Kelly v. United States, 7 maggio 2020, n. 18-1059, Rel. J. Kagan
1. Con la decisione che può leggersi in allegato, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha all’unanimità annullato la sentenza di condanna nei confronti di una collaboratrice dell’ex Governatore dello Stato del New Jersey, Chris Christie, e di un altro importante funzionario pubblico, in relazione ad alcune condotte di frode ed abuso di potere. La sentenza presenta plurimi profili di interesse. Anzitutto, dalla vicenda in esame possono trarsi importanti indicazioni con riguardo allo stato di salute dei principi di legalità e di separazione dei poteri negli Stati Uniti. La decisione in commento poi, resa nei confronti di soggetti pubblici che si caratterizzano per una modalità dell’agire di natura politica, riecheggia – seppur in un contesto parzialmente diverso – quell’orientamento di self-restraint che la Corte Suprema ha ormai da qualche tempo costantemente adottato quando si tratta di valutare la rilevanza penale delle condotte asseritamente abusive o corruttive dei pubblici agenti che ricoprono un mandato elettivo[1]. Si tratta con tutta evidenza di tematiche non estranee al dibattito penalistico di casa nostra dove, di recente, diversi autorevoli Autori hanno invece segnalato, in materia di corruzione, la presenza di un orientamento giurisprudenziale di segno opposto, caratterizzato da una tendenza ad abbandonare gli argini sicuri della tipicità, incamminandosi sul crinale dell’iper-criminalizzazione[2].
2. Ma partiamo, come di consueto, dalla ricostruzione dei fatti dai quali ha avuto origine il procedimento. Durante la campagna elettorale del 2013 per l’elezione alla carica di Governatore dello Stato del New Jersey, l’allora Governatore in carica, Christopher Christie – importante leader del partito repubblicano che ambiva alla rielezione – aveva dato mandato alla vice-capo del suo staff, Bridget Anne Kelly, di raccogliere l’appoggio politico dei sindaci delle più importanti città dello Stato. Tale ricerca di sostegno elettorale non era limitata agli esponenti del partito repubblicano ma si rivolgeva anche ai sindaci ‘democratici’: garantirsi il loro endorsement sarebbe stato infatti estremamente significativo nell’ottica di dirottare su Christie i voti di un elettorato ‘non repubblicano’, indebolendo così il candidato del partito avversario. L’allora sindaco ‘democratico’ della città di Fort Lee, Mark Sokolich, sollecitato a sostenere il Governatore in carica nella campagna elettorale che si sarebbe di lì a poco aperta, aveva tuttavia negato il suo appoggio. In seguito a questo diniego la vice capo dello staff di Christie si era decisa a ‘punire’ il sindaco per il suo rifiuto. Quest’ultima ha quindi contattato due alti funzionari dell’Autorità portuale convincendoli – senza alcuna corresponsione di denaro o altra utilità – a fare in modo che i caselli per il pagamento del pedaggio sul ponte George Washington, riservati esclusivamente agli automobilisti provenienti da Fort Lee e diretti a Manhattan, fossero ridotti da tre a uno. La città di Fort Lee è infatti collegata a New York attraverso questo ponte sul fiume Hudson, che rappresenta una delle poche vie d’accesso alla penisola di Manhattan per i moltissimi lavoratori, residenti nel New Jersey, che tutte le mattine si spostano per raggiungere il luogo di lavoro. Tale cambiamento della viabilità, che è rimasto in essere per quattro giorni, ha quindi determinato un vero e proprio blocco del traffico, impedendo di fatto gli spostamenti di superficie dei pendolari di Fort Lee, concittadini del sindaco Sokolich. I due funzionari dell’Autorità portuale, sollecitati in quei giorni a giustificare tale cambiamento, hanno ovviamente celato la motivazione politica della loro scelta, adducendo come scusa il fatto che stessero mettendo a punto un nuovo piano per il miglioramento della viabilità. Le reali intenzioni di Kelly e dei funzionari dell’Autorità portuale sono tuttavia emerse chiaramente dalle intercettazioni e dalle confessioni degli stessi protagonisti della vicenda, dalle quali si è evinto, senza ombra di dubbio, l’intento politico e ‘punitivo’ che ha animato l’ideazione e la realizzazione del loro piano. Uno dei due funzionari si è dichiarato colpevole e ha deciso di patteggiare, mentre il secondo e Kelly sono stati imputati dei delitti di wire fraud (18 U.S.C. § 1343) e di theft or bribery concerning programs receiving Federal funds (18 U.S.C. § 666)[3]. Quest’ultimi sono stati condannati in primo grado in seguito ad un verdetto di colpevolezza della giuria e la Corte d’appello del terzo circuito ha quindi confermato le statuizioni del tribunale di prime cure. La Corte Suprema degli Stati Uniti, dopo aver ammesso il ricorso concedendo il c.d. writ of certiorari[4], ha infine annullato la sentenza della Corte d’appello, con le argomentazioni che andiamo ad illustrare di seguito.
