunque riportabili alla matière pénale in prospettiva CEDU: all’esito di un approfondito ragionamento sul diritto ‘punitivo’ in ambito interno e sovranazionale, si chiede alla Corte di Giustizia UE di valutare l’applicabilità del nemo tenetur se detegere in simili frangenti, eventualmente sotto forma di ‘controlimite’ fondato sugli artt. 47 e 48 CDFUE (al lume della giurisprudenza ‘euroconvenzionale’ concernente l’art. 6 CEDU) e sulle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

 

3. Con una pronuncia concisa ma assai densa dal punto di vista concettuale la Corte di Lussemburgo affronta la problematica della compatibilità con la CDFUE delle disposizioni contenute nella dir. 2003/6/CE (MAD I) e nel reg. (UE) 596/2014 (MAR) in punto di potestà sanzionatoria delle autorità di vigilanza sui mercati finanziari, a presidio delle proprie prerogative di controllo e di indagine su fatti di market abuse. Il nodo da sciogliere riguarda – come detto – il c.d. diritto al silenzio dell’accusato, comprendente tanto la facoltà di non rispondere tout court, quanto la garanzia di non dover altrimenti contribuire – sotto comminatoria di sanzioni – alla propria incolpazione.

Risolta rapidamente la questione preliminare di ricevibilità della domanda, anche a proposito della disciplina eurounitaria varata nel 2014 sebbene inapplicabile ratione temporis ai fatti in contestazione (posta l’evidente continuità normativa tra MAD I e MAR già ravvisata dalla Corte costituzionale italiana), la CGUE dirige l’attenzione al nucleo dell’interrogativo rivoltole tramite rinvio pregiudiziale, id est l’applicabilità e l’estensione del right to remain silent nell’ambito di procedimenti (formalmente) amministrativi nel comparto degli abusi di mercato.

La risposta dei giudici di Lussemburgo è articolata su un triplice piano: i) fondamento sovranazionale del ‘diritto al silenzio’; ii) sfera di operatività della garanzia de qua; iii) interpretazione delle disposizioni sospette di ‘illegittimità’ nella prospettiva integrata CDFUE/CEDU.

 

4. Il primo segmento della motivazione sulle questioni pregiudiziali si misura con il sistema delle fonti ‘europee’, nel reticolo dei rapporti fra CDFUE e CEDU: benché i parametri (super-)primari evocati dalla Corte rimettente riguardassero le garanzie ex artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ulteriore (e cruciale) norma interposta su cui fondare lo scrutinio delle norme sospette di illegittimità è l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti umani, come interpretato dalla case law di Strasburgo. Sotto questo preliminare profilo la decisione in commento ribadisce recenti prese di posizione della medesima CGUE, secondo cui – pur in mancanza di formale adesione alla CEDU – l’Unione europea riconosce e fa propri (quali principi giuridici generali, a mente dell’art. 6 TUE) i diritti fondamentali (rectius, umani) di matrice ‘euroconvenzionale’, senza contare che la stessa Carta di Nizza (art. 52, par. 3, CDFUE) contempla un meccanismo di armonizzazione fra i diritti riconosciuti in ambito UE e quelli consacrati nella ‘grande Europa’. Posta la perfetta corrispondenza – confermata dalle stesse Spiegazioni relative alla Carta di Nizza – fra artt. 47-48 CDFUE e art. 6 CEDU, ne deriva il carattere vincolante di quest’ultima disposizione (e dell’interpretazione offertane dalla Corte EDU) anche nella ‘piccola Europa’.

Un rapido excursus sulla giurisprudenza di Strasburgo consente alla Corte di Giustizia UE di tratteggiare nitidamente i contorni del ‘diritto al silenzio’ che, sebbene privo di espressa menzione nell’art. 6 CEDU, costituisce nondimeno norma internazionale generalmente riconosciuta e principio immanente alla garanzia dell’“equo processo” cui è dedicata la richiamata disposizione ‘euroconvenzionale’. I precedenti della Corte EDU contribuiscono d’altronde a meglio delineare i confini del right to remain silent, da intendere non soltanto – in senso stretto – quale protezione dell’accusato rispetto all’impiego di strumenti coercitivi da parte delle autorità finalizzati a ottenere mezzi di prova, ma anche – soprattutto – come facoltà di astenersi dal deporre nonostante siano minacciate sanzioni per siffatto rifiuto e persino quando la deposizione non abbia natura propriamente ‘confessoria’ e si riferisca piuttosto a circostanze di fatto suscettibili di essere utilizzate come prove a carico.