3. La prima delle due fattispecie sopracitate – quella di wire fraud (18 U.S.C. § 1343) – incrimina, tra le altre, la condotta di chi abbia ideato o tentato di ideare, attraverso l’uso di comunicazioni via cavo (telefono, e-mail, e rete internet), un qualsiasi schema per realizzare una frode, o per ottenere denaro o altra utilità per mezzo di falsi o fraudolenti pretesti, dichiarazioni o promesse[5]. La seconda norma incriminatrice, invece, quella di theft or bribery concerning programs receiving Federal funds (18 U.S.C. § 666), punisce, tra gli altri, chi – agendo per conto di un’organizzazione o di un governo statale o locale (..) – si appropria, sottrae, ottiene a mezzo di una frode, abusa o, senza averne il potere, consapevolmente distoglie dall’uso del legittimo proprietario i) un bene che abbia un valore superiore ai cinque mila dollari e che ii) sia di proprietà o sotto la cura, la custodia o il controllo delle sopradette organizzazioni o governi[6]. Si tratta di ipotesi di reato eterogenee e dai contorni vaghi e imprecisi, che comprendono in sé anche condotte che – in un paragone con il sistema italiano – potrebbero essere ricondotte alle figure del peculato (art. 314 c.p.) e dell’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). La ragione di queste ampie formulazioni risiede nel fatto che il legislatore federale, con l’introduzione soprattutto della fattispecie di cui al § 666 U.S.C., ha voluto disporre di uno strumento adeguato per proteggere, da qualsiasi condotta di sottrazione, distrazione, mercimonio o abuso, l’enorme quantità di denaro (federale) che viene elargita da Washington ai governi statali e locali, nonché alle organizzazioni private.
A detta della Corte Suprema è ora costante in giurisprudenza l’orientamento secondo cui, per affermare la sussistenza di entrambe le ipotesi di reato, è necessario dimostrare che è avvenuta una c.d. property fraud. Ovvero, che il soggetto agente ha posto in essere le condotte di frode sopradescritte con l’intento di ottenere un vantaggio di natura patrimoniale, arrecando così un danno, anch’esso di natura patrimoniale, ad un individuo o alla collettività. In altre parole, il concetto di property fraud impedisce a tali norme penali di ricomprendere nel proprio campo di applicazione qualsiasi ‘atto di disonestà’ realizzato da funzionari statali e locali.
Alcuni decenni fa, in senso opposto, le Corti d'appello statunitensi interpretavano le fattispecie in esame nel senso di ricomprendervi anche il divieto di qualsiasi schema fraudolento rivolto a “privare i cittadini del loro diritto intangibile ad un governo onesto e imparziale”. La Corte Suprema, nella sentenza McNally v. US[7], ha posto fine a questo orientamento, affermando al contrario che le norme penali sopracitate devono limitarsi alla protezione dei diritti di proprietà degli individui. Tale interpretazione restrittiva è valsa allora ad impedire che i procuratori federali, attraverso l’applicazione dei reati di frode, potessero fissare standard di trasparenza e buona condotta nell’azione dei funzionari statali o locali[8]. Successivamente, il Congresso federale, nell’intento di disinnescare tale decisione, ha promulgato una legge nella quale veniva sancita la rilevanza penale anche di quelle frodi realizzate da funzionari pubblici al fine di “privare qualcuno del diritto intangibile ad un trattamento onesto” (18 U.S.C. § 1346)[9], a prescindere dal contenuto patrimoniale del danno realizzato nei confronti della vittima. La vaghezza di questa formulazione – “privare qualcuno del diritto intangibile ad un trattamento onesto” – ha tuttavia indotto la Corte Suprema ad un ulteriore intervento, che delimitasse il contenuto della nuova norma. Nella celebre sentenza Skilling v. United States[10], trovandosi a dover decidere della costituzionalità della nuova legge in relazione al principio di precisione, la S.C. ha affermato infatti che l’unico modo per pervenire ad un’interpretazione conforme a Costituzione di tale disposizione è quello di ricondurvi la sola ipotesi della condotta fraudolenta realizzata, a danno di un singolo soggetto o della generalità dei consociati, attraverso lo scambio di tangenti, in violazione del dovere di comportarsi onestamente. Il risultato di quest’ultima presa di posizione è stato allora quello di escludere molte condotte abusive dei pubblici funzionari dal campo della rilevanza penale, rimettendole esclusivamente all’eventuale giudizio critico degli elettori, che sceglieranno con il voto, quali funzionari – o meglio, quale compagine politica e a cascata, attraverso il meccanismo dello spoils system, quali funzionari – investire del potere pubblico. Salvo per le ipotesi di corruzione – che tuttavia non vengono in rilievo nel caso in esame – le norme incriminatrici di cui ai §§ 666 e 1343, 18 U.S.C. possono allora dirsi applicabili solo quando un pubblico ufficiale statale o locale pone in essere una frode per ottenere un vantaggio di natura patrimoniale, danneggiando patrimonialmente un singolo soggetto o la collettività.
4. Ebbene, alla luce di questo background normativo e giurisprudenziale, la Corte Suprema ha avuto buon gioco nel concludere che gli atti realizzati dai funzionari dell’Autorità portuale su input della vice capo dello staff di Christie – ovvero la riduzione delle corsie di pedaggio del ponte George Washington destinate agli automobilisti provenienti da Fort Lee – non erano indirizzati ad ottenere un vantaggio patrimoniale ma, al contrario, erano semplicemente espressione del potere normativo riservato alla stessa autorità («quintessential exercise of regulatory power»[11]), non potendo quindi ricadere nel campo di applicazione delle norme penali sopradescritte (§§ 666 e 1343, 18 U.S.C). Secondo la Corte Suprema, i due funzionari dell’Autorità portuale, istigati da Kelly, hanno semplicemente esercitato la loro potestà regolamentare, decidendo che gli automobilisti di Fort Lee avrebbero dovuto vedersi riservate due corsie in meno, mentre i conducenti provenienti dalle autostrade vicine ne avrebbero potute utilizzare due in più. Dalle prove raccolte è emerso con chiarezza che questa decisione è stata animata da uno scopo politico e ‘punitivo’ nei confronti del sindaco Sokolich, oltre che essere giustificata da una falsa motivazione (gli studi sul traffico e la viabilità), ma la Corte non ha comunque potuto concludere che tale atto fosse indirizzato all’ottenimento di un vantaggio patrimoniale. Circostanza, quest’ultima, che ha escluso la sussistenza nel caso concreto dei reati di cui ai §§ 666 e 1343 U.S.C.
5. Al netto delle questioni riguardanti la stretta interpretazione delle disposizioni incriminatrici, la decisione in esame – lo dicevamo già in avvio – ci sembra meritevole di attenzione in ragione dei risvolti che da essa discendono con riferimento ai principi di legalità e di separazione dei poteri. La giudice Kagan, supportata dal parere favorevole di tutto il collegio, nel proporre un’interpretazione restrittiva delle norme penali in questione ha infatti affermato che i delitti di frode dei funzionari pubblici non possono essere utilizzati per fissare standard di trasparenza e buona condotta nell’azione amministrativa. «Se i procuratori federali degli Stati Uniti potessero perseguire, con le norme penali di frode, ogni bugia che un funzionario pubblico statale o locale racconta nel prendere le proprie decisioni, il risultato che ne deriverebbe sarebbe una troppo ampia espansione della giurisdizione federale. (..) Così facendo i procuratori federali potrebbero servirsi del diritto penale per far sì che l’azione amministrativa, nei più diversi settori dell’amministrazione statale e locale, corrisponda alla propria visione di integrità del potere pubblico»[12]. Un risultato a cui la Corte non è voluta pervenire.