Le suesposte coordinate del nemo tenetur se detegere in ottica CEDU risultano senza dubbio calzanti rispetto all’accertamento Consob in tema di abusi di mercato, dal momento che l’Autorità di vigilanza dispone di penetranti poteri investigativi e la mancata ottemperanza a richieste di informazioni – indipendentemente dallo status di incolpato del destinatario – è sottoposta a comminatoria amministrativa dall’art. 187-quinquiesdecies t.u.f., che costituisce trasposizione domestica di apposite previsioni eurounitarie circa i poteri di controllo e di indagine delle “autorità competenti” (cfr. il combinato disposto degli artt. 12 e 14 MAD I, nonché – dopo la riforma del 2014 – degli artt. 23 e 30 MAR). Sotto quest’ultimo profilo i giudici di Lussemburgo hanno comunque cura di precisare come la facoltà dell’accusato di rimanere in silenzio non possa estendersi fino a compromettere del tutto le funzioni dell’Authority, sicché l’omessa collaborazione tout court (per esempio rifiutandosi di comparire o mettendo in atto manovre dilatorie) rimane al di fuori della sfera di protezione dei diritti umani/fondamentali e integra una condotta di ostacolo certamente sanzionabile ai sensi delle ricordate previsioni eurounitarie.

 

5. Una volta disegnato il perimetro del ‘diritto al silenzio’ sulla scorta delle fonti sovranazionali, il passaggio successivo della sentenza consiste – come anticipato – nell’individuazione dei margini applicativi di tale garanzia, con precipuo riguardo all’estensione del c.d. volet pénal dell’art. 6 CEDU a procedimenti e apparati sanzionatori (formalmente) amministrativi, tra i quali rientrano quelli di competenza Consob. La questione è risolta senza sforzo dalla CGUE, che ha ormai definitivamente importato nella ‘piccola Europa’ la nozione di matière pénale da tempo elaborata dalla giurisprudenza di Strasburgo, adottando un approccio sostanzialistico (compendiato nei c.d. Engel criteria) in virtù del quale l’etichetta attribuita dall’ordinamento nazionale a una determinata misura afflittiva non è dirimente ai fini della qualificazione in termini di pena nella prospettiva ‘euroconvenzionale’, rilevando maggiormente la natura dell’illecito e – ancor più – il grado di severità della sanzione comminata. Alla luce dei criteri testé sintetizzati, non è difficile scorgere tratti ‘penali’ (ai soli fini CEDU – si badi – e non anche nella dimensione domestica: cfr. Corte cost., sent. 49/2015) nelle misure punitive irrogate da Consob, come già riconosciuto in più occasioni dalla Consulta e dagli stessi giudici di Lussemburgo.

D’altro canto, osserva acutamente la CGUE (di nuovo sulle orme della Corte costituzionale italiana), se anche si volesse negare il carattere di matière pénale alle sanzioni dell’Autorità di vigilanza sui mercati finanziari qui considerate, l’applicabilità del ‘diritto al silenzio’ deriverebbe pur sempre dall’utilizzabilità in sede penale dei mezzi di prova raccolti in seno al procedimento amministrativo per (i medesimi) fatti di market abuse, anche in ragione della previsione di un ‘doppio binario’ punitivo in tale comparto.

Nessun dubbio, in definitiva, sulla violazione degli artt. 47 e 48 CDFUE allorché una persona sia sanzionata per il rifiuto di fornire all’autorità competente informazioni contra se, sia in riferimento a illeciti amministrativi riportabili alla matière pénale, sia rispetto a reati in senso stretto. E non vale a scalfire la granitica conclusione appena riportata il richiamo (pure contenuto, in chiave dubitativa, nel rinvio pregiudiziale formulato dalla Consulta) alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE in ambito antitrust: per un verso, anche in tale peculiare contesto, i destinatari dei penetranti poteri ispettivi della Commissione europea non sono in alcun modo tenuti ad ‘autoincriminarsi’; per altro, come già lucidamente notato dal Giudice delle leggi italiano, la disciplina in parola trova applicazione limitatamente a imprese (anche in forma associata) e risulta insuscettibile di interpretazione analogica in malam partem nei confronti di persone fisiche.