Persino l’avvocato di Kelly ha riconosciuto che, con le loro condotte, gli imputati hanno realizzato un manifesto abuso di potere. Secondo la Corte, tuttavia, non tutti gli atti abusivi dei funzionari statali o locali integrano un delitto federale. Nonostante l’abuso di potere realizzato dai pubblici agenti sia agli occhi di tutti macroscopico – oltre che motivato da ragioni che nulla hanno a che vedere con il buon andamento e l’efficacia dell’azione amministrativa – ciò non basta a concludere per la rilevanza penale del fatto. Il principio di legalità anche nell’ordinamento americano impone infatti, come è ovvio, di dimostrare la presenza nel caso concreto di tutti gli elementi costitutivi dalla norma incriminatrice. Il carattere manifesto dell’abuso di potere e la motivazione prettamente ‘punitiva’ che lo ha ispirato, e che risulta particolarmente odiosa e riprovevole, non permettono tuttavia fughe in avanti da parte del giudice penale: la Corte, nell’annullare la condanna a causa della mancanza di un elemento costitutivo comune alle due norme incriminatrici contestate, ha affermato infatti che il compito della giurisdizione non è quello di fare valutazioni etiche, soprattutto quando tali valutazioni riguardano l’azione degli organi/enti che costituiscono un autonomo potere dello Stato, quello esecutivo. Una conclusione che ci fa tornare alla mente una vicenda analoga di qualche anno fa, che ha occupato per molto tempo le pagine dei giornali di casa nostra: ci riferiamo al c.d. processo Ruby, dove a fronte della prova certa della commissione di un abuso di potere dell’allora Presidente del Consiglio Berlusconi, nel momento in cui aveva chiesto al Capo di Gabinetto della Questura di Milano di rilasciare una minorenne, non era seguita una condanna per concussione (art. 317 c.p.), né tantomeno per i delitti meno gravi di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.) o abuso d’ufficio (art. 323 c.p.)[13].
6. Si è detto infine che la decisione in commento, resa nei confronti di soggetti pubblici che si caratterizzano per una modalità dell’agire di natura politica, riecheggia – seppur in un contesto parzialmente diverso – quell’orientamento di self-restraint che la Corte Suprema ha ormai da qualche tempo costantemente adottato quando si tratta di valutare la rilevanza penale delle condotte asseritamente abusive o corruttive dei pubblici agenti che ricoprono un mandato elettivo. Si tratta di una tendenza questa, che può individuarsi ormai da qualche anno anche e soprattutto con riferimento ai reati di corruzione. In questo ambito si segnalano infatti pronunce della Corte Suprema (e a cascata delle Corti d’Appello dei circuiti) che, quando vengono in rilievo soggetti pubblici ‘eletti’, propongono un approccio interpretativo più rigoroso, indirizzato sempre ad interpretare gli elementi costitutivi delle norme incriminatrici in senso restrittivo, escludendo così dal campo della rilevanza penale, considerandole lecite, condotte che astrattamente corrisponderebbero, invece, alla descrizione delle ampie e indeterminate figure penali dello U.S. Code che, a vario titolo, incriminano gli abusi e la corruzione.
Un esempio lampante di questa tendenza è rappresentato dalla ormai celebre sentenza McDonnell v. U.S.[14] che nel 2016 ha inaugurato un orientamento interpretativo che considera in senso restrittivo la nozione di atto d’ufficio (‘official act’) presente nelle diverse fattispecie di corruzione. Con tale decisione la Corte Suprema ha annullato una sentenza di condanna nei confronti dell’ex Governatore dello Stato della Virginia, Robert McDonnell, che aveva ricevuto vantaggi in denaro quali contropartita per svolgere un’azione di sponsorizzazione dell’attività imprenditoriale di un suo elettore presso altri pubblici ufficiali, facendo in modo che questi riuscisse a fare la conoscenza di importanti dirigenti pubblici che potevano favorire i suoi interessi. La Corte ha ritenuto che tali condotte di intermediazione non potessero rientrare nel concetto di ‘official act’ e quindi essere l’oggetto di uno scambio corruttivo. La ragione di tale estromissione è stata fatta risalire alla necessità di tenere conto delle caratteristiche proprie del contesto politico, non criminalizzando così, in questo caso, condotte ritenute coessenziali allo svolgimento di un incarico elettivo nel contesto di una democrazia rappresentativa.
Ebbene, seppur nel caso concreto i soggetti coinvolti non erano pubblici ufficiali ‘eletti’, essi svolgevano la loro funzione in un contesto lato sensu politico, e comunque facendosi influenzare e prendendo le proprie decisioni anche e soprattutto sulla base di motivazioni politiche. L’atteggiamento di self-restraint della Corte Suprema si spiega allora anche alla luce dell’ambito, politico appunto, in cui si svolge la vicenda in esame, allineandosi così alla giurisprudenza in materia di corruzione a cui abbiamo fatto cenno poco sopra. La Corte sembra ribadire che, quando si tratta di vicende che coinvolgono direttamente figure pubbliche ‘elette’ o, come in questo caso, soggetti ad essi collegati e che si muovono secondo le loro direttive, è a maggior ragione giustificato un atteggiamento interpretativo di stretta aderenza al principio di legalità. L’opinione unanime della Corte Suprema è infatti nel senso di non permette discostamenti dal dato letterale della formulazione delle norme incriminatrici al fine di fissare standard di trasparenza e buona condotta nell’azione politica-amministrativa. Il carattere ictu oculi abusivo – oltre che certamente biasimevole – delle azioni poste in essere dagli imputati non è allora sufficiente a giustificare l’intervento penale, ma, secondo la Corte, ad esse potrà comunque porre rimedio il giudizio degli elettori, legittimati, in ultima istanza, a sanzionare con il loro voto la mala gestio del potere pubblico.
[1] Cfr. G.L. Gatta, La repressione della corruzione negli Stati Uniti: strategie politico-giudiziarie e crisi del principio di legalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, fasc. 3, p. 1281 ss.
[2] Ci si riferisce in particolare, senza pretese di esaustività, a V. Manes, Corruzione senza tipicità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, fasc. 3, p. 1126 ss.; R. Alagna, Lobbying e diritto penale. Interessi privati e decisioni pubbliche tra libertà e reato, Torino, 2018. F. Palazzo, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. pen., 2015, fasc. 10, p. 3389 ss.
[3] Con la dicitura U.S.C. ci si riferisce allo United States Code, ovvero la raccolta delle leggi federali degli Stati Uniti, nella quale è presente anche un titolo – il diciottesimo – dedicato al diritto penale e alla procedura penale.
[4] La Corte Suprema non è tenuta ad esaminare tutti i ricorsi che le vengono proposti: essa accetta di giudicare – concedendo il writ of certiorari – soltanto sui casi che in sede preliminare le appaiono tali da presentare una questione di diritto dotata di una certa importanza.
[5] Cfr. la formulazione originale della norma § 1343: «Whoever, having devised or intending to devise any scheme or artifice to defraud, or for obtaining money or property by means of false or fraudulent pretenses, representations, or promises, transmits or causes to be transmitted by means of wire, radio, or television communication in interstate or foreign commerce, any writings, signs, signals, pictures, or sounds for the purpose of executing such scheme or artifice, shall be fined under this title or imprisoned not more than 20 years, or both».
[6] Cfr. la formulazione originale della norma § 666 (a): «Whoever, if the circumstance described in subsection (b) of this section exists – (1) being an agent of an organization, or of a State, local, or Indian tribal government, or any agency thereof – (A) embezzles, steals, obtains by fraud, or otherwise without authority knowingly converts to the use of any person other than the rightful owner or intentionally misapplies, property that – (i) is valued at $5,000 or more, and (ii) is owned by, or is under the care, custody, or control of such organization, government, or agency (..) shall be fined under this title, imprisoned not more than 10 years, or both».
[7] McNally v. United States, 107 S. Ct. 2875 (1987).
[8] Kelly v. United States, 140 S. Ct. 1565 (2020), 1571: «They did not authorize federal prosecutors to “set (..) standards of disclosure and good government for local and state officials”».
[9] Cfr. § 1346: «for the purposes of this chapter, the term “scheme or artifice to defraud” includes a scheme or artifice to deprive another of the intangible right of honest services».
[10] Skilling v. United States, 130 S. Ct. 2896 (2010).
[11] Kelly v. United States, cit., 1572.
[12] Ivi, 1574: «If U. S. Attorneys could prosecute as property fraud every lie a state or local official tells in making such a decision, the result would be (..) “a sweeping expansion of federal criminal jurisdiction”. (..) In effect, the Federal Government could use the criminal law to enforce (its view of ) integrity in broad swaths of state and local policymaking. The property fraud statutes do not countenance that outcome».
[13] Cfr. G.L. Gatta, La sentenza della Cassazione sul caso Berlusconi-Ruby: tra morale e diritto, in Dir. pen. cont., 24 giugno 2015.
[14] McDonnell v. United States, 136 S. Ct. 2355 (2016).