 

6. L’ultimo tratto del percorso motivazionale della CGUE è dedicato alla lettura della normativa sul market abuse in ottica coerente con gli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza, tanto a livello sovranazionale, quanto nella dimensione domestica. Al riguardo i giudici di Lussemburgo richiamano anzitutto il principio ermeneutico generale in forza del quale occorre privilegiare, tra più possibili interpretazioni di un testo, quella conforme al diritto primario dell’Unione anziché quella/e in contrasto con esso. Posta tale importante premessa metodologica, la Corte di Giustizia UE ha buon gioco nell’affermare che il combinato disposto degli artt. 12 e 14 MAD I, come pure degli artt. 23 e 30 MAR, sebbene astrattamente interpretabili in senso limitativo o addirittura preclusivo rispetto al ‘diritto al silenzio’ dell’incolpato, non impongono affatto agli Stati membri di comprimere tale garanzia e devono invece essere letti in armonia con gli artt. 47 e 48 CDFUE, evitando quindi di sanzionare chi si rifiuti di fornire alle autorità competenti informazioni dalle quali potrebbero emergere profili di responsabilità ‘amministrativa’ (nell’accezione della matière pénale) o di tipo stricto sensu criminale.

 

7. La Grande Sezione della CGUE, in conclusione, statuisce: “L’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6 e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione, letti alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica, la quale, nell’ambito di un’indagine svolta nei suoi confronti dall’autorità competente a titolo di detta direttiva o di detto regolamento, si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale”.

 

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8. Le molteplici e complesse problematiche affrontate dalla pronuncia qui segnalata richiedono approfondimenti incompatibili con gli scopi del presente lavoro. Si possono nondimeno abbozzare, a caldo, due ordini di considerazioni: da un lato, appare certamente meritevole di risalto l’innovativa modalità di ‘dialogo’ fra il Giudice delle leggi italiano e la CGUE; dall’altro, con specifico riguardo al comparto del market abuse a livello domestico, emergono spunti di sicuro interesse non circoscritti al pur fondamentale ‘diritto al silenzio’ dell’accusato.

 

9. Per quanto attiene ai rapporti tra le supreme magistrature interne (in questo caso la Consulta) e i giudici di Lussemburgo, è significativo osservare come da ambo le parti siano stati superati i toni accesi – ai limiti dell’incomunicabilità – che avevano caratterizzato alcune fasi del ‘dialogo’ fra le Corti (basti pensare alla recente saga Taricco). La Corte costituzionale italiana adotta un’innovativa e apprezzabile logica bottom-up nella tutela ‘multilivello’ dei diritti umani/fondamentali, valorizzando per certi aspetti il meccanismo di sindacato diffuso tra i giudici nazionali circa la valutazione di compatibilità della legislazione domestica con il diritto dell’Unione europea e attribuendo alla CGUE l’inedito ruolo di promotrice delle garanzie sancite dalle Carte ‘europee’ in aggiunta alla ineliminabile funzione di verifica di conformità delle previsioni normative interne con le fonti UE di rango primario e derivato. La Corte di Lussemburgo non si mostra impreparata, né poco incline, a vestire i panni di ‘Giudice delle leggi UE’ nella stessa dimensione sovranazionale oltre che nei rapporti con gli Stati membri, il che potrebbe costituire il punto di partenza per un’evoluzione di non poco momento nella salvaguardia dell’individuo anche al di fuori del recinto penalistico.

 

10. Non meno rilevanti le implicazioni della sentenza qui brevemente commentata sulla disciplina degli abusi di mercato e del ‘doppio binario’ sanzionatorio tuttora previsto nell’ordinamento italiano. Posto che il nemo tenetur se detegere risponde a un’elementare e indiscussa logica di civiltà giuridica, la valorizzazione di siffatto principio potrebbe contribuire, in modo forse decisivo, a scardinare il cumulo procedimentale e punitivo in materia di market abuse. Il prolungato dibattito teorico-pratico sulla violazione del ne bis in idem connaturata al regime sanzionatorio in discorso si è invero arenato sulle secche dell’interpretazione (iper-)sostanzialistica sostenuta negli ultimi anni dalla giurisprudenza ‘europea’, in base alla quale la circolazione delle prove tra i distinti accertamenti (amministrativi e criminali) risulterebbe funzionale alla close connection tra gli stessi e, in ultima analisi, all’unitarietà del procedimento e delle relative ‘pene’. Una garanzia schiettamente processuale come il ‘diritto al silenzio’, ora esercitabile anche in sede amministrativa, appare però in netto contrasto con la criticabile osmosi tra le risultanze probatorie, finendo a ben vedere per rendere ineludibile l’esigenza di applicare i principi del giusto processo penale di cui agli artt. 6 CEDU e 47-48 CDFUE a indagini ‘amministrative’ ormai soltanto nella forma.